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100 tweet sulla crisi*

di Riccardo Bellofiore

In un romanzo che andava di moda quando ero giovane, Lo zen e l’arte della manutenzione della motocicletta di Robert Pirsig, a un certo punto si incontra questa riflessione:

“Sì o no... questo o quello... uno o zero. L'intera conoscenza umana è costruita sulla base di questa discriminazione elementare a due termini. Ne è una dimostrazione la memoria dei calcolatori, che immagazzinano tutta la loro conoscenza sotto forma di informazione binaria. Tanti uno e tanti zero, nient'altro. Dato che non ci siamo abituati, di solito non ci accorgiamo che esiste un terzo termine logico possibile equivalente al sì o al no, il quale è in grado di espandere la nostra conoscenza in una direzione non riconosciuta. Non esiste nemmeno il termine per indicarlo, per cui dovrò usare la parola giapponese mu. Mu significa ‘nessuna cosa’. Come ‘Qualità’, mu punta il dito fuori dal processo di discriminazione dualistica, dicendo semplicemente: ‘nessuna classe, non uno non zero, non sì non no’. Afferma che il contesto della domanda è tale per cui la risposta sì o la risposta no sono errate e non dovrebbero essere date. Il suo significato è ‘non fare la domanda’. Mu è appropriato quando il contesto della domanda diviene troppo angusto per la verità della risposta”

La discussione oggi si svolge troppo spesso nei termini di una alternativa secca sì/no. Per esempio: sull’uscire o sul restare nell’euro; sull’opposizione keynesismo/monetarismo come caratterizzante la situazione attuale; sull’austerità; sulle riforme strutturali.

E’ una logica a cui secondo me si deve sfuggire, ma certo se lo fai ciò tende a isolarti in un dibattito sempre più ipersemplificato. E non è un caso che mi trovi spesso a sostenere delle tesi in cui se si conta chi è d’accordo con me il loro numero sta in una sola mano, monca. 

Non è facile, evidentemente, sviluppare un ragionamento diverso dallo spirito del tempo della sinistra in quindici minuti. Vorrei proporvi delle Tesi, come ha fatto Bertinotti, ma questo non è possibile in questa sede. Nella tradizione storica del movimento operaio (dovrei dire meglio, del movimento dei lavoratori e delle lavoratrici) le Tesi sono composte da due-tre frasi, a cui però segue una lunga argomentazione che le giustifica. Non ne ho il tempo. Non vi proporrò dunque delle Tesi ma, almeno in questo in omaggio all’epoca, vi proporrò dei Tweet, senza alcun commento (anche se spesso supererò i 140 caratteri, mi ci terrò il più possibile vicino). Non è detto, ovviamente, che tutto risulterà chiaro. Anzi, dò per certo che alcune cose, spero non troppe, risulteranno in prima battuta oscure: ma spero che possano risultare intriganti, e invitare ad una ulteriore riflessione.


1. La recente crisi globale nasce come crisi bancaria e finanziaria che si tramuta in crisi reale. È assurdo contrapporre le due dimensioni. Sono strettamente integrate. L’una non si dà senza l’altra.

2. La crisi globale nasce nel 2007, anche se è usuale leggere come data di inizio il 2008. 

3. È la crisi di una nuova configurazione del capitalismo, che viene chiamato neoliberismo. 

4. Il neoliberismo non è monetarista, e tanto meno liberista. 

5. Il neoliberismo è ciò che Hyman Minsky chiamava money manager capitalism e che io caratterizzo come ‘sussunzione reale del lavoro alla finanza e al debito’ (una integrazione subalterna delle ‘famiglie’ a queste dimensioni del capitale).

6. Il neoliberismo si distingue per un’altra dimensione nuova tanto quanto la precedente, la ‘centralizzazione senza concentrazione’, a cui si lega la precarizzazione universale del mondo del lavoro.

7. Il neoliberismo, nel mondo anglosassone (ma non solo), è caratterizzato da un crescente debito privato - debito delle famiglie, non debito delle imprese. 

