Print Friendly, PDF & Email

Scenari possibili dopo la crisi globale1

Domenico Mario Nuti2

1. La nuova crisi globale: déjà vu

La crisi globale iniziata nell'estate 2007 è senza dubbio “la più seria crisi finanziaria che abbiamo visto dagli anni „trenta in poi, se non da sempre” (Merving King, Governatore della Banca d‟Inghilterra, Sunday Times, 9/10/2011). E non solo questa crisi non è ancora finita. Non solo si sono verificate e ci si attendono ancora, dopo timidi parziali inizi di ripresa, nuove ricadute o “double dips”, soprattutto nella zona dell‟euro nel primo semestre del 2012 (compresa l'Italia al -0,5% per tutto l‟anno, secondo le previsioni dell‟OCSE di novembre 2011 (OECD, 2011a), o al - 1,6% secondo la Confindustria; come del resto la Grecia e il Portogallo rispettivamente al -3% e al -3,2%). Quel che è peggio è che alla fine del 2011 il ciclo economico del 2007-20?? si trova in esattamente la stessa, identica posizione dell‟estate 2007, con le stesso tipo di forze all‟opera e lo stesso meccanismo malefico innescato di nuovo, ma su una scala maggiore e in una forma molto più grave.

Infatti la crisi globale corrente iniziava nell‟agosto 2007 come crisi bancaria negli Stati Uniti, in seguito all‟accumulazione nei bilanci delle banche di titoli “tossici” che incorporavano prestiti immobiliari a mutuatari resi insolventi dalla loro disoccupazione, dall‟aumento dei tassi di interesse e dallo scoppio della bolla immobiliare. L'espansione di questi mutui, nonché di mutui al consumo tramite altri prestiti e carte di credito, era stata facilitata dalla de-regolamentazione finanziaria: ad esempio, l'abolizione nel 1980 della "Regulation Q che proibiva alle banche di pagare interessi sui depositi a vista, e nel 1999 della legge Glass-Steagall, che prima separava le attività di credito al dettaglio e di investimento delle banche. Più in generale questi sviluppi erano incoraggiati dal predominio dell‟ideologia iper-liberale che dagli anni novanta si diffondeva negli Stati Uniti, nel Regno Unito e nell‟economia globale.

Questi fattori avevano condotto all‟ipertrofia delle transazioni finanziarie, soprattutto centrate su cartolarizzazioni, prodotti derivati (il cui valore dipende da quello di assets sottostanti, quali azioni, obbligazioni, materie prime e valute) e altri strumenti finanziari originariamente creati allo scopo di diversificare e distribuire il rischio, riducendo così il rischio individuale, poi trasformatisi invece in strumenti di assunzione e moltiplicazione del rischio e di pura speculazione.

La crisi bancaria statunitense si trasformava in una stretta creditizia (credit squeeze, seguìto da un più serio credit crunch, con la virtuale cessazione del credito interbancario) che deprimeva gli investimenti delle imprese e il credito al commercio, compreso il commercio internazionale. In questo modo la stretta si diffondeva a livello globale attraverso il declino del volume degli scambi commerciali fra paesi (soprattutto nel 2008, dopodiché la crescita dell‟interscambio globale riprendeva senza però propellere l‟economia globale nel suo corso precedente), anche per il rallentamento e spesso l‟inversione dei movimenti di capitali, sia per investimenti finanziari che per Investimenti Diretti Esteri3.

Questi sviluppi generavano una crisi fiscale nei paesi colpiti, a causa del costo enorme del salvataggio di istituzioni finanziarie a spese del bilancio statale, del costo crescente della disoccupazione del lavoro, nonché del declino del gettito fiscale dovuto alla recessione. In questi modi la crisi bancaria si è trasformata in una diffusa crisi del debito sovrano di molti governi, che si è manifestata con il declassamento dei titoli di stato da parte delle Agenzie di Rating, la caduta del loro prezzo nei mercati finanziari e quindi laumento del tasso di rendimento che era necessario offrire per il loro rinnovo alla scadenza (in assoluto o relativamente al tasso di rendimento sui titoli di stato tedeschi considerati come i più sicuri, quali i Bunds a dieci anni), oppure l‟aumento del premio di assicurazione necessario a coprire gli investitori contro una sempre più probabile insolvenza dei governi più indebitati, con l‟acquisto di Credit Default Swaps.

Inizialmente il declino della produzione industriale, del volume del commercio internazionale e dei valori di capitalizzazione delle borse replicava l‟andamento e le tendenze della crisi del 1929-32, ma presto l‟impatto della crisi e del contagio internazionale erano mitigati da un‟espansione monetaria e da uno stimolo fiscale simultanei, co-ordinati internazionalmente, introdotti alla fine del 2008 e nei primi mesi del 2009 per iniziativa del Fondo Monetario Internazionale e dei paesi del G-20. Tuttavia l‟espansione monetaria (che comprendeva un programma di 700 miliardi di dollari per la ri-capitalizzazione delle banche statunitensi, il Troubled Asset Relief Fund, o TARP) non riuscì a rilanciare lo sviluppo economico, sia perché spesso le banche non passavano ai loro clienti la riduzione del costo del denaro, sia perché un‟eventuale riduzione dei tassi di interesse si traduceva in un aumento della domanda di moneta per effetto della “preferenza per la liquiditàdi keynesiana memoria, già manifestatasi in maniera esacerbata in vent‟anni di ristagno dell‟economia giapponese nonostante tassi di interessi vicini allo zero. Preoccupazioni crescenti circa la sostenibilità del debito pubblico presto conducevano ad una uscita prematura dallo stimolo fiscale in un numero crescente di paesi.

Naturalmente l‟uscita – collettiva e anch‟essa in gran misura co-ordinata e quindi con effetti amplificati da strategie espansive fiscali e monetarie conduceva al rallentamento dello sviluppo, tranne che nei maggiori paesi emergenti, i cosiddetti BRICS (Brasile, Russia, India, Cina, Sudafrica, che oggi rappresentano il 18% del PIL mondiale e la maggior parte della sua crescita). Questo rallentamento a sua volta peggiora le possibilità di sostenere il debito pubblico dei paesi che pagano un tasso di interesse crescente per il suo rinnovo. Oggi i titoli di stato nei portafogli delle banche assumono il ruolo che i titoli tossici privati avevano all’inizio della crisi. Il ciclo ha già cominciato a ripetersi, su scala allargata visto il maggiore volume del debito pubblico e la crescente sfiducia dei mercati finanziari circa la sua sostenibilità.

Ci sono diversi aspetti preoccupanti di questa nuova crisi. Questa volta non solo le banche, ma anche le compagnie di assicurazione sono in pericolo. Il Consiglio Europeo dellottobre 2011 chiedeva alle banche di iniziare loro stesse la ri-capitalizzazione con il ricorso al mercato (ossia con raccolta di nuovi capitali o la liquidazione di titoli di stato in loro possesso), prima di poter ricorrere all‟intervento pubblico nazionale e poi europeo. Inoltre è prevista una maggiore copertura della loro capitalizzazione, sia per i nuovi criteri della Bank of International Settlements (Basel III) sia per la maggiore cautela delle autorità europee. Ad esempio, la European Banking Authority EBA oggi richiede che le banche valutino i titoli di stato al loro prezzo corrente, secondo il principio mark to market, anche se i titoli sono detenuti come investimento di portafoglio fino al loro rimborso atteso alla scadenza, e non temporaneamente in vista di una prossima vendita. La stessa EBA ha disposto l‟aumento al 9% del rapporto di capitalizzazione per il cosiddetto “core tier one” dei loro risk-weighted assets (RWA), già a partire dalla fine del giugno 2012. Senza contare che le interconnessioni fra banche e governi sono molto più diffuse ed intense, e quindi maggiormente passibili di contagio, di quelle che intercorrevano fra le banche nella prima fase della crisi.

Quindi il credit crunch dovuto ai titoli tossici pubblici si tradurrà in una nuova e più severa stretta creditizia, un nuovo azzeramento del credito inter-bancario, un più profondo avvitamento del commercio e degli investimenti internazionali, e l’innescamento di una spirale di aspettative auto-realizzantesi di crisi del reddito e dell’occupazione seguìta da un ulteriore aggravamento della crisi del debito sovrano. Nella seconda metà di novembre 2011 questa crisi si acuiva marcatamente e pericolosamente. Il Ministro del Tesoro australiano si riferiva alla gestione della crisi da parte delle autorità europee come “uno scontro ferroviario visto al rallentatore”. A fine novembre l‟Agenzia di Rating Moody's dichiarava che “la probabilità di defaults multipli da parte di paesi dell’area dell’euro non è più trascurabile". Si temeva e si teme tuttora che questa crisi si traduca in una crisi di liquidità del sistema bancario europeo con ripercussioni recessive a livello globale.

Oggi è in discussione la stessa sopravvivenza dell’euro come vedremo meglio più avanti. Una malaugurata dis-integrazione dell‟area dell‟euro avrebbe effetti recessivi catastrofici in Europa ed stata descritta come Armageddon (L’Espresso del 10/11/2011), Doomsday (Van Overtveldt, 2011), Pandemonium (Buiter, 2011a), Apocalisse (forexinfo.it, 3/12/111).

Nel medio-lungo periodo naturalmente per quelli fra noi che ci arriveranno prima o poi l‟economia globale dovrebbe essere in grado di riprendersi. Ogni crisi porta con sé i germi di una ripresa. La disoccupazione di massa deprime i salari rispetto agli aumenti di produttività, facendo aumentare la profittabilità della produzione e dell‟investimento. Il logorio fisico degli impianti produttivi a un certo punto comincia a stimolarne il rinnovo, così come fa la loro obsolescenza tecnica con l‟accumulazione continua di invenzioni; le scorte si riducono e a un certo punto dovranno essere re-integrate. Lo stesso rallentamento del declino può far ri-partire la ripresa. Una volta avviata, la ripresa tende a essere amplificata da effetti indiretti, quali la solita interazione fra moltiplicatore e acceleratore, fino a quando si incontrano di nuovo i vincoli della capacità produttiva potenziale e, di rimbalzo, il meccanismo ciclico ricomincia ad agire in senso inverso. Tale è nel male e nel bene la logica inesorabile dell‟economia di mercato.

Tuttavia affidarsi esclusivamente ai meccanismi di auto-regolazione dei mercati nelle circostanze attuali probabilmente condurrà ad una recessione molto più dirompente e distruttiva di tutte le precedenti, e a una ripresa molto più tardiva e più lenta, di quanto non sarebbe possibile con interventi del governo e di promozione dello sviluppo (jump-starting).

