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Ma cos'è questa crisi?*

di Dante Lepore

Faccio riferimento ai testi qui di seguito per cercare di sbrogliare una matassa che si fa sempre più intricata.

- (1) Antonio Carlo, Capitalismo 2011: decomposizione in atto, 3 gennaio 2012
- (2) Antonio Pagliarone, Il Capitalismo come corpo marcescente, Milano 3 Gennaio 2012
- (3) Paolo Giussani, La crisi e il saggio di profitto, Domenica, 22 gennaio 2012
- (4) Marco Sacchi, Dalla decadenza alla decomposizione del capitalismo?, marzo 2011.
- (5) Marcos61: Dalla decadenza alla decomposizione del modo di produzione capitalistico (settembre 2011).
- (6) Marco Sacchi, Lotte operaie nella decomposizione del capitalismo, verso la fine del 2011 (?)
- (7) De Bellis-Fragnito, Una risposta a Carlo Sacchi e Pagliarone sulla decomposizione del capitalismo, Connessioni
- (8) Piero Favetta, Alcune note sul documento di Gianni De Bellis e Mario Fragnito.
- (9) Dino Erba, Perché tante chiacchiere? In margine alle tesi di De Bellis-Fragnito.
- (10) De Bellis-Fragnito, Una risposta a Giussani, 3 febbraio 2012
- (11) Michele Castaldo, Capitalismo, crisi, crollo, rivoluzione, 17 Gennaio 2012.

La discussione ha preso il volo nella stratosfera della teoria (o della «chiacchiera da bar», secondo Dino Erba (9)) sostanzialmente con due pagine di A. Pagliarone (2), che attribuiscono al lungo saggio di A. Carlo (1) il «riferimento ad una sorta di cupola o un grande fratello costituita dalle grandi imprese multinazionali associate alla Finanza (non si capisce come sia materializzata) che condizionerebbe in maniera asfissiante i governi dei paesi più industrializzati che ormai nei loro simposi dei G20 non fanno altro che blaterare di intenti, qua e là rispettati, senza peraltro riuscire a risolvere alcunché». Pagliarone afferma che «ciò è vero» ma che…«non ha senso», perché… non spiegherebbe la «causa» di questa crisi.

Per correttezza e obbiettività, nel lungo saggio di Antonio Carlo non emerge nulla che possa assimilare il potere anonimo del capitale, che condiziona le stesse multinazionali e la finanza, nonché le velleitarie ambizioni della Trilateral, nonché gli stati sovrani, a quella «cupola» o «grande fratello» orwelliano ridicolizzato da Pagliarone. L’incongruenza non sta nel saggio di Carlo, che descrive e documenta abbondantemente (o «fotografa», come Pagliarone stesso ammette nell’esordio del suo articolo) la decomposizione in atto nel capitalismo, vista dallautore nellampio quadro di una decadenza e di una regressione sociale che configurano una crisi senza ritorno.

L’incongruenza sta nella pretesa che questa «verità» come tale non abbia un senso, se questa stessa «cupola» sta «mandando in malora il piatto dove mangia» e le grandi corporation soffrono di un «declino di profittabilità». Una pretesa del genere, ci chiediamo, donde può scaturire se non da una immaginaria natura razionale e lineare del capitalismo, una visione che non tollera contraddizioni?

Evidentemente non si possono attribuire a Carlo le contraddizioni del capitale, un marxista non lo farebbe mai. Ma Pagliarone è in quella particolare ottica di «riprendere le categorie marxiane, senza alcun vincolo ideologico», e di usare dei «correttivi nell’uso delle categorie marxiane»1, e in questa ottica deve applicare tali correttivi alla lettura, fino a distorcere anche i fatti descritti dall’interlocutore. A p. 2 del suo saggio, Carlo rileva che «L’economia mondiale è ferma e anche i dati dei paesi sottosviluppati, formalmente in crescita, non cambiano il quadro complessivo», e fornisce i dati della crisi di sovrapproduzione facendo analogie e differenze con quella del ’29, e Pagliarone, incurante del fatto che una descrizione empirica di dati economici non è un teoria, deve sostenere che «Carlo ci propone la solita tesi della crisi di sovrapproduzione» e deve rilevare che «a me sembra che ci sia una incongruenza». E ci risiamo: da un lato si afferma che: «È vero che il grado di utilizzo della capacità produttiva è declinato negli ultimi decenni e con essa gli investimenti in capitale fisso (addirittura assistiamo ad un grado crescente dell’invecchiamento dei macchinari)»…ed è altresì vero quanto «Carlo afferma che la ricchezza prodotta non essendo assorbita dagli investimenti rifluisce verso la finanza»… ma Carlo «si ferma qui relegando in una nota il riferimento a contratti futures sulle materie prime. Egli non fa alcun riferimento al meccanismo di lungo periodo che ha caratterizzato la trasformazione dell’economia globale verso la finanza speculativa». Dunque Carlo non nega neppure, anzi descrive e documenta, la caduta produttiva e il declino degli investimenti in capitale fisso e, aggiungiamo noi, documenta (con il calo occupazionale e l’abbassamento dei salari) anche la caduta dell’investimento nella parte variabile del capitale (epifenomeno della non-riproduzione del capitale complessivo, di cui distrattamente Pagliarone si è scordato)…ma non individua il «meccanismo» di «trasformazione dell’economia globale verso (sic!) la finanza speculativa». Si dà il caso che questo «meccanismo di lungo periodo» neppure lui riesce a individuarlo. È vero che egli parla di una «mutazione genetica del capitalismo che ha portato la finanza speculativa ad essere la forma dominante dell’economia mondiale»2, ma quali siano tali «meccanismi», tali da modificare la natura del capitale, non è dato vedere né in questo né in altri scritti di Pagliarone. Certamente, abbiamo già osservato in merito a ciò3 che «l’entità gigantesca del capitale fittizio non richiede tanta originalità o revisione delle categorie marxiane per constatarla, ma non basta che un fenomeno sia quantitativamente rilevante perché si possa parlare di mutazione «genetica», a prescindere dal fatto che le mutazioni genetiche non hanno molto a che fare con i processi storici, in cui le conversioni della quantità in qualità non sono mutazioni a salti ma processi dialettici. Che poi la «forma dominante» dell’«economia mondiale» sia la «finanza speculativa» (bell’esempio di uso non ideologico di categorie… [pseudo] marxiane) non è comprensibile, quando si rifletta che nessuna finanza speculativa potrebbe neppure esistere, tanto meno dominare, senza capitale produttivo di plusvalore, e se questa natura del capitale non è mutata, e non lo è, significa solo che parlare di mutazione genetica del capitalismo è solo un diversivo parolaio», o una «chiacchiera», come ora direbbe Dino Erba (9).