8. Il debito delle famiglie si è sviluppato come portato del capitalismo dei fondi (altrove l’ho definito ‘capitalismo dei fondi pensione’, come esempio significativo dei vari fondi istituzionali: Michel Aglietta lo chiama ‘capitalismo patrimoniale’, Luciano Gallino parla di capitalismo con i ‘soldi degli altri’). 

9. E’ un capitalismo che per lungo tempo, e con particolare vigore dal 1987 al 2007 (salvo l’interruzione a inizio millennio), ha visto una corsa verso l’alto dei prezzi delle ‘attività’, prima sul mercato finanziario, poi nell’immobiliare. Una capital market inflation, come la chiama Jan Toporowski.

10. Il neoliberismo, nel suo centro anglosassone (in primis gli Stati Uniti) ha avuto come traino della domanda e motore della crescita il consumo a debito, basato su quella inflazione dei capital asset.

11. Il neoliberismo è stato insomma un modello riconducibile alla terna che ho definito come lavoratore traumatizzato/risparmiatore maniacale(-depressivo)/consumatore indebitato. Una terna che andrebbe prolungata nella sedated middle class di Toporowski.

12. Tra i global player del manifatturiero e dei servizi si era intanto instaurata una concorrenza ‘distruttiva’ tramite strategie aggressive di investimento. Il risultato è stato un cronico eccesso di offerta in alcuni settori (un punto messo bene in rilievo da Jim Crotty). 

13. La catena della produzione del valore si riorganizzava in profondità, assumendo un carattere né globale né internazionale ma transnazionale (sono molto utili per comprendere questo processo le analisi di Francesco Garibaldo). La stratificazione nella rete di imprese si dà secondo la diversa forza relativa delle singole unità nella filiera. Al polo alto vi sono fornitori di moduli con autonomia imprenditoriale e gestionale, mentre al polo basso si lotta per sopravvivere. La condizione dei lavoratori dipende dalla collocazione della singola impresa nella filiera.

14. Quando il modello è crollato, chi ci ha salvato dal ripetersi del Grande Crollo (per impiegare il titolo del libro di John Kenneth Galbraith) come negli anni Trenta non è stato Obama, se non per quel che riguarda la rete di salvataggio offerta alla finanza: sono stati gli ‘stabilizzatori automatici’ e, tra fine 2008 e inizio 2009, alcune politiche discrezionali di spesa in disavanzo, e in particolare l’unica massiccia manovra autenticamente ‘keynesiana’, il deficit spending della Cina. 

15. Il modello neoliberista non è stato affatto un modello senza politica, è stato anzi un modello eminentemente politico, di una politica anche economica molto attiva; è quel modello che alcuni autori (Colin Crouch il più noto; prima ancora, chi vi parla) hanno chiamato di ‘keynesismo privatizzato’.

16. Si dava un’alternativa sul terreno della politica economica? Se escludiamo pensieri radicali e marginali, come quello a cui appartengo, si. Mi riferisco a ciò che ho descritto varie volte come social-liberismo. Per capirci, Clinton negli Stati Uniti, Jospin in Francia, Prodi e parte del PD da noi, e così via. Blair è a suo modo una via intermedia (neoliberismo e social-liberismo sono ideal-tipi). 

17. Sul terreno della teoria economica, il neoliberismo copre pensieri altrimenti difficilmente compatibili come nuova macroeconomia classica, monetarismo e scuola austriaca, il social-liberismo ha come riferimento la nuova economia keynesiana, sino a Krugman o Stiglitz prima della loro svolta radicalizzante degli ultimi anni (più politica che teorica).

18. Il neoliberismo è autenticamente liberista sul mercato del lavoro (precarizzazione) e welfare (contro lavoro e donne), ma non è contro i monopoli o i disavanzi di bilancio (cfr. Reagan, Bush, Berlusconi). 

19. Il social-liberismo è a favore della liberalizzazione su mercato dei beni e dei servizi (antitrust) e delle varie forme di patto di stabilità, ma sostiene politiche redistributive che, tra l’altro, vorrebbero trasformare la precarietà e flessibilità, tutelando il lavoro. 