Alla fine della nuova ondata di crisi, è altamente improbabile che il sistema economico globale riprenda il suo corso precedente la crisi, in termini di grandezze economiche o della loro distribuzione: è questo il fenomeno noto come istèresi, con cui si designa l'incapacità del tasso di disoccupazione di tornare al livello iniziale dopo uno shock avverso; lo stesso vale per la probabile incapacità di ritornare alle istituzioni e alle politiche economiche di prima della crisi. L‟assetto dell‟economia globale dopo la crisi sarà path-dependent, ossia dipendente dal sentiero di politiche e istituzioni che avranno caratterizzato e accompagnato la gestione della crisi stessa.


2. Politiche keynesiane e non


Le politiche macro-economiche anticicliche seguìte agli inizi della crisi sembravano avere un sapore keynesiano, stimolando la domanda aggregata con tagli alle imposte, espansione monetaria e bassi tassi di interesse. Ma i tagli alle imposte incoraggiavano solo temporanei aumenti di consumo, e la politica monetaria a tassi di interesse già molto bassi non poteva essere efficace, soprattutto in una fase di contrazione della domanda. Rimedi keynesiani avrebbero richiesto invece investimenti pubblici in infrastrutture, nonché incentivi diretti a incoraggiare investimenti privati in modi diversi da una riduzione del tasso di interesse, per di più non goduta dalla maggioranza delle imprese.

Il salvataggio delle istituzioni finanziarie comportava un massiccio trasferimento di ricchezza dai contribuenti ai creditori delle banche, compresi i depositanti e gli azionisti oltre che i detentori delle loro obbligazioni. C‟erano tre soluzioni alternative a questo trasferimento. La prima poteva essere quella di lasciare che gli improvvidi prestatori di denaro a debitori insolventi soffrissero tutte le perdite derivanti dall‟insolvenza: dopo tutto questa è la logica caratteristica dell‟economia di mercato, per cui chi si assume un rischio e lucra un profitto in caso di successo è esposto ad una corrispondente perdita in caso di insuccesso. Non c‟è motivo perché si debbano socializzare le perdite quando tutti i profitti rimangono privati. Ma lasciamo da parte questa alternativa, in considerazione degli effetti potenzialmente dirompenti del fallimento delle istituzioni finanziarie (come nel caso della Lehman Brothers il 15 settembre 2008) dovuti soprattutto alla distruzione della fiducia del pubblico in tali istituzioni. Rimangono due alternative, ambedue superiori sia al fallimento delle istituzioni finanziarie sia al loro salvataggio diretto a spese del contribuente.

La prima è quella di salvare non le istituzioni finanziarie creditrici di prestiti tossici, ma i loro debitori mettendoli quindi in condizione di continuare a essere solventi salvaguardando così anche la continuata solvibilità delle istituzioni finanziarie. Ci sarebbero probabilmente maggiori costi amministrativi e di transazioni associati a questo tipo di soluzione, ma non dovrebbero essere proibitivi, anche tenuto conto degli effetti positivi sulla maggiore uguaglianza nella distribuzione della ricchezza e sulla riduzione della povertà in cui altrimenti cadrebbero i debitori rimasti senza casa. Per di più, una volta che l‟economia si riprenda, è possibile una ripresa autonoma dei pagamenti da parte dei debitori. E‟ la soluzione che suggerisce Michael Moore, nel suo film/documentario Capitalism A Love Story (2009), un‟opera altrimenti mediocre a parte il suggerimento che le istituzioni finanziarie salvate in un modo o in un altro con denaro pubblico avrebbero dovuto sottostare a limiti stringenti sulle loro remunerazioni manageriali di cui proprio nella crisi si è perso il controllo.

L‟altra soluzione poteva essere la parziale o totale nazionalizzione delle istituzioni finanziarie che siano salvate direttamente con iniezioni di liquidità a carico del bilancio dello stato. Stranamente il capital welfare che invece spesso si è praticato senza la contropartita della nazionalizzazione non sembra incorrere nelle critiche che solitamente si levano contro il labour welfare, in termini né di “azzardo morale” (moral hazard, o più semplicemente “opportunismo” da parte di tutti i percettori di sussidi) né di costo sociale dal punto di vista della sostenibilità del debito pubblico. L‟acquisizione di partecipazioni azionarie dello stato avrebbe l‟effetto desiderato di ricapitalizzare le istituzioni finanziarie senza gli svantaggi in termini di disuguaglianza nella distribuzione della ricchezza e dell‟aumento del debito pubblico netto. Nulla vieterebbe una successiva ri-privatizzazione di quelle azioni ottenute come corrispettivo dei salvataggi, se e quando si volesse reintegrare la proporzione precedente fra capitale pubblico e privato nell‟economia.

Nel corso della crisi un ruolo importante di causa ed effetto è stato assunto dalla disuguaglianza nella distribuzione del reddito e della ricchezza. Negli ultimi trenta anni nella maggior parte dei paesi dell‟OCSE si è registrato un marcato aumento della disuguaglianza (misurata dal coefficiente di Gini, che va da zero per assoluta uguaglianza a uno per totale concentrazione in un singolo soggetto economico), che ha avuto un effetto depressivo sulla domanda effettiva già prima della crisi (si vedano i Rapporti sulla disuguaglianza, OECD 2008 e 2011b). Questo effetto è stato ridotto dall‟espansione del credito a buon mercato, esteso senza guardare troppo per il sottile alla solvibilità dei debitori, un‟espansione che a sua volta ha contribuito allo scoppio della crisi quando è aumentata la disoccupazione ed è scoppiata la bolla immobiliare. Dopodiché la disuguaglianza è cresciuta ulteriormente a causa della maggiore disoccupazione e del pagamento di super-premi manageriali che sono continuati indisturbati nonostante la crisi, e pagati proprio ai responsabili diretti della debacle finanziaria. Le retribuzioni dei managers infatti non sono determinate dal normale funzionamento di mercati per il talento manageriale ma grazie a un processo semi-feudale di decisioni prese da una casta manageriale a esclusivo e ingiustificato vantaggio dei membri di quella stessa casta. Nella crisi si è ridotta semmai, a volte ma non sempre, la disuguaglianza nella distribuzione della ricchezza, non per fenomeni di ri-distribuzione ma per il semplice fatto che naturalmente la ricchezza di chi ha è passibile di diminuire di più e più rapidamente della ricchezza di chi non ha.

Oggi la necessità di una rigorosa disciplina fiscale, che esigono le organizzazioni finanziarie internazionali in nome dei “mercati” i cui attacchi cercano di domare, e che spesso viene inserita in documenti programmatici di finanza pubblica o consacrata in leggi costituzionali sotto forma di un obbligo di bilanciare i conti pubblici (come quello appena adottato in Spagna e in Italia e sancito dal Consiglio Europeo del 9 dicembre 2011), è particolarmente anti-keynesiana, ed è probabilmente contro-producente nel mezzo di una recessione.

Innanzitutto un bilancio pubblico in equilibrio non è condizione né necessaria né sufficiente per la sostenibilità del debito pubblico. Infatti un surplus primario (escludendo il pagamento degli interessi) può essere (o non essere) necessario alla sostenibilità del debito a seconda che l‟economia cresca ad un tasso più lento (o più rapido) del tasso di interesse medio pagato sul totale del debito (le precise condizioni di sostenibilità sono enunciate più avanti).

In secondo luogo, c‟è una lezione keynesiana che è molto facile dimenticare o ignorare: e cioè che la differenza fra spesa pubblica e imposte, più la differenza fra investimenti e risparmi privati, più la differenza fra esportazioni e importazioni, devono necessariamente azzerarsi, non come risultato di una teoria economica controversa ma semplicemente come necessità di coerenza nella contabilità nazionale. Ne segue che il saldo del bilancio pubblico non può essere uno strumento di politica economica, ma soltanto un obiettivo che può essere o non essere realizzabile a seconda dei comportamenti degli agenti economici nazionali e dei partners commerciali globali, da cui fortemente dipende. Ad esempio il raggiungimento dell‟equilibrio nei conti pubblici sarebbe facilitato dalla eliminazione o almeno la riduzione del surplus commerciale che la Germania realizza nei confronti dei suoi partners europei, o che la Cina realizza nei confronti degli Stati Uniti.

In ogni caso gli sforzi generalizzati da parte di tutti i governi di un gruppo di paesi di bilanciare simultaneamente i loro conti pubblici potrebbe risultare in una combinazione perversa di squilibri persistenti nei loro bilanci pubblici insieme ad un livello di occupazione e di reddito inferiore a quanto sarebbe possibile ottenere senza tali sforzi nei paesi del gruppo. Lo stesso Chief Economist del FMI, Olivier Blanchard, ha duramente criticato la decisione del Consiglio Europeo del 9 dicembre 2011 di rispondere alla crisi con l‟eterna politica di riduzione del deficit pubblico, affermando che queste politiche sono destinate a fallire anche in termini dei loro obiettivi limitati: “Alcune stime preliminari del FMI suggeriscono che anche senza moltiplicatori elevati gli effetti congiunti del consolidamento fiscale e dell’implicito rallentamento dello sviluppo finiscono col condurre ad un aumento, invece che a una diminuzione, degli spreads sui titoli di stato. Nella misura in cui i governi ritengono di dover reagire ai mercati, essi possono essere indotti a consolidare troppo rapidamente, anche dallo stretto punto di vista della sostenibilità del debito” (Eurointelligence.com, 22/12/2011).

Queste considerazioni sugli effetti recessivi dell‟austerità, tipiche dell‟approccio keynesiano, oggi sono ben compresi anche dagli stessi mercati finanziari: in Spagna, ad esempio, subito dopo la strepitosa vittoria del Partito Popolare la prospettiva della realizzazione del suo programma di austerità è stata salutata con l‟aumento del rendimento dei titoli di stato spagnoli proprio in attesa dei suoi effetti avversi sul reddito e l‟occupazione. A questo punto, “damned if you do, damned if you don’t”: un governo è dannato sia che realizzi sia che non realizzi l‟austerità. Anche in Italia la manovra fiscale del governo Monti ci ha detto l‟8 dicembre 2011 il governatore della Banca d‟Italia Ignazio Visco – avrà un impatto negativo sul PIL italiano di mezzo punto percentuale nel 2012 (mentre il FMI prevede 8 punti negativi in tre anni, 20/12/2011), un impatto che andrà a sommarsi alle previsioni negative precedenti. Tuttavia va notato che lo spread spagnolo si è ridotto molto il 20 dicembre quando l‟austerità del nuovo governo è stata contenuta a tagli di spesa senza nuove tasse, e si è addirittura accompagnata ad un aumento anziché ad un taglio delle pensioni.