Pagliarone aggiunge che ciò «non è grave poiché non è obbligatorio conoscere tutte le finezze della dinamica speculativa. Ciò che invece è grave è il mancato riferimento all’andamento del saggio del profitto, causa maggiore che ha determinato la deviazione verso la finanza speculativa» e sarebbe grave, tanto più che «il declino di lungo periodo del tasso del profitto è stato studiato moltissimo dagli osservatori marxisti nei decenni scorsi ed anche in Italia, purtroppo in questo paese tale approccio alla analisi marxiana è stato sempre disatteso a favore delle teorie regolazioniste tipiche della sinistra di tutte le orientazioni.»

Antonio Carlo insomma avrebbe commesso una serie di peccati di omissione, degli atti mancati, dei lapsus, di cui il più grave sarebbe il «mancato riferimento» all’andamento del saggio di profitto (in calo!) come «causa» di «deviazione verso la finanza speculativa».

Diventa superfluo qui appurare se e perché Carlo non si sia esteso a parlare dell’andamento del saggio di profitto, studio che, come è arcinoto, è impossibile fare a livello mondiale e soprattutto con un calcolo di ogni forma giuridica e organizzativa aziendale, corporate o non corporate, considerando anche il sommerso e le aziende individuali, al netto di ogni forma di tassazione e di indebitamento e intreccio col capitale finanziario. Soprattutto non è possibile farla a prescindere dal fattore tempo, che, in una situazione di incessanti e imprevedibili cambiamenti, manda all’aria ogni possibilità di calcolo, come dimostra il problema delle interpretazioni «alternative» alla teoria marxiana del valore, come si è configurato a partire dalle considerazioni di Sraffa e di coloro che in varie scuole han tentato di uscire dall’impasse in cui si era cacciato il problema della «trasformazione» del valore in prezzi4.

Inoltre, una simile obiezione reggerebbe qualora fosse Pagliarone a darcene un quadro chiaro e pulito. Lo stesso Giussani, di cui Pagliarone si fa spesso portavoce, e che in fatto di «capitale speculativo»5 sostiene cose fatte proprie anche da Pagliarone, ora (3), sulla scorta di dati di A. Kliman6 (limitati agli USA e al solo settore corporate!), sostiene che occorre «valutare un’asserzione che oggi gira abbastanza di frequente fra i marxisti, secondo la quale il capitale ad un certo punto avrebbe virato verso la finanza perché il saggio del profitto era ormai troppo basso e scarseggiavano occasioni di investimento produttivo abbastanza redditizie mentre la finanza garantiva profitti più alti. Questa teoria, così logica per molti, non vale assolutamente nulla. Il settore finanziario ha realizzato un saggio del profitto superiore a quello del settore finanziario lungo tutto il dopoguerra, ma la conversione dei profitti realizzati in capitale fittizio è cominciata solo all’inizio degli anni ’80, praticamente in coincidenza con la recessione del 1980-81. E come mai il saggio del profitto settoriale della finanza è relativamente più alto e tende ad innalzarsi? Questo può essere dovuto soltanto ad un boom speculativo già avviato cioè allo spostamento già in corso dei profitti verso la speculazione.»