20 Nessuno dei due è autenticamente liberista. In effetti, il liberismo (come la globalizzazione e il postfordismo) semplicemente non esiste, e non è mai esistito, né di destra né di sinistra. Né mai esisterà. Il c.d. neoliberismo non è affatto, semplicisticamente, ‘meno Stato’: è anzi imposizione dall’alto di un modello di società dove competizione e dirigismo si compenetrano in profondità (una tesi che ultimamente è stata ripresa e approfondita da Philip Mirowski).

21. La crisi ha spazzato via il social-liberismo, e anche il neoliberismo per come l’abbiamo conosciuto è morto. Il paradosso è che la crisi del neoliberismo è gestita dagli stessi neoliberisti. Il neoliberismo è uno zombie. La ricerca affannosa di nuove bolle non è stata in grado di far ripartire la crescita. 

22. La crisi europea non nasce come crisi dell’euro ma è, inizialmente e significativamente, un ‘rimbalzo’ della crisi globale. Va semmai spiegato come sino ad allora le contraddizioni della moneta unica siano rimaste latenti.

23. Anche in Europa siamo stati salvati, tra metà 2008 e metà 2009, da politiche keynesiane, e il paese che le ha praticate con più energia e intelligenza si chiama Germania.

24. La crisi in Europa riparte drammaticamente dopo lo scoppio del caso Grecia, e l’effetto domino con Irlanda, Portogallo, Spagna e Italia, che – pur del tutto prevedibile - precipita e diventa drammatico nel 2011. 

25. La crisi europea non è crisi del debito pubblico. L’esplosione del debito ‘sovrano’ è l’altra faccia della crisi del debito privato, sia per trasferimento diretto del debito dal privato al pubblico, sia come conseguenza della caduta del Prodotto interno lordo collegata alle politiche di contrazione della domanda.

26. L’austerità è (come si direbbe in inglese) self-defeating: autodistruttiva, controproducente.

27. Il modello neo-mercantilista europeo di fare profitti tramite esportazioni nette (un modello Luxemburg-Kalecki), che aveva reso il continente dipendente dalla domanda estera e sempre più dalla dinamica statunitense, è andato in crisi tra il 2007 e il 2008. L’idea di un de-linking, di uno ‘sganciamento’ dal traino statunitense, si è rivelato per quello che era prevedibile che fosse, una pia illusione.

28. La crisi dell’unione monetaria non è crisi delle bilance dei pagamenti, non è crisi delle bilance di partite corrente, non è crisi delle bilance commerciali. Questo - come sostenemmo Joseph Halevi ed io, contrapponendoci alla diffusa distrazione degli economisti di sinistra nel 2005 (quasi tutti convinti che il problema fosse il Patto di Stabilità, e impegnati in una dubbia battaglia per la ‘stabilizzazione del debito pubblico’) - ovviamente non significa affatto che quegli squilibri non abbiano effetti reali devastanti. Non comportano però, direttamente, una messa in crisi dell’euro.

29. In un’area monetaria unica, gli squilibri sono la norma (Marcello De Cecco). In un’area monetaria unica, dove c’è un sistema unico dei pagamenti, esiste un meccanismo automatico di riaggiustamento dei disavanzi di partite correnti dal punto di vista dei rapporti debito-credito. Si chiama Target 2.

30. Ha ragione Randall Wray: Imbalances, what imbalances? Gli squilibri finanziari si equilibrano. Il problema è piuttosto che gli squilibri finanziari segnano rapporti di potere asimmetrici, e io aggiungerei, dietro i “rapporti di potere” stanno “rapporti di classe”.

31. La struttura istituzionale dell’euro è sicuramente nata fallata. Lo si sapeva, prima: non si doveva entrare nella moneta unica. Fausto Bertinotti e Alfonso Gianni si ricorderanno che ne parlammo all’epoca e quando la sinistra, incluso il partito di cui facevano parte e che era ben dentro il ‘recinto’, votò per entrare nell’euro. Un errore di cui paghiamo care le conseguenze.