Allo stesso modo, tentativi generalizzati di promuovere l‟occupazione e lo sviluppo mediante maggiore competitività internazionale ottenuta sia mediante svalutazioni esterne sia attraverso la deflazione interna di salari e prezzi possono anch‟essi essere competitivamente controproducenti: un‟altra chiara lezione keynesiana è infatti che una riduzione salariale può aumentare l‟occupazione in un singolo paese attraverso maggiori esportazioni nette, ma non può risolvere il problema della disoccupazione al livello dell‟economia mondiale.

Né può la disoccupazione essere necessariamente combattuta da una riduzione generalizzata della sicurezza del posto di lavoro o di altre misure di welfare del lavoro, o dall‟introduzione di contrattazione aziendale al posto di quella collettiva. Il solo effetto certo di tali politiche, anch‟esse molto popolari nelle manovre anti-crisi col pretesto di “riforme strutturali” (vedansi le linee guida dettate dalla Banca Centrale Europea al governo italiano nella lettera del 5 agosto 2011) è il deterioramento della qualità del lavoro e degli incentivi dei lavoratori. Nella presente fase del ciclo, soprattutto in Italia con 800mila esuberi potenziali stimati dalla Confindustria, senza la parallela riforma degli ammortizzatori sociali e senza gli investimenti di riqualificazione del lavoro propri della flexicurity di tipo danese, è del tutto implausibile che una maggiore facilità di licenziamento dei padri possa avere un effetto netto positivo sulle assunzioni dei loro figli disoccupati (Lettieri 2011). Tanto più che l‟art. 18 dello Statuto dei Lavoratori4, che la Ministra del Lavoro Elsa Fornero cercava di rimettere in discussione, su un campione di 100.000 aziende di una recente indagine dell‟Unioncamere-Excelsior non è citato da nessuno come motivo per le mancate assunzioni (Clericetti, 2011). Semmai pare molto più importante eliminare l‟anomalia italiana di un lavoro precario meno (anziché più) remunerato del lavoro a tempo indeterminato.

E‟ un peccato che l‟inadeguatezza delle risposte di politica economica del 2008, e il loro ritiro prematuro, abbiano diluito grandemente la loro efficacia, rendendo quindi più difficile oggi la realizzazione di politiche di sviluppo.

Spesso si ritiene che le necessità impellenti di miglioramenti ambientali, richiesti dalla riduzione del riscaldamento globale e dell‟inquinamento generale, e dalla prospettiva dell‟esaurimento delle risorse naturali, genererà una nuova e importante opportunità di investimento e sviluppo. Tuttavia anche lasciando da parte la natura visibilmente controversa del riscaldamento globale queste sono tutte opportunità per l‟investimento pubblico o intrapreso con finanziamenti pubblici, desiderabile in sé e per sé (non in assoluto, ma almeno fino ad un certo punto) e tuttavia in competizione con usi alternativi di fondi pubblici scarsi, la cui spesa oggi si presume debba essere tenuta sotto controllo nell‟interesse della sostenibilità fiscale.

La probabilità che i leaders mondiali si convertano all‟improvviso agli insegnamenti keynesiani, e li realizzino con la rapidità e su una scala sufficiente a propellere l’economia mondiale dal ristagno alla crescita sono remote, anzi sarebbero addirittura miracolose. Anche quelli che vorrebbero realizzarle ne sono impediti dalla sfida elettorale di concorrenti politici populisti (come Barack Obama dai suoi contendenti repubblicani del Tea Party, pronti al massacro o al suicidio politico pur di liberarsi del Presidente nero). Al paragone la prospettiva che dei Wealth Sovereign Funds di paesi emergenti possano venire in aiuto a governi altamente indebitati potrebbe sembrare una possibilità più normale, eppure questo sarebbe in realtà il vero miracolo, e semplicemente non succederà: l‟investimento dei WSFs ha facilitato nel 2008 la stabilizzazione finanziaria, ma oggi essi non hanno più la fiducia necessaria.

Il fatto che gli Stati Uniti possono sempre “stampare” i dollari necessari a ripagare con gli interessi i loro creditori non rende nemmeno il debito USA sostenibile senza limiti: all‟aumentare dell‟indebitamento anche lì può arrivare il punto in cui la risultante inflazione e conseguente rischio di svalutazione rende inappetibilii i titoli denominati in dollari a meno che non rendano tassi di interesse talmente elevati da fare aumentare necessariamente il pericolo di insolvenza. Altri paesi sono vincolati da condizioni di sostenibilità ancora più stringenti, senza nemmeno lo spazio iniziale di manovra che hanno gli Stati Uniti. Tuttavia oggi il rischio di inflazione è universalmente riconosciuto come assente, o in ogni caso trascurabile rispetto al rischio di recessione, e quindi una Banca Centrale che sia autorizzata a farlo può contribuire in modo significativo al finanziamento del debito pubblico.

Quando la ricchezza privata eccede grandemente la differenza fra il debito pubblico effettivo e il suo livello sostenibile, è sempre possibile in linea di principio introdurre un‟imposta patrimoniale, una volta per tutte o a un tasso minore ma ricorrente, in modo da ottenere la solvibilità, subito o in un periodo prevedibile con certezza. In Francia, ad esempio, nel 2010 il patrimonio nazionale netto delle famiglie ammontava a 10.200 miliardi di euro, ossia 8 volte il loro reddito disponibile annuale. L‟Italia nel 2011 ha un debito pubblico di circa 1900 miliardi di euro, a fronte di una ricchezza privata che nel 2008 era di 8600 miliardi di euro, di cui il 45% concentrato nelle mani del 10% delle famiglie più ricche. Ma le imposte sulla ricchezza sono impopolari (almeno in Italia con il presente Parlamento), e la volontà politica di introdurle è scarsa. Quando Silvio Berlusconi vanta la solidità della posizione finanziaria complessiva pubblica e privata dell‟Italia, grazie alla ricchezza privata netta, ma al tempo stesso esclude un‟imposta patrimoniale su quella ricchezza privata, si contraddice platealmente.

Invece di una patrimoniale, si potrebbe concepire un prestito forzoso, naturalmente ad un tasso di interesse inferiore a quello di mercato: se a ogni cittadino si imponesse di acquistare buoni del tesoro decennali nella misura, poniamo, del 10% del suo patrimonio, ad un rendimento del 2% anziché al 7%, ciò equivarrebbe ad un‟imposta patrimoniale del (7%-2%) più il premio di assicurazione (CDS, poniamo del 6%) contro il default di quei titoli, ossia del [(7%-2%)+6%]*10% = 1.1% sul patrimionio netto, annualmente per dieci anni.

Unimposta patrimoniale implicita viene suggerita da Andrea Monorchio ex-Ragioniere Generale dello Stato sotto forma di un‟emissione di titoli di stato garantiti dall‟iscrizione obbligatoria di un‟ipoteca su una frazione (orientativamente del 15%) dei beni immobili di tutti i cittadini, a un tasso di interesse più basso di quello di mercato data la garanzia reale poniamo ad un tasso dell‟1.5% (Sunseri, 2011). Il minore tasso dinteresse aiuterebbe la sostenibilità del debito e quindi la solvibilità del governo. Monorchio propone questo marchingegno come alternativa a un‟imposta patrimoniale, ma pur sempre di una patrimoniale si tratta, equivalente al costo di assicurare la proporzione ipotecata del proprio patrimonio contro il rischio di default sui titoli così garantiti, ossia dell‟ordine del 15%*6% ossia dello 0.9% annualmente per dieci anni. Il cittadino che così non si assicurasse si troverebbe nella stessa posizione di un venditore di un CDS a titolo gratuito: se il default non avviene non perde niente, ma se avviene perde fino all‟intero 15% del suo patrimonio. Se ci fossero le condizioni politiche per realizzare la proposta di Monorchio ci sarebbero anche per una imposta patrimoniale più chiara e trasparente.

Infine, la privatizzazione del patrimonio pubblico è spesso considerata come un modo di ridurre il debito sovrano, ma nel settore dei servizi pubblici essa riduce gli strumenti di politica economica a disposizione del governo, e in ogni caso di solito viene esagerata come fonte di risorse finanziarie rispetto ai valori depressi realizzabili durante una crisi, quando il tempismo della privatizzazione è particolarmente infelice.



3. Le opzioni del default

“L‟aritmetica della dinamica del debito pubblico
è semplice e inesorabile”, ci dice Willem Buiter (2010), che lo definisce come il debito netto non-monetario delle amministrazioni pubbliche consolidate con la banca centrale. Dato il tasso di interesse effettivo pagato sul debito pubblico e la struttura della sua maturità, e quindi il tasso medio r pagato sul debito, la variazione Δd del rapporto d fra debito pubblico e PIL è data dall‟espressione

Δd= - s + d*(r-g)/(1+g),

dove s è il surplus primario (ossia prima del pagamento degli interessi, in proporzione al PIL, sempre riferito al bilancio generale del governo aumentato della Banca Centrale), mentre g è il tasso di sviluppo del PIL reale medio del paese in questione. Pertanto la stabilizzazione del rapporto fra debito e PIL (Δd=0) esige che il paese sia in grado di realizzare un surplus primario

s = d*(r-g)/(1+g).

In caso contrario, il paese è condannato ad un indebitamento crescente rispetto al PIL, e quindi al default, prima o poi, in un periodo di tempo imprecisato che dipende dal grado di tolleranza dei mercati finanziari rispetto al crescente indebitamento, in funzione anche delle sue scadenze, delle quote di debito nelle mani dei cittadini del paese e delle sue istituzioni pubbliche nazionali o di investitori stranieri, dell‟indebitamento privato, e di altre considerazioni del genere.

Naturalmente il default sarà tanto più probabile quanto maggiore sarà il gap fra il surplus primario necessario a stabilizzare il rapporto d debito/PIL a un livello prudenziale e il massimo surplus primario che il paese è in grado di realizzare (e che in casi difficili potrebbe anche essere negativo). Ma è un errore confondere la presente non-sostenibilità del rapporto debito/PIL con la certezza di un prossimo default. Quello che conta non è solo la possibilità o meno di stabilizzare o meno il debito, ma il livello a cui può essere stabilizzato, e il percorso dei surplus primari necessari a riportarlo a un livello non solo sostenibile ma prudenzialmente accettabile (quale il 60% del PIL previsto dal Trattato di Maastricht). Negli ultimi trent‟anni l‟Italia, ad esempio, ha alternato periodi di indebitamento crescente e decrescente rispetto al PIL (quindi rispettivamente non sostenibili e sostenibili), fino all‟elevato indebitamento corrente del 120% e un trend crescente un buon motivo di allarme ma non una certezza di prossimo default.