La conclusione di Giussani è perciò diametralmente opposta a quella di Pagliarone:

«È semplicemente impossibile sostenere che il saggio del profitto abbia tendenzialmente declinato lungo tutto il periodo dalla fine della guerra ad oggi, come è impossibile sostenere che la caduta del saggio del profitto abbia causato la crisi». Anzi, aggiunge, «la crisi è arrivata dopo un trend ascendente, o comunque non certo discendente, piuttosto prolungato, del saggio del profitto». Quanto all’accumulazione e all’andamento del suo saggio, sempre interpretando i grafici di Kliman: «la crisi iniziatasi nel 2007-2008 non è il risultato finale di un processo di forte accumulazione, bensì l’esatto contrario». E, circa il «meccanismo» reclamato da Pagliarone, così conclude: «Naturalmente può benissimo essere che la diminuzione tendenziale del saggio del profitto giunta sino agli anni ’80 abbia messo in moto un meccanismo che, attraverso un lungo periodo di incubazione e molte mediazioni, abbia infine generato il disastro corrente. Ma non certo di per sé. E senza l’esame di tutte queste mediazioni, sulla crisi attuale non si può letteralmente dire niente Poiché l’esame di tutte queste «mediazioni» nessuno lo ha ancora fatto, neppure Pagliarone, è piuttosto curioso che ora venga richiesto al saggio di A. Carlo. La conclusione di Giussani è perentoria: «la diminuzione della quota di profitti accumulati è stata causata dalla conversione di profitti in dividendi e titoli finanziari, cioè in dividendi e capitale fittizio.» In definitiva non c’è «caduta» del saggio di profitto ma una «conversione» di profitti in dividendi e titoli finanziari a loro volta riconvertiti in capitale fittizio, e questo sarebbe una sorta di «meccanismo» d’impiego del capitale in forma speculativa.

Nel suo articolo di un anno fa (v. nota 4), Giussani sosteneva questa stessa tesi che oggi riformula in modo leggermente diverso criticando i «marxisti» succubi a suo dire dei postkeynesiani e per sostenere che l’attribuzione della causa della crisi alla caduta del saggio di profitto «non vale assolutamente nulla»: «verso l’inizio degli anni ’80, prende il via il grande movimento di spostamento del capitale monetario dalla sfera produttiva a quella speculativa. Una volta create le premesse, un boom speculativo, ovvero la tendenza a trasferire verso la sfera speculativa i capitali monetari generati nella sfera produttiva, è praticamente automatico e non si inverte spontaneamente». Allora sosteneva che ci fosse uno «spostamento» di capitale monetario dalla sfera produttiva a quella speculativa, oggi sostiene che i marxisti che vedono un capitale «virare verso la finanza» sostengono una teoria che «non vale assolutamente nulla», perché ci sarebbe invece… una «conversione» di profitti in dividendi e titoli finanziari a loro volta convertiti parzialmente in capitale fittizio e sarebbe «il trasferimento di capitale monetario alla finanza che determina l’innalzamento dei profitti finanziari e speculativi e non viceversa».

Distinzioni e/o precisazioni, come si vede, piuttosto di parole che di concetti! Un capitale che si trasferisce, si sposta, vira verso, cosa diavolo fa se non passare da una parte all’altra? E un capitale che si «converte» o che «si trasforma» o che «muta geneticamente» (Pagliarone) non è un capitale che cambia natura? Ora, al di là delle parole o «chiacchiere» che fanno la felicità dei Dino Erba, un capitale che non resta nel processo di rivalorizzazione, che esce fuori dal ciclo riproduttivo, a rigore, ossia nel linguaggio marxiano, non è più capitale, non è più consumato capitalisticamente, in modo riproduttivo di nuovo capitale e nuova forza-lavoro, ma è la forma fenomenica della auto-cannibalizzazione del capitale nella sua fase di decadimento e decomposizione. Giussani riporta in epigrafe al suo articolo l’espressione di Marx: «Io non sono marxista» e naturalmente è di se stesso che sta parlando. Come Pagliarone voleva introdurre «correttivi» nelle categorie marxiane, così Giussani usa allegramente concetti marxiani per stravolgerli parlando di «profitti finanziari e speculativi» o di «saggio di accumulazione speculativa». Con queste credenziali, come si fa a ragionare sulla crisi se non a livello di «chiacchiera»? Ha proprio ragione Giussani quando afferma che «di saggi del profitto ve ne sono millanta che tutta notte canta»!

Questo modo di vedere il capitale come sfere distinte non collima con la visione monista del capitale totale datane da Marx, finendo per immaginare fantastici spostamenti da una sfera allaltra, senza mai riuscire a dare una descrizione empirica di quelli che si presumono dei mec-canismi che peraltro cambierebbero la natura del capitale7.