32. Questo non significa neppure che la struttura istituzionale dell’euro sia rimasta immobile. Si sono verificati importanti mutamenti, prima con Trichet e poi con Draghi. Per esempio: benché sulla carta la Banca centrale europea non dovesse essere un prestatore di ultima istanza, essa lo è diventata sempre di più, prima delle banche e poi, sia pure indirettamente degli stati. 

33. L’euro è qui per rimanere - anche se non è affatto detto che rimarrà nel lungo termine (e però si sa che nel lungo periodo siamo tutti morti). Le due affermazioni non sono contraddittorie. Il progetto di Draghi, appoggiato a più riprese da Angela Merkel, è di costruire quello che attualmente non esiste, un soggetto capitalistico unico, seppur articolato, su scala europea e, se non ancora un governo europeo, almeno una governance europea. Le unioni monetarie dollaro, marco, lira non sono state costruite a tavolino, ma con guerre e repressioni.

34. Ci sono alternative? Nel passato, senz’altro ne abbiamo avute: la ‘moneta comune’, per esempio. Io, non per particolare originalità, ma perché in dialogo con Suzanne De Brunhoff, l’avevo presentata da noi come alternativa alla ‘moneta unica’. E’ diventata di moda dopo un pezzo di Frédéric Lordon. Come ha ricordato, mi pare, Alfonso Gianni, si tratta dell’applicazione all’Europa del bancor di Keynes, della sua proposta a Bretton Woods: si tratta di una moneta non circolante, come è invece l’euro; è una moneta delle banche centrali (in questo caso, delle nazioni aderenti in Europa). L’idea originaria (proposta allora, mi pare, anche di Jacques Mazier) prevedeva comunque un sistema di parità fisse ma aggiustabili, e includeva come parte essenziale il controllo dei capitali. Andava integrata in una più generae idea di sistema internazionale di cambi basato sulle target zones come ne scriveva allora Francesco Farina.

35. Oggi la transizione dalla situazione attuale alla moneta comune non è semplice. Non si vede come si possa manovrare una fine coordinata dell’euro. Se quel coordinamento fosse possibile, forse anche la trasformazione ‘morbida’ dell’euro sarebbe possibile. Ne dubito fortemente.

36. Una cosa è non entrare in una unione monetaria, un’altra è uscirne. Non è la stessa cosa che svalutare: ciò in passato ha favorito soprattutto il sistema delle piccole e medie imprese, e le esportazioni, ma non si è accompagnato a nessuna politica industriale e strutturale che migliorasse nel lungo termine la qualità della nostra configurazione produttiva.

37. Non equivale neppure all’uscita dal Sistema Monetario Europeo, come nel 1992-93. Vicenda che peraltro si accompagnò alla distruzione di quel poco che restava del sindacato come soggetto autonomo. Siamo in una ‘grande crisi,’ non in una crisi congiunturale; una grande crisi ‘capitalistica’, che non equivale a crollo (tutt’altro): separa un capitalismo morente da un altro modello emergente, di cui non si vedono ancora chiaramente i tratti. Il paragone è valido solo nel senso che non è affatto escluso che uscire dall’euro preluda a più, e non meno, austerità.

38. Anche l’idea dei due euro incontra la stessa difficoltà di cui si è detto: come passi di qui a lì. Peraltro, l’idea che i paesi dell’Europa del Sud siano in condizioni analoghe perché tutti hanno un disavanzo di bilancia corrente è falsa: non esiste un modello della periferia, sono modelli diversi, come dimostra il periodo 2001-2007. 

39. Un euro dell’Europa del Sud riprodurrebbe, mutata la scala, le stesse contraddizioni dell’euro, con l’Italia o la Francia al posto della Germania.