Ne segue che l’apparente esattezza aritmetica della dinamica del debito è del tutto spuria, perché implica un giudizio totalmente soggettivo e arbitrario circa l‟andamento dei valori futuri dei tassi di interesse e di sviluppo e non solo il loro valore odierno, nonché un giudizio del rapporto debito/PIL al quale un paese non sarà più in grado di far fronte ai propri impegni, ossia di rinnovare il debito in scadenza a qualsiasi tasso di interesse che possa essere offerto. Pertanto nella valutazione della probabilità di default entrano le aspettative degli investitori circa la credibilità e l‟efficacia delle politiche del governo, oltre che sulle prospettive di crescita e di costo del credito del paese in questione.

E‟ inevitabile che entrino in gioco giudizi politici oltre che economici, come dimostrato di recente nel caso dell‟Italia, handicappata da un governo Berlusconi corrotto e in odore di criminalità, inetto e diviso, privo di credibilità, con un‟opposizione anch‟essa sofferente degli stessi difetti, sia pure in misura minore.

Questo handicap ha continuato ad affliggere l‟Italia anche dopo l‟uscita di Berlusconi, che temporeggiando in modo sconclusionato e indeciso per diversi mesi è riuscito a contagiare il resto dell‟area dell‟euro portando a livelli record gli spreads anche in Spagna, Francia, Belgio e perfino in Olanda.

Per questo sono così importanti le valutazioni della probabilità di default espresse dalle Agenzie di Rating (come le tre oligopoliste: Standard and Poor‟s, Moody‟s, Fitch), che influenzano altri parametri finanziari già indicati (lo yield sulle nuove emissioni, lo spread rispetto ai Bunds, il prezzo dei CDS che rappresenta un premio di assicurazione contro il default).

Naturalmente le Agenzie di Rating hanno dimostrato di essere completamente inattendibili e spesso tendenziose, perché si trovano in una posizione naturale di conflitto di interessi, essendo pagate da chi emette i titoli e non da chi li acquista, con l‟opportunità di beneficiare illegittimamente di informazioni riservate e potenzialmente manipolabili (insider trading). Agenzie di Rating pubbliche alternative sono state proposte, ad esempio in Europa, ma tali istituzioni non potrebbero essere considerate come indipendenti e quindi la loro credibilità sarebbe bassa, tanto che vi si è rinunciato. Si potrebbe fare ancora di meglio: “l‟uso dei ratings nei regolamenti finanziari dovrebbe essere significativamente ridotto nel tempo (come era stato suggerito dal Rapporto de Larosière del 2009 alla sua Raccomandazione 3, mai introdotta dalle autorità europee).

Un paese insolvente, come la Grecia, ha solo tre opzioni alternative:

1) un default istantaneo ma ordinato, con la partecipazione dei creditori a “hair-cuts” (tagli di capitale) negoziati con loro. Questa alternativa ha lo svantaggio che i creditori assicurati contro il rischio di default con Credit Default Swaps, aderendo volontariamente al taglio del loro credito, non ne possono beneficiare: se non c‟è un “credit event” tecnicamente definibile come default i loro CDS diventano carta straccia.

2) un default instantaneo ma disordinato, imposto unilateralmente ai creditori; o

3) un default differito, che sia ordinato-concordato o disordinato-unilaterale, preceduto dal rinnovo (roll-over) del debito alla scadenza con l‟assistenza di organizzazioni finanziarie internazionali (come il FMI, il Fondo Europeo di Stabilità Finanziartia EFSF che presto diventerà il Meccanismo Europeo di Stabilità ESM, o la Banca Centrale Europea con i suoi acquisti controversi di titoli di stato nei mercati secondari). Questa alternativa è stata paragonata da Mario Blejer (2011), ex-funzionario-IMF ed ex-governatore della Banca Centrale Argentina all‟indomani del default del 2002, al rinnovo di debito scoperto tipico degli schemi di piramidi bancarie (in cui gli interessi sono pagati appunto incorrendo nuovi debiti). Queste tre alternative di default sono elencate sopra in ordine di costo crescente. Tuttavia vanno fatte quattro qualificazioni importanti.

In primo luogo la partecipazione degli investitori (PSI o private sector involvement) al costo del default, che nel caso della Grecia fu pre-annunciata al vertice di Deauville dell‟ottobre 2010, applicata al 21% nel maggio 2011 ed aumentata al 50% nell‟ottobre 2011, è stata biasimata (ad esempio da Marcello de Cecco ripetutamente nella sua rubrica sul Lunedì di Repubblica) per il rafforzarsi e il diffondersi della sfiducia degli investitori verso i titoli di stato europei, ma non può esserlo in quanto il principio è parte delle regole del gioco e semmai è la sua esclusione che eventualmente dovrebbe essere annunciata ed affermata, se ce ne fosse un buon motivo che invece non c‟è. E in ogni caso al loro incontro dell‟8 dicembre 2011 Angela Merkel e Micholas Sarkozy assicuravano ai mercati che il PSI greco sarebbe stato un caso eccezionale, da escludere assolutamente in futuro. Questa politica, confermata il giorno dopo dal Consiglio Europeo, potrebbe ridurre la probabilità di default riducendo lo spread, a prezzo di aumentare il costo di un eventuale salvataggio in caso di default, ma in realtà non ha avuto un impatto visibile sugli spreads.

In secondo luogo lo shock e le turbolenze inevitabilmente associati al default di un paese dovrebbero essere affrontati e contenuti in anticipo, ri-capitalizzando le banche commerciali esposte agli effetti incrociati del defaults, incluse se necessario le banche centrali. Un eventuale default certamente deprimerà i prezzi dei vecchi e nuovi titoli di stato nell‟intera area e quindi ne aumenterà i rendimenti; quindi il contagio farebbe peggiorare le condizioni della sostenibilità del debito in altri paesi altrimenti solvibili, e in conseguenza anche le condizioni di una successiva ripresa. Chiaramente l‟impatto di un paese grande come l‟Italia ha conseguenze non solo quantitativamente maggiori del default della Grecia, che rappresenta solo il 2.2% del PIL dell‟Unione e il 4% del suo debito pubblico, ma anche qualitativamente molto più gravi.

In terzo luogo, va ricordato che anche il non-default di debitori insolventi può essere molto costoso, come dimostrato ad esempio dalle perdite su larga scala (dell‟ordine di un terzo e più in un solo trimestre nell‟autunno del 2011) nel valore di capitalizzazione delle borse di paesi dell‟area dell‟euro certamente solvibili oggi ma di incerta solvibilità nel lungo periodo.

Infine, va considerata la possibilità anzi, la elevata probabilità che si possano formare aspettative avverse ad un paese che, per il solo fatto di essere formulate, tendono ad auto-realizzarsi, come spesso succede appunto con le aspettative (Joan Robinson amava citare in proposito una frase dell‟Amleto: Thinking makes it so). Pertanto il rinnovo (roll-over) del debito di un paese spinto nella direzione del default da questo tipo di aspettative self-fulfilling può essere giustificato come strumento per disinnescare le aspettative di default incorporate in un processo di deterioramento degli yields e degli spreads che senza il roll-over sarebbe altrimenti ineluttabile. Il paragone avverso con le piramidi bancarie e con l‟inevitabile successivo default, evocato da Mario Blejer, quindi non regge necessariamente: il temporaneo pagamento di interessi con l‟accensione di nuovi debiti potrebbe anche scongiurare un default, purché il tempo così guadagnato sia impiegato proficuamente a introdurre nuove istituzioni e politiche che favoriscano una stabilizzazione del debito e il successivo rientro. Possiamo semmai paragonare il roll-over ad un temporaneo trattamento di de-compressione in una camera iperbarica, per de-potenziare le spinte alla autorealizzazione incorporate nelle aspettative di default.


4. Roll-over

Il disegno dell‟EFSF e dell‟ESM
che avrebbe dovuto sostituirlo nel luglio del 2013 (ora anticipato al 2012) non sembra adatto ad assolvere questo ruolo di rinnovare il debito di paesi a rischio di default. Le dimensioni di questi fondi sono relativamente modeste, con una capacità operativa rispettivamente dell‟ordine di 440 e 500 miliardi di euro, rispetto ad un‟esposizione potenziale quattro o cinque volte superiore; ci vorrebbe un big bazooka (secondo David Cameron), ma Buiter lo definisce una cerbottana (peashooter). L‟EFSF consiste in gran parte di somme garantite da stati membri che includono i paesi a rischio, le cui garanzie quindi valgono come collaterale in misura inferiore al 100%, riducendo la sua capacità di intervento al massimo alla somma inizialmente stanziata di €440bn nonostante il suo recente aumento a €700bn, a causa della iper-collateralizzazione delle garanzie di paesi il cui rating è inferiore al massimo di AAA. Questa capacità operativa oggi già parzialmente impegnata sarebbe ridotta ulteriormente dall‟eventuale declassamento della Francia (il cui spread rispetto alla Germania a metà novembre 2011 era salito a 200 punti, vale a dire il 2%, anche se poi ribassato, e per la quale, come tutti i paesi dell‟euro, alla vigilia del Consiglio Europeo del 9 dicembre Standard and Poor‟s ha segnalato un negative outlook con una probabilità del 50%).

Un eventuale “leveraging” dell‟EFSF – trasformandolo o in una banca secondo lo schema francese, o in uno strumento di assicurazione parziale secondo lo schema tedesco ne aumenterebbe la capacità di intervento solo a spese di una maggiore rischiosità (fino al punto di rischiarne il totale annientamento), soprattutto nella situazione di crescenti rendimenti e spreads che si è verificata in Europa nel novembre 2011. In ogni caso la proposta di trasformare l‟EFSF in una banca, che avrebbe dovuto prendere prestiti dalla BCE per intervenire a sostegno di titoli pubblici aggirando i limiti all‟azione diretta della BCE, è stata specificamente respinta dal Consiglio Europeo del 9 dicembre; mentre il “leveraging” dell‟EFSF rimane ancora una possibilità, non ancora definita e tantomeno realizzata.