In definitiva, un anno fa, in ciò non diversamente da Pagliarone, Giussani immaginava e teorizzava di «una sfera» di capitale speculativo che vive per conto suo, non si sa come, accanto a un’altra sfera, quella del capitale produttivo (che peraltro, irrigidito in tale sfera, perde ogni connotato reale di rapporto sociale per assumere l’aspetto di una cosa!). Dunque due capitali, uno produttivo, uno speculativo, senza porte e finestre, come le monadi di Leibnitz! Il «boom speculativo» avverrebbe quando, non si comprende in quali processi reali e perché, la sfera speculativa inghiotte, pur restando indipendente nella sua sfera, la forma monetaria della sfera produttiva. Questo arzigogolo metaforico, può forse stare nel cielo della «speculazione» filosofica, ma non regge sulla terra dei processi reali dove conta davvero l’analisi «empirica». Nella realtà, e non nell’astrazione scientifica, capitale produttivo e forma speculativa sono realmente e fisicamente indistinguibili, il capitale industriale è intrecciato con quello bancario e la bolla scoppia quando la velocità di estrazione del plusvalore nella I e II sezione (mezzi di produzione e mezzi di consumo) condizionata dall’entità e dai tempi del consumo produttivo, che ha dei limiti fisici e storici, si scontra con la velocità e la crescita teoricamente infinita delle transazioni a scadenza proprie del credito ossia del capitale fittizio: non c’è abbastanza plusvalore per la riproduzione allargata, ossia per gli investimenti produttivi perché questo plusvalore dovrebbe ricoprire tutta la catena di indebitamenti e anticipazioni, promesse e aspettative più o meno fasulle. Nella realtà, e non nell’immaginazione dei teorici intenti a far le pulci ai marxisti reali o sedicenti, il capitale speculativo non deriva né da spostamento né da conversione di capitale monetario già generato dal capitale produttivo nel processo di valorizzazione e realizzato nel processo di circolazione, o piuttosto da plusvalore già estratto, ma è per l’appunto speculazione, è titolo cartaceo raffigurante un’aspettativa di capitale anticipato non realizzato, plusvalore virtuale che deve essere ancora estratto, è per l’appunto capitale fittizio.

Tale boom, proseguiva Giussani, «introduce la tendenza alla crescita di un indebitamento senza precedenti, diffondendo le operazioni del capitale speculativo praticamente in tutti gli aspetti della vita sociale, principalmente attraverso le privatizzazioni dei servizi pubblici». Incredibile questa inversione dei rapporti causa/effetto: l’indebitamento, sia privato che degli Stati, c’era già prima del boom della bolla speculativa. È allucinante e misteriosa questa spiegazione del diffondersi della speculazione attraverso… la privatizzazione dei servizi pubblici! Nella realtà la speculazione c’è in ogni settore produttivo, indipendentemente dall’entità e dal carattere giuridico pubblico o privato della «gestione», siano le ferrovie o i trasporti o l’automobile o la sanità o la telefonia, proprio come l’antenata dell’interesse, l’usura, taglieggiava sia il mercante che il signore. Quello delle privatizzazioni dei servizi pubblici non è altro che un mutamento nella forma giuridica di appropriazione o appalto di flussi di rendita, di interessi o di imposta. La gestione dei servizi telefonici, postali, elettrici, ferroviari o delle entrate tributarie e persino dell’erogazione delle acque, non è altro che una forma di compravendita di rendite più sicure in quanto regolari rispetto agli investimenti in capitale azionario in cui i dividendi sono variabili e aleatori. La privatizzazione, che moltiplica il fenomeno ma non cambia la natura rentier né del capitale né della speculazione stessa, è alimentata dall’ideologia secondo la quale l’introduzione della competizione per questa via ridurrebbe i costi al consumo e migliorerebbe la qualità dei servizi. E questa è la balla più colossale in quanto per l’appunto l’impiego del capitale privato in settori comunque monopolisti è volto esclusivamente a garantirsi i flussi di rendita e di interesse in settori che restano monopolisti anche se gestiti da privati. Ed è per questo che le linee ferroviarie, le poste continuano a non funzionare, come i telefoni a rincarare, e in genere la manutenzione ad essere abbandonata. Questo declino di attività produttive anche di plusvalore deriva proprio dal fatto che il capitale produttivo necessita di un saggio di profitto più alto proprio per il gigantismo assunto dalla concentrazione e dalla centralizzazione e dalla composizione organica che abbassano il saggio di profitto fino al punto da non essere più compensato anche da un alto saggio di plusvalore. In questo modo, diventa più «profittevole» investire in grandi opere (vedi TAV) piuttosto che riparare fognature, curare le strade, ecc. Non è solo un gap del settore produttivo, ma anche di quelli della circolazione e dei servizi. Il capitale nel suo sviluppo ha strutturato persino il territorio a misura di questo processo che ha portato alle conurbazioni moderne che sono diventate lo specchio del suo «mercato» prettamente urbano, ingigantendo per converso le proprie contraddizioni insolubili e determinando quello che da qualche an-no si sta manifestando un processo di decomposizione che affosserà comunque il sistema8.

La visione emergente dalle tesi di Giussani e Pagliarone,  anche se di fatto discorde sulla questione della caduta del saggio di profitto, ci mostra una crisi del capitale che ne muta la natura, in base all’introduzione di meccanismi che ne alterano il funzionamento, fino al declino e alla morte… senza che ci sia mai un proletariato a farne il funerale9 .