40. Esiste il problema di collocare in queste dinamiche la Francia. E’ la Francia, peraltro, l’ispiratrice dell’euro. Ed è questo il progetto di lunga durata del suo capitale finanziario. Ma i suoi dati macroeconomici, di finanza pubblica, di equilibrio esterno, di stato dell’industria, di solidità del sistema bancario, tutto sono meno che sani. E’ il paese che con la Germania più ha goduto dell’euro, forse persino di più: basta guardare allo spread con il tasso sui Bund decennali tedeschi. E’ la Francia, più che la Germania, il problema.

41. Smantellamento ordinato dell’euro: più facile a dirsi che a farsi. 

42. Riacquisizione della sovranità monetaria: illusoria parola d’ordine, pur così diffusa oggidì. Non so se abbiamo mai goduto davvero di sovranità monetaria (chi ne parla ha nozioni di storia e politica non poco abborracciate), ma certo le svalutazioni non sono state gentili con il ‘popolo’ italiano.

43. Ancora sulla questione bilance delle partite correnti: non si deve dimenticare, come sulla questione bilancio pubblico, che a ogni debito corrisponde un credito. Per esempio, chi dice: “Non paghiamo il debito” deve sapere che, dietro il debito pubblico, c’è il credito privato delle famiglie. Classi medie. Lavoratori. 

44. L’attenzione, oggi particolarmente alta, sulle bilance delle partite correnti dà l’illusione di ‘vedere’ i flussi (netti) di finanziamento tra paesi negli squilibri tra centro e periferia. Non è vero: un paese può avere una bilancia in pareggio e finanziare le spese autonome completamente all’estero, il che origina depositi che rimangono all’interno; ma quei finanziamenti potrebbero essere precari, e svanire dalla sera alla mattina. Bisogna, insomma, guardare ai flussi lordi e non ai flussi netti del finanziamento se vogliamo capire qualcosa dell’economia di oggi, come ci ricordano a ragione per la crisi globale Borio e Dysiatat.

45. In un sistema con moneta credito – come tutti i sistemi di moneta moderna - questi squilibri possono essere prorogati all’infinito. Dipende dalla banca centrale: se impedisce il rifinanziamento dell’economia, questo significa puramente e semplicemente il crollo. Le riserve sono endogene: non c’è moltiplicatore, c’è divisore del credito bancario. In realtà, la Banca centrale europea sta gestendo la trasformazione del sistema europeo e la ristrutturazione dei rapporti sociali, dal lavoro al welfare, transitando da una crisi all’altra, sempre impedendone però la degenerazione.

46. Esistono alternative più generali di politica economica? Sì. Una è la ‘modesta proposta’ di Yanis Varoufakis, prima da solo, poi con Stuart Holland, ora con Jamie Galbraith. Bertinotti ricorderà che feci venire Varoufakis in Italia anni fa (organizzai anche un incontro con Ferrero e il PRC) e già allora lui ricordò il parallelo della situazione attuale della Grecia con quella della Germania, il trattato di Versailles e il giudizio di Keynes.

47. Varoufakis, con Hollande e Galbraith, propone gli eurobond, una mutualizzazione del debito che consenta su scala europea investimenti infrastrutturali, e un’autentica unione bancaria. Io aggiungerei la necessità di un’espansione co-ordinata delle spese pubbliche, che permetterebbe di aggirare la strozzatura di un bilancio europeo ridicolmente limitato il quale strangola nella culla la possibilità di una politica fiscale espansiva.

48. Credo però anche che tutto ciò vada inserito in un quadro concettuale e politico (anche di politica economica) più ampio, quello che ha già ricordato prima Laura Pennacchi. Non dobbiamo semplicemente tornare a Keynes, dobbiamo andare oltre Keynes, per un certo verso tornando a prima di Keynes, cioè al New Deal. Con Halevi lo diciamo dal 2008, anzi in verità da prima della crisi, quando sostenemmo, presi amichevolmente in giro dalla sinistra politica ed economica, la necessità di un aumento, non di una stabilizzazione, del rapporto debito/PIL. C’è arrivato prima (a suo modo) Giavazzi.