Lo stesso vale per l‟ESM, in cui solo una frazione (il 15%) del capitale sarà versato in contanti, e per di più a rate, mentre il resto sarà composto di “callable capital” che dovrebbe essere contribuito, all‟occorrenza, anche dagli stessi paesi a rischio, su cui evidentemente è imprudente contare nel caso del loro default. Il Consiglio Europeo del 9 dicembre 2011 ne ha fissato le dimensioni a 500 miliardi di euro, anticipando la sua creazione al 2012 ma escludendone il funzionamento in parallelo all‟EFSF. Né potrebbe il FMI assumere una funzione di Prestatore di Ultima Istanza a governi insolventi, che pure alla fine del 2008 l‟allora suo Direttore Dominique Strauss-Kahn aveva adombrato senza però insistere: il FMI non ha né questa funzione né eventualmente i fondi per assolverla.

Lo stesso Presidente della BCE Mario Draghi ha escluso la possibilità che la BCE possa prestare fondi al FMI per finanziare il sostegno di titoli di stato dei paesi “periferici” (ossia ad alto spread) dell‟area dell‟euro, che – pur consentito dalle regole formali egli giustamente considera un vero e proprio escamotage. Il Consiglio Europeo del 9 dicembre 2011 ha deciso che, nella misura limitata a soli 200 miliardi di euro tali fondi saranno forniti al FMI direttamente dagli stati membri sotto forma di impegni dei governi garantiti dalle banche centrali nazionali (150 miliardi dai paesi dell‟euro, 50 miliardi da altri paesi dell‟Unione, anche se poi il Regno Unito si è rifiutato di contribuire; più eventuali ma improbabili contributi da paesi emergenti ricchi di riserve).

Questa funzione, di finanziare il roll-over di debito pubblico di stati membri dell‟EMU, che non siano (ancora) strutturalmente insolventi ma che potrebbero essere trascinati all‟insolvenza da aspettative auto-realizzantesi di default in mancanza di un sostegno pubblico, potrebbe essere assolta unicamente dalla Banca Centrale Europea. Recentemente si sono levate molte voci in favore di questa soluzione, da Paul Krugman a Joseph Stiglitz, da Paul de Grauwe a Nouriel Roubini, o Michael Spence, e molti altri economisti italiani e stranieri. Tale ruolo viene chiamato solitamente di “Prestatore di Ultima Istanza”. Va ribadito tuttavia che questa etichetta è inappropriata: da Walter Bagehot in poi (Lombard Street, 1873) la funzione di Lender of Last Resort consiste nel fornire quantità illimitate di liquidità alle banche commerciali solventi, ad un tasso penale di interesse, contro titoli di credito di buona qualità. Questa funzione, come ci ricorda Otmar Issing sul Financial Times del 30 novembre 2011, è già pienamente assolta dalla BCE, che anzi non applica interessi penali ed estende il suo ruolo anche scontando diversi titoli non proprio di buona qualità (come titoli di classe A, incluse obbligazioni bancarie). Mentre invece non è funzione di una Banca Centrale come Prestatore di Ultima Istanza la fornitura di liquidità illimitata al governo in cambio di titoli di stato, soprattutto quando questi potrebbero essere considerati alla stregua di junk bonds. La BCE porrebbe il problema addizionale della distribuzione della liquidità così creata fra governi solidi e governi fallimentari, ma questo potrebbe essere risolto con limiti e compensazioni in modo da contenere il rischio di “moral hazard” da parte di paesi che intendessero approfittare di questa possibilità per espandere impunemente la loro spesa pubblica.

Tuttavia c‟è un‟altra funzione tradizionale di una Banca Centrale, anche se nel corso del tempo, soprattutto dalla seconda metà degli anni „ottanta, è stata assoggettata a limitazioni significative sotto l‟influsso del principio dell‟indipendenza della Banca Centrale (il cui fondamento teorico della teoria delle aspettative razionali, e la conseguente negazione di un trade-off fra inflazione e disoccupazione, oggi è stato minato dalla crisi globale, senza che sia ancora venuto meno il principio della sua indipendenza). E‟ questa la funzione di Tesoriere del Governo. Negli Stati Uniti questa funzione è stata limitata dal vincolo di un “debt ceiling. In Italia dal 1981 è valso il divieto di finanziamenti al governo ad opera della Banca d‟Italia – con il “divorzio consensuale(nelle parole di Mario Draghi) tra il ministro Beniamino Andreatta e l‟allora governatore Azeglio Ciampi5 il che ha consentito di ridurre marcatamente l‟inflazione in Italia a spese della marcata crescita del suo debito pubblico fino all‟eccessivo livello odierno. Anche in altri paesi, come abbiamo notato sopra, valgono simili limiti legali al finanziamento del deficit pubblico. Ma sia la Federal Reserve, sia la Banca d‟Inghilterra o la Banca Centrale del Giappone, che pure sono indipendenti ma non sono per questo “detached” dalla finanza pubblica (una distinzione sottolineata da Palley 2011, che attribuisce il “detachment” della BCE al dominio dell‟ideologia iper-liberale all‟epoca della sua costituzione), operano tranquillamente con acquisti di titoli del loro stato non solo nel mercato secondario ma spesso e volentieri anche in quello primario.

Nell‟ultimo anno, per esempio, la Banca d‟Inghilterra ha acquistato l‟80% dei titoli di stato inglesi di nuova emissione (come faceva notare, ad un convegno della Banca Centrale Austriaca a Vienna il 5 dicembre 2011 il suo governatore, Ewald Nowotny). Mentre la Federal Reserve dall‟inizio della crisi nell‟agosto del 2007 è intervenuta massicciamente a sostegno del sistema finanziario: inizialmente la Fed si rifiutava di fornire dati sui salvataggi, ma il Congresso gli ordinava di dare un rendiconto dei propri interventi, che la portavano a fornire una stima di 1200 miliardi di dollari. A quel punto Bloomberg intentava una causa sulla base del Freedom of Information Act, che forzava la Fed a rilasciare 25mila pagine di dati, utilizzando i quali Bloomberg stimava una spesa complessiva della Fed per salvataggi al sistema finanziario (prestiti più acquisti di assets solo per le grandi banche) di 7770 miliardi di dollari. Il Government Accountability Office forniva una stima più elevata, di 16mila miliardi di dollari (Wray 2011). Una successiva analisi dei dati originali condotta da Felkerson (2011), comprensiva di garanzie, fondi impegnati ma non erogati, prestiti e acquisti, indicava un totale degli interventi Fed di oltre 29000 miliardi di dollari6.

Secondo le opinioni soprattutto di circoli economici e politici tedeschi, gli acquisti di titoli di stato della Banca Centrale Europea sarebbero invece inopportuni, inappropriati, e probabilmente illegali, dato il divieto di bail-out (salvataggio) di paesi membri da parte dell‟Unione o di altri paesi membri, inserito nel Trattato costitutivo dell‟Unione Europea. Tuttavia rimane la possibilità di una ri-considerazione e ri-negoziazione di questo aspetto del trattato, magari assoggettando l‟acquisto da parte della BCE dei titoli di stato dei paesi a rischio all‟approvazione di piani di consolidamento fiscale una possibilità che sembrava essere adombrata dallo stesso Mario Draghi (come riportato dal Financial Times del 1 dicembre 2011), salvo poi lamentarsi una settimana dopo di essere stato “over-interpreted”.

Willem Buiter concorda nel considerare tali acquisti di titoli di stato su larga scala un “abuso quasi-fiscale della Banca Centrale Europea, eppure auspica questa soluzione come l‟unica alternativa per evitare un default generalizzato di gran parte dell‟area dell‟euro. Tale default sarebbe molto più costoso e dirompente del sostegno della BCE, soprattutto considerando il basso rischio attuale di una recrudescenza dell‟inflazione.

E‟ vero che la Banca Centrale Europea ha un capitale di poco più di 6 miliardi di euro, sia pure in corso di raddoppio in cinque anni, a fronte di acquisti cumulativi di titoli a rischio dal maggio 2010, che raggiungevano 74 miliardi di euro alla fine di agosto 2011, salendo a 204 miliardi di euro a fine-novembre 2011, e quindi potrebbe sembrare bisognosa di massiccia ri-capitalizzazione per potere svolgere questa funzione. Tuttavia la BCE dispone di risorse enormemente maggiori, sia pure non visibili nel suo bilancio, ossia il valore presente netto del signoraggio sull’euro, sulla base del quale potrebbe reperire fondi ad un basso tasso di interesse.

Buiter (2011b) stima queste risorse fuori bilancio, e quindi la NILAC (Non-Inflationary Loss Absorbing Capacity) della BCE, a ben 3300 miliardi di euro, scontandone nel tempo e sommandone le varie componenti (i profitti ottenuti dalle emissioni di base monetaria, gli interessi ottenuti investendo le emissioni passate, l‟imposta inflazionistica anticipata ossia la riduzione del valore reale dello stock di base monetaria causato dall‟inflazione attesa, nonché l„imposta inflazionistica non-anticipata). Rinviamo a Buiter 2011b per gli aspetti concettuali, teorici ed empirici della sua stima. Le conseguenze potenzialmente inflazionistiche di tale intervento della EBC potrebbero essere neutralizzate riducendo le dimensioni del bilancio della EBC (vendendo assets e riducendo i prestiti), sterilizzando le passività monetarie, aumentando le riserve obbligatorie, e aumentando la remunerazione delle riserve in eccesso per indurre le banche a tenerle inattive (Buiter 2011b; queste ultime due misure ridurrebbero il moltiplicatore del credito bancario).

In ogni caso, rimane pur sempre un‟ultima possibilità: che la BCE, pur non acquistando quantità illimitate di titoli pubblici nel mercato, li acquisti dalle banche o presti loro fondi prendendo questi titoli in garanzia, per fornire la liquidità di cui esse hanno bisogno, per scongiurare il pericolo di recessione che un credit crunch comporterebbe, e soprattutto per evitare il pericolo di una corsa al ritiro di contante dai depositi bancari. Per interventi di questo tipo anche su larga scala non ci sarebbe bisogno di alcun consenso politico, tantomeno da parte tedesca, perché sono parte della sua funzione di salvaguardare la stabilità finanziaria. Il 30 novembre 2011 la BCE si è impegnata in questo senso, congiuntamente con le Banche Centrali di Inghilterra, Stati Uniti, Canada, Giappone e Svizzera, che hanno annunciato un‟azione co-ordinata di sostegno dell‟area dell‟euro mediante operazioni di swaps (scambi) delle loro rispettive valute un annuncio che ha momentaneamente ridotto gli spreads e rilanciato le borse globali.