La caduta del saggio di profitto tra sistema chiuso e sistema aperto

 

A De Bellis e Fragnito (v. 7 e 10 degli interventi citati sopra), oltre alle, a parer nostro sostanzialmente giuste, osservazioni fatte da Piero Favetta (8), si può osservare che in merito alla descrizione concreta del valore della forza-lavoro, come delle altre merci, non solo non è indifferente il loro valore d’uso ai fini del rilevamento dell’accumulazione e del saggio di profitto, ma è importante considerare questo valore d’uso uscendo dal sistema chiuso della riproduzione semplice e dei due interlocutori fondamentali (capitalista e operaio) ed entrando nel sistema aperto della riproduzione del capitale complessivo sociale, dove Marx dimostra l’insufficienza dell’economia politica classica che, con Ricardo, era approdata alla determinazione del valore in base al tempo di lavoro incorporato o oggettivato nella merce o necessario a produrre quella merce. Nel III libro del Capitale (che, ricordo, fu scritto prima degli altri due), Marx indica infatti che «Il valore di ogni merce non è determinato dal tempo di lavoro necessario in essa contenuto, ma dal tempo di lavoro socialmente necessario richiesto per la sua riproduzione». Le conseguenze di questa apparente negazione da parte di Marx della sua precedente definizione del valore (tempo di lavoro necessario a produrre la merce) non sono da poco, come vedremo.

Quanto al merito degli appunti mossi da Dino Erba alle considerazioni di De Bellis e Fragnito sulla questione del valore d’uso rispetto al valore di scambio delle merci e della forza lavoro, in parte giustificate e ammesse da questi ultimi, esse concludono che non merita far chiacchiere, ma entrare nel vivo delle questioni concrete che, oggi, coinvolgono la condizione della classe (peggioramento delle condizioni di vita, lavoro nero e prolungamento della giornata lavorativa ai limiti della schiavitù). Tutto giusto, sembra, però la critica è fatta in questo modo: «nel corso degli ultimi anni l’estorsione di plusvalore relativo (indotta dalla calante introduzione di nuove tecnologie nel processo produttivo) è stata via via erosa dalla prevalente estorsione di plusvalore assoluto (prolungamento della giornata lavorativa, diffusione del lavoro nero, con conseguente riduzione del salario differito/ welfare, fino al ritorno di vere e proprie forme di schiavismo, e non solo nei Paesi del Terzo Mondo)». Ci chiediamo: 1) cosa significhi l’estorsione di plusvalore relativo indotta dalla calante introduzione di nuove tecnologie? (a rigore l’introduzione di nuove tecnologie fa aumentare il plusvalore relativo, rendendo obsoleto e svalorizzato il capitale fisso che tuttavia rimane capitalizzato in forma fittizia; se non c’è innovazione, il plusvalore relativo non c’è proprio); 2) cosa significa che l’estorsione di plusvalore relativa è «erosa» dalla prevalente estorsione di plusvalore assoluto? (sembra che nell’unica giornata lavorativa ci siano due grandezze di plusvalori, uno relativo e uno assoluto di cui uno… ruba all’altro).

Ma è forse una questione di comunicazione, ed è preferibile non farne tante di parole e riprendere il tema della caduta del saggio di profitto che sembra il cuore di tutta la discussione, nella quale si è messo, da ultimo, anche Roberto Luzzi con un suo editoriale su «Pagine Marxiste»10, per escludere, anche lui (sulla scorta sia di una esemplare esposizione della formula marxiana del sistema chiuso, sia di grafici che, guarda caso sempre relativi agli USA, analizzano il fenomeno dalla crisi del 1929 a quella attuale) che di caduta, nemmeno tendenziale, si possa parlare. In merito, Dino Erba aveva già mosso una critica al nostro libro11, secondo la quale le radici della crisi non starebbero nella crescita del capitale fittizio, bensì nella… caduta del saggio di profitto, errore che l’autore non avrebbe commesso se non avesse, a suo dire, «trascurato le tesi di Giussani e di Antonio Pagliarone»: «[…] Entrando nel merito della questione, Lepore si richiama alle tesi di Goldner (di cui pubblica un saggio in Appendice), che individuano le cause della crisi nella crescita abnorme del capitale fittizio (il debito): è una massa puramente cartacea (o virtuale), cui non corrisponde un reale valore, di beni e servizi, dando così vita a un sistema economico basato sul «nulla». È una spiegazione che, per quanto ampiamente argomentata e degna di attenzione, suscita tuttavia qualche perplessità, poiché, a nostro avviso, non giunge alla radice della crisi, che vediamo piuttosto nella caduta del saggio di profitto (da cui la «fuga» nell’espediente della speculazione e del debito). Non per nulla Lepore trascura le tesi sostenute, a questo proposito, da Antonio Pagliarone e, in particolare, da Paolo Giussani». Per la precisione, nel testo recensito la speculazione non è affatto un «espediente», né si parla di alcuna «fuga» (messa da Dino Erba persino tra virgolette!), né si riduce il capitale fittizio al debito, ed è evidente che l’ossessione del movimento di capitale da una sfera all’altra è un luogo comune che fa da interfaccia nella lettura dei fenomeni così come sono e vengono descritti. Quisquilie? Vediamo.