50. La ‘ripresa’ non va separata da ciò che Keynes, in una lettera a Roosevelt, chiamava la ‘riforma’: le politiche economiche espansive contro l’austerità non vanno separate da una diversa e migliore composizione della produzione, e dall’obiettivo della piena e buona occupazione, con lo Stato che si fa promotore di entrambi gli obiettivi, insieme e simultaneamente. Keynes li vedeva in sequenza: prima la ripresa, poi la riforma. Io li vedo come contemporanei.

51. Già nel 1993, in un articolo chiestomi da Raniero La Valle, uscito su “Bozze” (e che probabilmente non ha letto nessuno) avevo sostenuto una tesi del genere, richiamando il ‘Piano del lavoro’ della CGIL della fine anni Quaranta, come anche l’ ‘esercito del lavoro’ di Ernesto Rossi e Paolo Sylos Labini.

52. Soltanto dentro un discorso del genere assume una valenza positiva l’erogazione di un reddito di esistenza, condizionato alla prestazione di un lavoro ‘sociale’ nell’arco vitale. Altrimenti, come osservò in un dibattito sul “manifesto” Giovanna Vertova, è strumento di una rinnovata Speenhamland, su cui sia Polanyi che Marx si sono espressi molto criticamente, del tutto a ragione.

53. Caduto il consumo a debito, impossibile l’esportazione netta di merci sulla luna, insufficiente la spinta degli investimenti a chiudere il circuito monetario (non soltanto nella crisi, ma anche quando le cose vanno bene), l’unico possibile motore dello sviluppo è la spesa pubblica in disavanzo, che da sinistra va finalizzato a un differente ‘cosa, come, quanto’ produrre.

53. Dal debito si esce o con la sua remissione, o con la bancarotta, o con l’inflazione, o con la crescita (magari declinandola come sviluppo). Negli Stati Uniti, come ci insegna Jamie Galbraith, a un certo punto il debito ipotecario decade, in un modo o nell’altro. In Europa si sta imponendo la sua permanenza perinde ac cadaver, bloccando le varie strade per alleggerirlo o cancellarlo. Non è una situazione sostenibile, e prima o poi una via d’uscita sarà trovata, e includerà una espansione della spesa pubblica. Non è detto che si configuri come una uscita di sinistra.

53. La via di sinistra esiste, ed è quella di Minsky (non nella lettera, ma nello spirito): socializzazione dell’investimento, socializzazione dell’occupazione, socializzazione della finanza. Nel libro Keynes e l’instabilità del capitalismo la socializzazione dell’economia viene delineata come una critica del keynesismo, dei trentes glorieuses (come vengo chiamati oggi), di Keynes stesso. 

54. La via d’uscita può essere detta con le parole di Alain Parguez: dobbiamo pianificare dei disavanzi ‘buoni’, altrimenti il neoliberismo non cancellerà il disavanzo, ma creerà anzi, per così dire automaticamente, deficit ‘cattivi’. 

55. A fronte del disavanzo e del debito pubblico sta comunque un attivo del settore privato, crediti finanziari, I disavanzi ‘buoni’ di Parguez, come la triplice socializzazione dell’economia di Minsky, creano però anche valori d’uso sociali.

56. L’orizzonte di lungo termine degli investimenti, la capacità innovativa, la crescita della produttività nel sistema, l’espansione dell’occupazione sono tutti elementi che dipendono strettamente da un intervento statale ‘mirato’. 

57. E’ su questa dimensione strutturale dell’intervento pubblico che si giocano, come caratteri trasversali ed essenziali di una politica economica ‘alternativa’, la questione del genere e quella della natura. Non posso entrare nel merito delle due dimensioni qui: spero lo faranno altre/i, e so per certo che Giovanna Vertova parlerà dell’intreccio tra classe e genere, nella crisi e nella politica economica.