Il 20 dicembre 2011 le LTRO (Long Term Financing Operations) della BCE, che per la prima volta offriva alle banche dell‟area prestiti su collaterale per tre anni all‟1%, ha iniettato €489 miliardi di liquidità, molto più del previsto7, in 523 banche del sistema bancario europeo (di cui 116 banche italiane, oltre a banche principalmente spagnole, ma anche tedesche e francesi). La prossima operazione del genere è prevista per il 28 gennaio 2012. A parte un piccolo e precario effetto iniziale, i mercati finanziari non hanno risposto così positivamente come ci si attendeva. Può darsi che gli effetti siano differiti, e si faranno sentire quando le banche partecipanti avranno indicato l‟uso di questi fondi: se come premi manageriali, o prestiti a piccole e medie imprese e alle famiglie, o acquisti di titoli di stato dell‟area. Certo è che per il momento le banche beneficiarie hanno semplicemente ri-depositato la loro nuova liquidità alla stessa BCE ad un basso tasso di interesse, portando i loro depositi “overnight” ad un livello record di 412 miliardi di euro, corrispondente ad un aumento di 65 miliardi il giorno di S. Stefano. Solitamente i depositi “overnight” delle banche alla BCE vengono considerati come un indicatore del loro grado di “paura” che impedisce i prestiti interbancari (Spiegel online, 27 dicembre 2011).

Nonostante l‟elevato rendimento dei titoli sovrani rispetto al costo del credito dell‟1% è improbabile che le banche vi investano la loro accresciuta liquidità perché il differenziale comporta un‟esposizione al rischio di deprezzamento (se non addirittura di default), che fra l‟altro l‟EBA richiederebbe di contabilizzare alla prima occasione nei loro bilanci. D‟altra parte una copertura prudenziale del rischio mediante CDS eliminerebbe il differenziale di rendimento e quindi l‟incentivo ad acquistarli.

Pertanto l’immissione di liquidità allo scopo di salvaguardare il sistema bancario europeo non può essere considerato come equivalente agli acquisti di titoli da parte della BCE, tant‟è vero che la parallela sospensione di tali acquisti all‟indomani delle LTRO ha subito condotto al rialzo dei rendimenti e degli spreads a livelli considerati insostenibili (in Italia rispettivamente superiori al 7% e al 5%, nonostante la contestuale approvazione della corposa manovra fiscale del governo Monti). Rimane quindi una possibilità non trascurabile che manovre fiscali anche serie e severe si rivelino insufficienti ad evitare un default.


5. Armageddon, Doomsday, Pandemonium, Apocalisse

Supponiamo che a un certo punto si verifichi lo scenario
peggiore, di default multiplo in diversi paesi dell‟euro, compreso almeno uno di grosse dimensioni. Che forma prenderebbe?

Un paese in default non è in grado di pagare l‟ammortamento del suo debito e/o gli interessi o anche parte degli interessi. Il default verso anche un solo creditore fa scattare clausole di cross-default. Purché non abbia un deficit primario (ossia prima del pagamento di interessi), tuttavia, il paese che cessa di pagare ammortamento e interessi rimane in condizione di continuare a funzionare, di pagare salari e stipendi pubblici, pensioni, servizi pubblici; altrimenti, in presenza di un deficit primario, il paese sarà costretto a tagliare la spesa o aumentare le imposte fino al punto di realizzare un surplus primario non negativo, di almeno zero. Valiante (2011) non distingue fra queste due situazioni, con o senza un surplus primario, e identifica erroneamente il default con una incapacità di finanziare la spesa pubblica. Egli ha ragione tuttavia a ravvisare tre fasi nel post-default di un paese: illiquidità/insolvenza, deflazione, inflazione.

Se il paese in default ha un deficit commerciale con l‟estero, troverà difficile ottenere importazioni a credito, e potrà essere costretto a pagarle in contanti usando i ricavi delle importazioni, causando una contrazione dell‟offerta dovuta a un effetto moltiplicatore delle mancate furniture di importazioni, quando queste non possano essere sostituite prontamente da produzione nazionale.

Tale default potrebbe essere fatto scattare dal fallimento di una grossa banca nazionale, da una crisi di governo che paralizzi l‟amministrazione pubblica, da una forte protesta popolare contro politiche economiche dolorose di consolidamento fiscale.

Il default di un paese dell‟area dell‟euro viene generalmente identificato con la sua uscita dall‟euro e il ritorno ad una valuta nazionale, che si chiami un euro nazionale o riprenda un vecchio nome come la dracma greca o la lira italiana. Va sottolineato tuttavia che

1) non esiste una procedura di espulsione di un paese dall‟area dell‟euro; e quindi l’uscita dovrebbe essere volontaria e unilaterale, che però incontra il forte dis-incentivo del costo ragguardevole dell‟uscita dall‟Unione, e della perdita di tutte le forme di sostegno disponibili all‟interno dell‟Unione e forse già promesse o impegnate.

2) l‟adozione di una moneta nazionale, in aggiunta o in sostituzione dell‟euro, non sarebbe una soluzione alternativa al default, perché il debito pubblico del paese continuerebbe a essere denominato in euro o altre valute estere. La nuova valuta avrebbe un tasso di cambio inizialmente fisso e irrilevante rispetto all‟euro, poi necessariamente flessibile (altrimenti l‟euro sparirebbe di circolazione in ogni caso per la legge di Gresham, la moneta cattiva scaccerebbe quella buona) e presumibilmente sarebbe soggetto a svalutazioni per recuperare competitività internazionale, e la conseguente inflazione spingerebbe verso l‟alto il suo tasso di interesse. Il peso del debito rispetto al PIL, ambedue in termini della nuova valuta, aumenterebbe invece di diminuire, le condizioni di sostenibilità del debito diventerebbero più gravose, e il default tanto più probabile. La nuova moneta non sarebbe quindi un’alternativa al default ma una via accelerata al default, e quindi l’uscita dall’euro non sarebbe mai una decisione presa volontariamente da un singolo paese come soluzione della crisi.

3) L‟uscita dall‟area dell‟euro, e il ritorno di una moneta nazionale, sarebbe tuttavia una conseguenza probabile del default, visto il probabile fallimento di almeno parte del sistema bancario e la conseguente illiquidità del sistema monetario che ne conseguirebbe. Una nuova moneta nazionale sarebbe/dovrebbe-essere introdotta per sopperire alla necessità di mezzi di pagamento senza i quali la recessione sarebbe ancora più severa.

Questo è quanto accadde nell‟ex-Unione Sovietica dopo la sua dissoluzione in 15 repubbliche indipendenti nel dicembre 1991. Presto ne seguì una scarsità di rubli in banconote, che perlappunto erano stampate solamente nella Federazione Russa e cessarono di essere distribuite alle filiali repubblicane della Banca Centrale dell‟Unione Sovietica, Gosbank, mentre la parallela circolazione di moneta bancaria non convertibile in contanti, riservata alle transazioni di imprese ed enti di stato, nel giugno 1992 cessava di essere usabile da imprese ed enti che non fossero russi. Questi sviluppi forzavano le filiali repubblicane della Gosbank a trasformarsi in Banche Centrali Repubblicane e ad emettere dapprima dei surrogati del rublo, ossia dei rubli repubblicani, e poi delle monete repubblicane vere e proprie che spesso riprendevano i nomi delle antiche monete locali (a volte addirittura prendevvano nomi temporanei, riservando i nomi gloriosi tradizionali per un periodo successivo alla attesa stabilizzazione). Ne seguiva un‟autentica Babele monetaria: accanto al rublo russo nascevano: il rublo bielorusso, la litas lituana, il lat lettone, il kroon estone, la hryvnia ukraina, il som usbeko, il lari georgiano, il somoni tajiko, il manat dell‟Azerbaigian e il manat turkmeno, il tenge del Kazakistan, la leu moldova, il dram armeno, ognuno con un suo specifico regime di cambio scelto fra l‟intero armamentario di regimi di cambio, da flessibile a crawling peg o crawling band, a manovrato a fisso e iper-fisso (currency board o adozione unilaterale di una valuta straniera).

Il passaggio dal rublo sovietico alle monete nazionali, inizialmente per lo più inconvertibili, spesso limitava il commercio a transazioni bilaterali di baratto bilanciato o con deficit liquidati in dollari o altre valute estere scarse, causando il crollo del commercio all‟interno dell‟ex-area del rublo (ulteriori fattori del crollo erano il passaggio da prezzi politici pianificati a prezzi internazionali di mercato, e la cessazione dei trasferimenti inter-repubblicani che prima avevano luogo attraverso il bilancio dell‟Unione).

Fenomeni simili caratterizzavano anche la dis-integrazione del Consiglio di Mutua Assistenza Economica, o Comecon, il blocco commerciale che includeva la maggior parte dei paesi socialisti europei e che venne a cessare formalmente nel settembre del 1991: i saldi commerciali bilaterali, prima contabilizzati automaticamente in rubli trasferibili (una valuta puramente virtuale), accumulati senza interessi e gradualmente smaltiti nel corso del tempo, ora dovevano essere anch‟essi regolati istantaneamente in valute pregiate scarse, con effetti recessivi. Lo stesso accadeva con la dis-integrazione della Federazione Ceco-Slovacca e di quella (per di più accompagnata da sanguinose guerre civili ed esterne) della Federazione Jugoslava.

La recessione dei paesi della transizione va dal 18% del PIL in tre anni in Polonia, a una recessione prolungata del 65% del PIL in Moldova. Anche tenendo conto di una possible esagerazione statistica di questo fenomeno, un osservatore imparziale come Bob Mundell (1997) ci conferma che questa recessione è stata in realtà molto più grave di quella del 1929-32, anzi, anche di quella dovuta alla Peste Nera del quattordicesimo secolo che, essendo accompagnata da un parallelo declino della popolazione, almeno ne preservava i livelli di consumo.

Naturalmente questa straordinaria recessione era in gran parte dovuta al cambiamento sistemico, ossia al passaggio dalla pianificazione al mercato, da proprietà e impresa pubbliche a quelle private, dall‟autarchia alla apertura al commercio e agli investimenti esteri. Ma Mundell conferma che la causa principale di questa recessione era proprio la dis-integrazione economica e valutaria che accompagnò la transizione post-socialista dei paesi che vi erano coinvolti. Senza dubbio se il default di un grande paese dell‟euro, o un default multiplo, fosse seguito dalla re-introduzione di monete nazionali, ne seguirebbe una caduta degli scambi commerciali all‟interno e con l‟esterno dell‟area talmente drastica da causare una vasta recessione senza precedenti.