L’esame delle tesi di Pagliarone e di Giussani (vedi I parte) smentisce l’appunto di Dino Erba perché proprio Giussani afferma che l’attribuzione della causa della crisi alla caduta del saggio di profitto… «non vale assolutamente nulla». A questo rilievo, Dino Erba ci risponde in una mail semplicemente: «touché». Quanto a Pagliarone, la sua critica ad Antonio Carlo di aver trascurato del tutto di accennare alla caduta tendenziale del saggio di profitto come causa principale della crisi è dello stesso tenore di quella mossaci da Dino Erba e dunque ritorce a quest’ultimo la stessa taccia di «caduta di stile» attribuita nella recensione al nostro studio. Come minimo, Giussani e Pagliarone non sono affatto d’accordo sulla responsabilità della caduta del saggio di profitto rispetto alla crisi attuale. Il problema però non è di chi ha ragione nell’affermare o negare la caduta del saggio di profitto ma di come ci si arriva ad affermarla o negarla o a darla implicitamente come esistente.

Non a caso infatti l’articolo di Giussani non contiene, come abbiamo visto, solo questa smentita a chi come Dino Erba e Pagliarone attribuisce la crisi alla caduta del saggio di profitto, bensì altre valutazioni sulla accumulazione, sulla cosiddetta finanziarizzazione e sul capitale speculativo, che meritavano una critica più attenta. Non resta chiaro cosa intenda Giussani per saggio di profitto nel settore finanziario, o comunque perché attribuisca un saggio di profitto anziché al capitale produttivo soltanto al «settore» finanziario assimilato (giustamente) al capitale fittizio. C’è qualcosa che non torna nei grafici presi da Kliman così concepiti, perché ne vien fuori un profitto originato dai mercati finanziari anziché dalle fabbriche. La nostra critica a Giussani, questa sì mai capita da Dino Erba, è che il capitale rentier non produce profitto (perché non estrae plusvalore) ma lo consuma improduttiva-mente in reddito o in interesse e rendita, ingigantendo la bolla fittizia e dando l’illusione «speculativa» (in chi è vittima della catena Ponzi della finanza strutturata dei derivati) che il denaro «produca» di per sé denaro. Il capitale fittizio è semplicemente capitale che…non c’è (non c’è più perché svalorizzato, come ad esempio il capitale fisso obsoleto, o non c’è ancora in quanto flusso anticipato e capitalizzato di contante), è falso immaginarlo come capitale che produca profitti e che passa da una parte all’altra. Vano sarebbe immaginare un suo ritorno al «settore» produttivo piuttosto che una svalorizzazione parziale o complessiva periodica del capitale. Calcolare la caduta del saggio di profitto includendo lavoro produttivo e improduttivo occulta di fatto la caduta del saggio di profitto. La presenza pervasiva del capitale fittizio in ogni comparto produttivo mediante questi titoli a garanzia del saccheggio di plusvalore impedisce di vedere nel lungo ciclo alcuna meccanica caduta del saggio di profitto sottostante generato all’interno del sistema «puro». I conti non tornano mai e allora balzano coloro che escogitano «correttivi della categorie marxiane». Invece siamo in presenza della contraddizione di fondo del capitalismo tra produzione sociale e appropriazione privata, come vedremo.

Infine ma questo vale per tutti quei compagni che si sono cimentati, con diversi esiti, nella considerazione teorica di vari concetti, dal valore d’uso al valore monetario ai prezzi di produzione e al livellamento del saggio di profitto è velleitario tentare di dare un quadro delle tendenze dell’accumulazione e del saggio di profitto prendendo a modelli indici statistici ad uso del capitale americano e relativi parametri, senza considerare il capitale sociale complessivo come sistema mondiale aperto, ossia non solo limitato al capitale produttivo della singola azienda ma al fenomeno complessivo del saccheggio ed espropriazione e dell’accumulazione che includa, oltre alle due classi del sistema chiuso del capitale singolo (capitalisti e operai), anche le cosiddette «terze persone», una indagine dunque che richiederebbe di dar conto, a livello mondiale, del rapporto tra lavoro produttivo e improduttivo, come si diceva.

Sarebbe dunque da registrare e studiare a fondo questa chiave per intendere la storia del capitalismo degli ultimi decenni che stiamo vivendo, chiave che risiede nell’espansione dei «valori» cartacei capitalisti mentre la riproduzione sociale complessiva si contrae e il plusvalore estratto non riesce più a sorreggere l’enorme bolla fittizia piramidale, le cui dimensioni determinano non solo il prolungamento dei cicli di capitalizzazioni ormai selvagge e di svalorizzazione ma indirizzano ogni manovra politica a garantire l’esistenza del capitale fittizio anziché a ridurlo (es. salvataggi bancari e fondi salva stato).