58. Ciò di cui c’è bisogno non è affatto il ‘ritorno al keynesismo’ (fosse anche una introvabile ‘lezione di Keynes’, al singolare), tanto meno una spesa pubblica generica, quando non militare – è questo il keynesismo reale, non un fantomatico modo statuale di produzione. Ad una spesa pubblica mirata fa da contraltare il welfare, non nel senso della assistenza ma di provvedimenti in natura. E’ questa un’altra tesi anche di Minsky, di cui è appena uscita in inglese una raccolta di scritti, Ending poverty: jobs, not welfare (con Laura Pennacchi ne cureremo l’edizione italiana, che uscirà la primavera prossima). La critica è ad un welfare di meri trasferimenti monetari (in cui ricadono le proposte di basic income). Non ad uno Stato che provvede istruzione, sanità, e così via.

59. La risposta alla domanda se ci vuole austerità non è semplicisticamente no. E non solo perché aumentare la domanda effettiva non basta. È anche sì, perché vogliamo una ridefinizione in profondità della composizione della produzione, una ridefinizione del modello di consumi. E di questo fa parte, necessariamente, sia una austerità della classe dominante, sia una vita più sobria di tutte e tutti. 

60. Vale lo stesso atteggiamento sulle riforme strutturali. Certo che vogliamo le riforme strutturali. Le nostre riforme strutturali. Cosa è se no la politica (e politica economica) che si è qui delineata?
Tutti gli interventi espansivi che è necessario approntare sul terreno macroeconomico non sono separabili da una politica industriale parimenti attiva e orientata. 

61. Una attenzione alle dinamiche dell’industria, e della struttura produttiva più in generale, incide non poco sul modo di guardare alle dinamiche europee nella stessa vita dell’euro. 

62. Chi pensa e continua a ripetere che il vantaggio competitivo nell’eurozona dipenda esclusivamente dalla variazione dei prezzi relativi, e lo riduce all’aumento del costo del lavoro per unità di prodotto in una generica periferia, ha torto. 

63. La tesi che la Germania deve il suo attuale primato alla deflazione salariale, alla compressione dei salari nominali, non dice cose false: dice una parte della verità, e forse non la più importante. 

64. La competitività tedesca è data anche dalla qualità della produzione che esporta (macchine, beni di consumo di qualità, e così via). Ciò le dà un monopolio che la rende almeno in parte indipendente dalla dinamica dei prezzi relativi e dai rapporti di cambio.

65. La Germania esce da una politica di ristrutturazione della produzione e di riorganizzazione del lavoro lunga ormai quasi più un ventennio, che ha dato origine ad una lunga catena transnazionale della produzione di valore che si estende a Est. Dentro questa catena si mescolano (e si integrano) precarietà e punte avanzate.

66. Anche per questo l’idea di una ‘via alta’ del capitale è pura fantasia.

67. Quello che sta avvenendo è che la Germania importa relativamente di più da oriente e relativamente di meno dal mezzogiorno d’Europa – anche per questo le nostre catene ‘ricche’ della subfornitura tedesca sono sotto pressione. 

68. I paesi del Sud d’Europa non sono integrati orizzontalmente: fanno centro sulla Germania. 

69. E’ questa un’altra ragione – strutturale – che giustifica la conclusione che una pura e semplice espansione della domanda effettiva non sarebbe sufficiente, benché necessaria, a riequilibrare le sorti della periferia (a prescindere dalla diversità dei modelli dei singoli paesi dei GIIPS). 

70. Su questi temi è prezioso il contributo di Ginzburg, Simonazzi, Nocella, sul numero di marzo del Cambridge Journal of Economics. Questi autori osservano anche, del tutto a ragione, che le misure sul costo del lavoro per unità di prodotto sono molto ambigue a livello aggregato, dipendendo dall’indice dei prezzi (e dunque dal paniere) preso a riferimento. Gli stessi risultati sul caso italiano cambiano drasticamente a seconda dell’indice prescelto.

71. Devo essere ancor più telegrafico sul caso italiano. Nel caso dell’Italia una delle ragioni della bassa dinamica della produttività dipende dalle politiche di privatizzazione e precarizzazione dagli anni Novanta, quale che fosse il colore del governo, e rispetto alle quali il nostro paese è stato una punta di avanzata (e deleteria) sperimentazione. 