Paradossalmente, una eventuale dissoluzione dell’area dell’euro con il ritorno anche parziale a valute nazionali verrebbe a distruggere almeno gran parte del signoraggio della BCE, solo in parte recuperato dal signoraggio ri-acquistato dalle Banche Centrali Nazionali come istituti di emissione proprio quel signoraggio della BCE che potrebbe essere più saggiamente e proficuamente utilizzato nella prevenzione dei default sovrani e nel conseguente salvataggio dell’euro, se non fosse per l’ottuso, imperdonabile dogmatismo dell’intero establishment tedesco.


6. Improbabili scenari

Nelle incertezze della crisi del debito sovrano nell‟area dell‟euro,
abbondano congetture implausibili e improbabili circa possibili rimedi o sviluppi alternativi. Esse includono la divisione della zona dell‟euro in due sotto-zone, una Nordica ad euro forte, una Meridionale (i PIIGS, o GIPSI) a euro debole e passibile di ulteriori svalutazioni rispetto a quello forte; il ri-finanziamento di una parte sostanziale del debito pubblico dei paesi membri (dell‟UE o dell‟EMU, poniamo fino al 60% del loro PIL) mediante l„emissione di titoli sovrani europei, i cosiddetti “Eurobonds”; il sostegno dei paesi a rischio mediante un‟imposta sulle transazioni finanziarie; l‟introduzione di un Ministro Europeo dell‟Economia, con funzioni di co-ordinamento, monitoraggio e verifica delle politiche fiscali dei paesi membri.

Due euro-zone, forte e debole. Le stesse considerazioni che escludono l‟uscita dall‟area dell‟euro come soluzione alternativa al default, sopra indicate, varrebbero per l‟introduzione – forzata dalla mancanza di liquidità di una moneta non più nazionale ma di un euro “debole” comune ai paesi periferici. L‟adozione di tale nuova moneta debole comune comporterebbe complicati negoziati circa i tassi di conversione dal vecchio euro alla nuova moneta da stabilire nei vari paesi, a meno che non si introduca un nuovo euro debole inizialmente alla pari con il vecchio euro ma con successive svalutazioni, che anch‟esse potrebbero essere oggetto di negoziati e controversie. D‟altronde i vantaggi tradizionali di una moneta comune riduzione dei costi di transazione, riduzione dell‟inflazione e del tasso d‟interesse, attrazione per investimenti diretti esteri, riduzione del rischio di tasso di cambio si riducono con la riduzione dell‟area che adotta tale moneta, e con la scarsa credibilità di chi ha appena fallito la sua partecipazione ad una moneta unica precedente (anche se alcuni vantaggi possono aumentare con la maggiore omogeneità dei membri rimanenti e del loro grado di convergenza interna). L‟introduzione di una nuova area dell‟euro debole, in conclusione, sarebbe problematica e senza vantaggi significativi.

Titoli sovrani europei (Eurobonds). L‟emissione di titoli sovrani dell‟Unione Europea, in vista di fondamentali medi più solidi di quelli degli Stati Uniti (quali un debito pubblico medio europeo dell‟88% a fronte di un debito statunitense del 98%, e un deficit medio del 4% rispetto a quasi il 10% degli USA) in teoria dovrebbe attrarre un tasso di interesse inferiore a quello degli USA e dei singoli paesi europei ad alto spread. I sostenitori di questo strumento consigliano il ri-finanziamento di gran parte del debito pubblico dei paesi “periferici” dell‟area dell‟euro con debito europeo emesso a condizioni migliori che ne faciliterebbero la sostenibilità.

Si possono concepire almeno tre varianti di questi Eurobonds. In primo luogo, un titolo emesso dall‟Unione Europea. Se non che il Tesoro degli USA può contare su un gettito fiscale dell‟ordine di un terzo del PIL, dal quale è concepibile che un surplus primario possa essere ottenuto, sufficiente al servizio del debito e, se necessario, al suo contenimento e alla sua riduzione; mentre l‟Unione Europea può contare su un bilancio dell‟ordine di solo l‟1% del PIL europeo, per di più sempre bilanciato ex-post grazie a un contributo nazionale proporzionale al PIL e quindi incapace di produrre un surplus primario con cui servire il debito. Pertanto degli Eurobonds di questo tipo sarebbero in pratica dei junk-bonds che nessuno acquisterebbe.

Prodi e Quadrio Curzio (2011) hanno proposto uno schema per l‟emissione di Eurobonds da parte di una Agenzia Europea del Debito, cui verrebbero assegnate in dotazione le riserve auree del Sistema Europeo delle Banche Centrali e azioni di imprese di stato per un totale dell‟ordine di 1000 miliardi di euro, che potrebbero finanziare l‟acquisto di titoli di stato di paesi europei a rischio per un ammontare multiplo, poniamo 3000 miliardi di euro. Questa proposta ha il merito di suggerire risorse congrue all‟emissione di tali titoli, ma soffre di altri inconvenienti: 1) la destinazione allo scopo di azioni delle imprese di stato paralizzerebbe la loro privatizzazione, che al di fuori dei settori di interesse pubblico avrebbe vantaggi attesi di efficienza; 2) la vendita dell‟oro è soggetta ad accordi fra Banche Centrali che ne limitano la negoziabilità; 3) la Banca d‟Italia e quindi le sue riserve sono per il 94% di proprietà privata, in seguito alla privatizzazione delle banche di diritto pubblico che originariamente ne possedevano le azioni, che avrebbero dovuto essere scorporate prima della privatizzazione e acquistate dal Tesoro ma non lo sono state; 4) non si vede su che base l‟Agenzia in questione potrebbe godere di un leveraging anche modesto, in una situazione di partenza di grave crisi finanziaria.

La seconda variante di Eurobonds è un titolo che, indipendentemente dalla istituzione che potrebbe emetterlo, godrebbe di una garanzia collettiva e individuale (joint and several) da parte di tutti i membri dell‟area dell‟euro, magari allargata ad altri membri dell‟Unione. Naturalmente i paesi di maggiore solidità e credibilità finanziaria, e in primo luogo la Germania, temono giustamente di finire come gli unici pagatori finali di una garanzia del genere, soprattutto se scoppiasse una crisi generalizzata. Pertanto non solo il Cancelliere Angela Merkel, ma l‟intero establishment tedesco dal Presidente della Federazione Christian Wulff al Governatore della Bundesbank Jens Weidmann, dal Bundestag alla stampa e all‟opinione pubblica nazionale, si sono decisamente e ripetutamente espressi contro questa possibilità, almeno finché non si realizzi non solo una maggiore disciplina fiscale con poteri europei di interferenza sui conti pubblici nazionali, ma anche la pre-condizione di una maggiore convergenza fiscale dei debiti nazionali. Tale posizione veniva ribadita dal Consiglio Europeo del 9 dicembre.

D‟altra parte se gli Eurobonds fossero coperti solo da garanzie nazionali pro-quota (una terza possibilità presa in considerazione dal recente Rapporto della Commissione Europea in materia di Eurobonds, 2011), non ci sarebbe alcun vantaggio in termini di tasso d‟interesse, perché tali Eurobonds sarebbero equivalenti ad un pacchetto di titoli nazionali costruito con le stesse proporzioni, che si potrebbe confezionare facilmente senza alcuno sforzo di innovazione finanziaria, e che operazioni di arbitraggio farebbero tendere necessariamente a un tasso di rendimento uguale alla media ponderata dei rendimenti degli stati partecipanti, non si capisce a quale scopo. A meno che la Banca Centrale Europea non richiedesse, come collateral delle sue operazioni su titoli, un pacchetto siffatto di titoli di stato dell‟area dell‟euro invece di accettare quelli di singoli paesi, nel qual caso si creerebbe una domanda addizionale per i titoli dei paesi “periferici” e una offerta addizionale di titoli dei paesi più solidi, che senza dubbio ridurrebbe sia pure marginalmente il divario fra i rendimenti dei due gruppi di paesi. E‟ questa una recente proposta di Casper de Vries (2011), meritevole di considerazione anche se con effetti probabilmente molto modesti.

Un’imposta sulle transazioni finanziarie. Si può solo sperare che questa imposta sarà introdotta al più presto, perché questo è l‟unico modo di verificare se nell‟economia globale tale imposta verrà elusa su vasta scala tramite la concentrazione di tali transazioni nei paesi che inevitabilmente non tutti l‟adotteranno (senza contare la possibilità che, anche se tutti i paesi del mondo l‟adottassero, tali transazioni possano avvenire esentasse nel cyber-spazio) o se, come si attendono i suoi proponenti, produrrà un gettito ragguardevole calcolabile con la semplice applicazione dell‟aliquota d‟imposta ad un volume di transazioni che rimanga invariato nonostante il dirottamento delle transazioni che ragionevolmente ci si deve attendere con l‟introduzione della nuova imposta.

Ministro Europeo dell’Economia. Fintantoché non si avrà una Unione fiscale vera e propria, con una capacità europea autonoma di imposizione fiscale, e con un bilancio che assorba gran parte dei bilanci nazionali, tale Ministro rimarrebbe un Ministro senza portafoglio, e quindi senza le risorse, gli incentivi e i disincentivi essenziali per realizzare una sia pur rudimentale politica economica europea.

La concezione di Unione Fiscale che, sotto l‟influenza tedesca, è prevalsa al Consiglio Europeo del 9 dicembre 2011 non è che un vincolo fiscale al deficit strutturale dei 26 paesi che l‟hanno sottoscritto (con l‟esclusione del Regno Unito) dello 0.5% del PIL, con sanzioni in caso di superamento e procedure rigorose di rientro (non ancora specificate, ma automatiche tranne nel caso di richieste approvate a maggioranza qualificata). Le etichette che sono state usate per designare tale patto Unione di Bilancio, Unione di Stabilità Fiscale non sono altro che manifestazioni tipiche di eufemismi dell‟Eurospeak, o “Europe-ese”. Visto il carattere pro-ciclico delle misure adottate Kevin O‟Rourke chiama queste etichette “un abuso quasi-Orwelliano del linguaggio” (Eurointelligence.com, 12/12/2011). Tanto più che ci assicura Giuliano Amato (2011) per rafforzare le procedure e le sanzioni già previste dall‟art. 126 del Trattato per i disavanzi eccessivi di tutti gli Stati membri non era affatto necessario modificare il Trattato, bastava applicarne le clausole che riguardano la stessa zona euro, più, eventualmente, la clausola di flessibilità”, applicando l‟art. 136 del Trattato, senza introdurre altri indugi e complicazioni al solo scopo di rassicurare la politica interna tedesca.