Pertanto, per focalizzare correttamente in modo aderente alla realtà l’accumulazione e la dinamica del saggio di profitto, credo che occorra uscire dal modello «chiuso» (lavoro salariato e capitale, produzione della singola azienda), che del resto non è mai esistito, ed entrare in quello «aperto» (riproduzione allargata sia dei termini [C e V] del rapporto che del rapporto stesso e capitale non più individuale ma totale), nel quale è possibile constatare che la stessa accumulazione è un processo storico permanente e non una partita chiusa per sempre con la rivoluzione industriale inglese, nella protostoria del capitalismo. Se c’è un fertile sviluppo della riflessione marxista di quest’ultimo decennio è proprio quello che in vari modi e con illuminanti risultati ha fornito esempi di analisi sui fenomeni che dimostrano come l’accumulazione originaria che sta alla base dell’avvio di ogni processo capitalista è di fatto un prerequisito permanente del rapporto capitalistico12. In definitiva, spesso non si considera che per Marx il «sistema» capitalistico è per così dire incompleto, ed è in movimento, è un processo che non può essere misurato soltanto sincronicamente (relazione con classi, popolazioni e territori non capitalisti) e non può non essere considerato anche diacronicamente (come transizione dal feudalesimo al socialismo) e dunque è un continuo interagire con popolazioni «fuori» dal sistema chiuso. Marx compie tutto un lavoro di «critica» dell’economia politica e in particolare del «sistema» ricardiano che considerava il capitalismo come sistema chiuso. Questa problematica è stata ripresa sia da Rosa Luxemburg che da H. Grossmann, e da ultimo da Loren Goldner. Alla fine del II e nel III libro del capitale, redatti, si badi bene, lo ripetiamo, prima del I libro, ma lasciati da «sistemare» (come dice Engels), Marx intende far reagire il sistema chiuso, come strumento euristico, con la realtà «aperta».

In questa realtà aperta, le classi capitaliste hanno delle appendici sociali improduttive (capitalisticamente) e parassitarie che il capitale sussume sotto di sé, anche mediante accumulazione, allo stesso modo in cui mediante accumulazione per espropriazione saccheggia territori non capitalisti o già capitalisti per le sue esigenze finanziarie. Nella società capitalista vi sono lavoratori salariati improduttivi che non producono plusvalore ma lo consumano (es. gli impiegati pubblici) e, nel processo di valorizzazione, essi occupano una relazione diversa da quella dei salariati produttivi. Buona parte dei lavoratori immigrati nelle metropoli occidentali erano contadini e artigiani trasferiti dalla piccola produzione che svolgevano in Africa o in America Latina o altrove, anche tra paesi sviluppati (come la cosiddetta nostra emigrazione dei «cervelli»), e vanno dunque considerati come quota parte del capitale in una forma di accumulazione estorsiva originaria, dal momento che il capitale non paga per la loro riproduzione prima del loro inserimento nel lavoro salariato o dopo la loro espulsione (di solito neppure quando ne fanno parte!).

Ora, se mi metto a calcolare il valore di questa forza-lavoro, da dove saltano fuori e dove vanno a finire i relativi costi di riproduzione? Il valore di una forza lavoro proveniente dal Marocco e che è assunta da un’industria lombarda, non trova un corrispettivo nelle spese di sussistenza e istruzione sostenute in Marocco. Occorre altresì connettere questa permanenza dell’accumulazione alla formazione del capitale fittizio. Quello che, con termine ampio, si può definire come «scambio a livelli non riproduttivi» (più prosaicamente, saccheggio!) si determina sia dentro che fuori del sistema chiuso, con fenomeni di «scambio ineguale» nel commercio internazionale, di mancato rimpiazzo di impianti di capitale fisso obsoleto, di mancata sostituzione di infrastrutture, distruzione dell’ambiente (dissipazione energetica e non riproduzione della natura) e soprattutto nell’abbassamento del livello del salario in rapporto al capitale al di sotto dei livelli di riproduzione della forza-lavoro, nonché nell’abbassamento a valori non d’uso di tutte quelle false merci usa e getta inutilizzabili perché prodotte solo per essere comprate e vendute e non per funzionare e riprodurre valore.

L’insieme di queste operazioni è volto a mantenere elevati i «titoli» capitalisti alla ricchezza comprimendo capitale costante (C) e capitale variabile (V) per garantirsi quanto più plusvalore possibile (PV). Si determina quel fenomeno che Goldner definisce, in maniera forse truculenta ma efficace, auto cannibalizzazione del capitale.