7. Dopo la crisi

Dopo la crisi, l‟economia globale dovrebbe avere stabilito
qualche forma di governance globale, anziché affidarsi come oggi alle molte e inadeguate istituzioni ad hoc, messe insieme frettolosamente per dare una qualche impressione di governance. Ma la fondazione di un governo globale oggi richiederebbe non solo la sua universale accettazione nella sua forma iniziale, ma anche la fissazione di tutte le regole per il suo continuo aggiustamento a circostanze future, impreviste e imprevedibili: tale accettazione oggi è praticamente impossibile. Per di più il mantenimento dello stato nazionale è per molti versi desiderabile poiché fornisce un livello di autorità che può proteggere i cittadini nazionali sia dalle imprese multinazionali sia da un potere globale pubblico che, data la sua natura necessariamente monopolistica, potrebbe facilmente sottrarsi al controllo democratico, in mancanza di ogni altro territorio rimanente dove potersi rifugiare.

Se vinceranno le resistenze a costruire una governance europea, a maggior ragione sarà ancora più difficile costruire istituzioni di governance globale; e se si affermerà una governance europea essa necessariamente militerà contro forme addizionali o alternative di governance globale.

Si dovrà cercare di impedire l‟operazione dei fattori che hanno facilitato l‟ultima crisi globale, o perlomeno di neutralizzarne gli effetti peggiori. Ad esempio, l‟aumento della capitalizzazione delle banche, previsto dalle nuove regole di Basilea III, avrà effetti benefici di lungo respiro per la stabilità finanziaria, anche se al costo di un effetto iniziale sfavorevole sul volume del credito, aggravando il credit crunch associato alla crisi del debito sovrano. Qualunque sia la sorte dell‟euro, una nuova moneta composita dovrebbe emergere al posto dell‟euro e del dollaro USA.

Con tutta probabilità sarà reintrodotta la separazione delle attività bancarie al dettaglio e all‟investimento (sul modello del Glass-Steagall Act) come è già stato proposto nel Regno Unito dalla Vickers Commission. Il commercio dei derivati “Over The Counterpotrebbe essere assoggettato a regole più strette, quali il requisito di avere un interesse sottostante “assicurabile” perché si possa prendere una posizione in quel mercato, o il divieto di vendere allo scoperto titoli di stato, obbligazioni e azioni che è stato introdotto temporaneamente in vari paesi dell‟Unione. Il tradizionale principio dell‟indipendenza della Banca Centrale nel raggiungimento esclusivo di un obiettivo di inflazione (inflation targeting) probabilmente si trasformerà in un obiettivo multiplo che includerà anche obiettivi come l‟occupazione o la competitività internazionale che a quel punto potrebbe essere perseguito in maniera ancora più indipendente. Potremo assistere a tentativi di proteggere le industrie nazionali e fermare l‟immigrazione, che probabilmente non avrebbero successo vista la forza irresistibile delle tendenze in corso.

L‟eventuale scomparsa dell‟euro o riduzione della sua area monetaria avrebbe costi di dis-integrazione probabilmente inferiori a quelli sofferti dalla dis-integrazione economica e valutaria che negli anni „novanta ha colpito i paesi della transizione post-socialista, che al tempo stesso hanno sofferto i costi della trasformazione sistemica da un sistema socialista pianificato ad un sistema capitalista di mercato. Questi paesi hanno impiegato da dieci a vent‟anni per recuperare i livelli di reddito e di consumo precedenti. Tuttavia il costo di una eventuale dis-integrazione o anche solo la riduzione dell‟area dell‟euro e dell‟Unione avrebbe, pur sempre, un costo immenso. Per di più, come dichiarava Helmut Kohl (Bild, 30 novembre 2011), la soluzione della crisi dell’euro è una questione di guerra o pace: “I rischi derivanti dalle misure prese per portare avanti un‟Europa unita sono minori dei rischi che l‟Europa si possa dividere con la possibilità di una guerra”.

In linea generale, oggi il sistema economico emergente dalla crisi si prospetta sostanzialmente molto simile a quello di prima della crisi, migliorato in alcuni aspetti ma peggiorato dai tagli di vasta scala alla spesa di welfare resi necessari dal discutibile scopo di raggiungere l‟equilibrio fiscale, e dai costi della recessione, che sarebbero particolarmente gravi nel caso malaugurato di dis-integrazione dell‟area dell‟euro. Il sistema nazionale e globale emergente dopo la crisi sarà più conflittuale e insicuro, più diseguale e meno coesivo, meno anziché più “verde” – in sostanza un mondo più sgradevole in cui vivere. Ma non c‟è alcuna necessità che lo sia.

________________________________________________________

1. Seminario per l‟Associazione Etica ed Economia, Roma, 14/12/2011. Sono grato ai partecipanti, e ad Alberto Bagnai e Beatrice Gorga, per utili commenti anche se non sempre li ho recepiti nella revisione del testo.

2. Professore Emerito, Ordinario di Sistemi Economici Comparati, Sapienza, Università di Roma. This email address is being protected from spambots. You need JavaScript enabled to view it..
Website http://sites.google.com/site/dmarionuti/
Blog “Transition”http://dmarionuti.blogspot.com/

3. Investimenti Diretti Esteri sono definiti convenzionalmente come partecipazioni azionarie di almeno il 10 per cento.

4. L‟articolo 18 stipula che nelle imprese con oltre 15 dipendenti il licenzimento è valido se avviene per giusta causa; in caso contrario il giudice su ricorso del lavoratore dichiara l'illegittimità dell'atto e ordina la reintegrazione del ricorrente nel posto di lavoro. In alternativa, il dipendente può accettare un'indennità pari a 15 mensilità dell'ultimo stipendio, o un'indennità crescente con l'anzianità di servizio.

5. Ciampi tuttavia accompagnava a questa separazione lo strumento della concertazione economica, non sempre applicato nel periodo successivo fino ad oggi.

6. Probabilmente questa stima contiene delle duplicazioni, in quanto pare che il rinnovo di un prestito venga contato come un intervento addizionale senza compensarlo con l‟estinzione del prestito precedente.

7. Il Frankfurter Allgemeine Zeitung del 23 dicembre 2011 mette in rilievo che la liquidità netta iniettata dalla BCE nel sistema è in realtà di €210 miliardi, tenendo presente la fine di una precedente operazione di mercato aperto di €234 miliardi e l‟allungamento da uno a tre anni di
un‟allocazione pre-esistente di €45 miliardi (Eurointelligence.com, 23/12/11).


RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
Amato Giuliano (2011), L’intesa a 26 è ancora troppo debole, Il Sole 24 Ore, 11 dicembre. http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2011- 12-11/lintesa-ancora-troppo-debole-081030.shtml?uuid=AaW95ETE
Blejer Mario (2011), Europe is running a giant Ponzi scheme, Financial Times, 5 May. http://www.ft.com/cms/s/0/ee728cb6- 773e-11e0-aed6-00144feabdc0.html#axzz1hdYTAWZo
Buiter Willem (2010), Sovereign Debt Problems in Advanced Industrial Countries, Global Economics View, Citibank, 26 April. http://www.instituteofideas.com/documents/Buiter%20on%20Sover eign%20Debt.pdf
Buiter Willem (2011a), The terrible consequences of a eurozone collapse, Financial Times, 7 December. http://www.ft.com/intl/cms/s/0/6cf8ce18-2042-11e1-9878- 00144feabdc0.html#axzz1gtzAlaHF
Buiter Willem (2011b), The Debt of Nations Revisited: The Central Bank as a quasi-fiscal player: theory and applications, Federico Caffè Lecture n. 2, Facoltà di Economia, Sapienza Università di Roma, http://willembuiter.com/caffe2.pdf
Clericetti Carlo (2011), Le imprese: l'art. 18? Non ci interessa, Eguaglianza e Libertà, 23 dicembre, http://www.eguaglianzaeliberta.it/articolo.asp?id=1437
Commission of the European Communities (2011), Green Paper: Feasibility of introducing Stability Bonds, Brussels.
Felkerson James (2011), $29,000,000,000,000: A Detailed Look at the Fed’s Bail-out by Funding Facility and Recipient, Levy Economics Institute of Bard College, December http://www.levyinstitute.org/pubs/wp_698.pdf .
Lettieri Antonio (2011), Ora tocca al lavoro: Avanti gli ipocriti, Eguaglianza e Libertà, 17 dicembre, http://www.eguaglianzaeliberta.it/articolo.asp?id=1431 .
Mundell Robert A. (1997), “The great contractions in transition economies”, in Mario I. Blejer and Marko Skreb (Eds), Macroeconomic Stabilisation in Transition Economies, CUP 1997, pp.73-99.
OECD (2008), Croissance et inégalités : Distribution des revenus et pauvreté dans les pays de l’OCDE, Paris.
OECD (2011a), Economic Outlook 11/2011, Paris, November.
OECD (2011b), Toujours plus d'inégalité : Pourquoi les écarts de revenus se creusent, Paris, Decembre. http://www.oecd.org/document/10/0,3746,fr_2649_33933_491478 50_1_1_1_1,00.html
Palley Thomas I. (2011), Euro lacks a government banker, not a lender of last resort, FT Economists‟ Forum, 9 December. http://blogs.ft.com/economistsforum/2011/12/the-euro-lacks-a- government-banker-not-a-lender-of-last-resort/#axzz1g31Gizzm
Prodi Romano e Alberto Quadrio Curzio (2011), EuroUnionBonds per la Nuova Europa, Il Sole-24Ore 23 agosto, http://www.ilsole24ore.com/art/economia/2011-08- 22/eurounionbond-nuova-europa-201300.shtml?uuid=AapbbDyD
Sunseri Nino (2011), Monorchio: invece della patrimoniale, Giornale di Sicilia, 28 settembre.
Valiante Diego (2011), The Gloomy Scenario of Italy’s default, ECMI Commentaries, CEPS, Brussels, 16 December. http://www.ceps.eu/book/gloomy-scenario-italy%E2%80%99s- default
Vries Casper de (2011), How the ECB could intervene without risk of inflation, Eurointelligence.com, 7/12/2011.
Wray L. Randall (2011), $29,000,000,000,000: A Detailed Look at the Fed’s Bailout of the Financial System, Levy Economics Institute of Bard College, http://www.levyinstitute.org/pubs/op_23.pdf , 12 December.

Add comment

Submit