Per sapere se questi fenomeni esistono non serve certo discettare, con letture peraltro anche ortodosse e perfino scolastiche, comunque sempre riduzioniste, del Capitale, o su come la pensa tizio o caio dell’accumulazione e della caduta del saggio di profitto, dove, a ragione, Dino Erba potrebbe gridare alla chiacchiera da bar; serve invece verificare se e come tali fenomeni empirici si manifestano nella realtà contemporanea13. Stando nei confini di una lettura, ripeto, ortodossa ma riduzionista, del Capitale, ma altresì di varie parti delle Teorie del plusvalore, l’idea che domina del valore di una singola merce è che esso sia determinato dal «tempo di lavoro in essa incorporato», ovviamente in determinate condizioni storiche che definiamo «socialmente necessarie», e che il lavoro produttivo sia quello che produce plusvalore «per un capitalista», visione, questa, ristretta al modello «chiuso». In questo ambito (modello chiuso), anche la produzione di carri armati, missili e droni produce profitti per singole aziende capitaliste (anche la prostituta di un bordello o l’insegnante di una scuola privata, classici esempi nelle Teorie del plusvalore) e dunque sarebbe produttiva. Se però passiamo dal modello chiuso e dalla riproduzione semplice alla riproduzione allargata, non più legata al singolo capitale ma al capitale sociale totale, le cose cambiano alquanto. Nell’ambito del capitale sociale complessivo, produttivo diventa quel lavoro che produce qualcosa che è «consumato produttivamente» o in forma di mezzi di produzione aumentati (C+αc) o in forma di lavoro produttivo accresciuto (V+αv), sia nella I sezione (mezzi di produzione) che nella II (beni di consumo). Ma, a questo livello aperto del sistema capitalista in movimento, dove diavolo collochiamo un carro armato, nella I o nella II sezione? Direbbe, col suo stile sanguigno, Dino Erba: «Siamo seri. Parlando di valori d’uso delle merci, bisogna distinguere tra l’essenziale e l’accessorio.» Appunto! E un valore d’uso del capitalista, una Ferrari di ultima generazione, dove lo colloco? E un missile guidato? Quando si fanno calcoli sull’accumulazione e sul saggio di profitto, non è peregrino chiedersi dove collocare missili e carri armati! Non certo nella I sezione! Non sono mica mezzi di produzione, come un veicolo da trasporto. E come farebbe a funzionare come capitale, cioè come riproduzione allargata? Produzione di che cosa allora? Eppure un’enormità di capitali sono stati spesi e dissipati in tutte le zone del mondo in questo modo che non riproduce certo capitale e dunque abbassa e occulta il saggio di profitto come un cane che si morde la coda. E una produzione di beni di consumo come quelli usati dalla caterva di impiegati statali, addetti alla contabilità del capitale, poliziotti, ecc., nella loro forma concreta, nel loro valore d’uso, che cosa è se non una deduzione dal plusvalore complessivo, e dunque non lo accrescono mica!

È in questo ambito del sistema aperto che possiamo comprendere il capitale come cosa viva, come complesso di relazioni di un unico organismo sociale, mentre nel sistema chiuso vediamo gli alberi e non la foresta.

*Pubblicato in due puntate Newsletter n. 38 e n. 39 di
Ponsimor


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1 A. PAGLIARONE, La crisi di Keynes, 4.10.2009, in http:// <www.sinistrainrete.info/component/content/article/87-keynes/586-la-crisi-di-keynes>

2 A. PAGLIARONE, Op. cit.

3 DANTE LEPORE, Capitale fittizio, speculazione e orgia del debito pubblico, in Gemeinwesen o Gemeinshaft? Decadenza del capitalismo e regressione sociale, cap. 7, pp. 103-104.

4 Per una esaustiva e discreta comprensione di questa problematica, cfr. Interpretazioni alternative alla teoria marxiana del valore <http://it.wikipedia.org/wiki/Interpretazioni_alternative_della_teoria_marxiana_del_valore>

5 P. GIUSSANI, Il capitalismo è morto, in Sotto le bandiere del marxismo, novembre 2010.

6 A. KLIMAN, The Persistent Fall in Profitability Underlying the Current Crisis: New Temporalist Evidence, in <http://akliman.squarespace.com/persistent-fall/> e The Failure of Capitalist Production: Underlying Causes of the Great Recession in http://www.marxisthumanistinitiative.org/economic-crisis/new-book-the-failure-of-capitalist-production.html> (ahinoi scaricabili a pagamento!).

7 Sulla nozione marxiana di capitale «totale», oltre alla nota opera di J. CAMATTE, molto utile la lettura di L. GOLDNER, Capitale fittizio e crisi del capitalismo, PonSinMor, Torino, 2008. Cfr. anche il nostro Gemeinwesen…., cit.

8 Su ciò vedi il mio Gemeinwesen… cit. Sul quello che D. Harwey chiama «fix spazio-temporale», cfr. D. HARWEY, La guerra perpetua, Il Saggiatore, Milano, 2006. Ottimi spunti anche negli articoli di MARCO SACCHI (qui 4, 5, 6).

9 Che il capitalismo fosse già «morto», Giussani lo teorizzava un anno fa (P. GIUSSANI, Il capitalismo è morto, in Sotto le bandiere del marxismo, novembre 2010), ora afferma che «tutto senza eccezioni evolve verso il nulla eterno. Con il cosiddetto marxismo a fare da avanguardia».

10 Capitale, profitti, salari negli USA dal 1929 a oggi. Caduta tendenziale del saggio di profitto?, in «Pagine Marxiste», 02-06-2012 <http://www.paginemarxiste.it/modules.php?name=Archivio&pa=showpage&pid=296>

11 DANTE LEPORE E LOREN GOLDNER, Gemeinwesen o Gemeinshaft? Decadenza del capitalismo e regressione sociale, recensione di Dino Erba (http://www.ponsinmor.info/index1.htm) e replica di Dante Lepore.

12 In questo ambito di considerazioni vanno tenuti presenti, tra gli altri, gli atti del CONVEGNO DI PADOVA (11-12 gennaio 2008) raccolti nel vol. La lunga accumulazione originaria, ombre corte, Verona, 2008; DAVD HARWEY, La guerra perpetua, cit, LOREN GOLDNER, Produzione o riproduzione, in Capitale fittizio e crisi del capitalismo, cap. 6, PonSinMor, Torino 2007.

13 Una descrizione empirica di tali fenomeni è in LOREN GOLDNER, op cit.

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