72. A questo si aggiunge la crisi del modello dei distretti, a cui ha fatto resistenza l’emergere di un c.d. ‘quarto capitalismo’ di multinazionali tascabili. Non sarò certo io a negarne la vitalità. Ciò non toglie che si tratti, sostanzialmente, di un’esperienza di nicchia e marginale: su di esso non è possibile ‘fare sistema’ (vale qui la critica di Minsky al modello dei distretti che risale alla metà degli anni Ottanta, come la si legge in una recensione ad un libro famoso di Piore e Sabel).

73. La via delle riforme strutturali che si è qui delineata può essere, se volete, qualificata come un keynesismo strutturale, con suggestioni schumpeteriane (una prospettiva tipica di Augusto Graziani). Assomiglia però dannatamente a una forma di socialismo: lo scriveva lo stesso Minsky nel suo libro del 1975, anche se poi lo avrebbe incluso tra le ‘57 forme di capitalismo possibile’ (il riferimento è alla pubblicità del ketchup della Heinz). 

74. Non penso, come forse pensava Minsky (ma si potrebbe discuterne), che si tratti di una configurazione stabile, a prescindere dalle ricorrenti derive verso l’instabilità finanziaria. Sono piuttosto convinto che avesse ragione Kalecki nel 1943 che qualsiasi forma, anche mista, di capitalismo incontra un limite nella natura capitalistica dei rapporti sociali, innanzi tutto nei luoghi di lavoro.

75. Le cose che sto dicendo sono agli antipodi con la musica che gira intorno, cioè con quello che la sinistra politica e intellettuale, in economia e sociologia, va dicendo da un bel po’.

76. Sulla sinistra politica, per carità di patria, visto che non si parla male dei morti (anche se si può sperare, contro ogni speranza, nella risurrezione), non dirò nulla.

77. Sulla sinistra in economia. Si è ricondotta la crisi alla caduta (tendenziale) del saggio del profitto. A parte il fatto che la crisi del c.d. ‘fordismo’ è dovuta sì ad una caduta della profittabilità, ma quest’ultima non discende dalla crescita della composizione in valore del capitale ma semmai (insieme ad altri, molteplici, fattori) da un conflitto e un antagonismo nei rapporti sociali di produzione, è dall’inizio degli anni Ottanta del secolo scorso che non soltanto la quota ma anche il saggio dei profitti è andato recuperando, sostanzialmente sino allo scoppio della Grande Recessione.

78. Si è è parlato di una crisi da domanda, ma in realtà di sottoconsumo (la crisi di un ‘mondo dei bassi salari’, si è detto). I bassi salari sono ben reali. Ma la crisi capitalistica non è mai semplicisticamente dovuta ai ‘bassi salari’, e tanto meno al ‘sottoconsumo’ (lo dichiaravano a chiare lettere sia Marx che Rosa Luxemburg, se solo uno si prendesse la briga di leggerli sul serio; il basso consumo è la causa ‘ultima’ delle crisi, dunque non ne spiega nessuna). Il modello neoliberista è stato piuttosto un modello di sovraconsumo. La crisi, come sapevano appunto Marx e Luxemburg, ma anche Keynes e i suoi collaboratori più stretti, è semmai una crisi da sotto-investimento (o, più in generale, da insufficienza della domanda autonoma).

79. Si è proclamato per molto tempo che il neoliberismo fosse una realtà di stagnazione permanente. Io sto con Sweezy che al quesito che si rivolge: sto forse avanzando la tesi che il capitalismo viva in una stagnazione permanente?, replica in sostanza ‘quando mai’.

80. Si è trattato di un keynesismo privatizzato trainato dalla finanza (dalle bolle nello stock exchange  e nell’housing) grazie ad una politica monetaria della Banca Centrale come prestatrice di prima istanza alla speculazione (De Cecco), in un contesto in cui la c.d. curva di Phillips si era appiattita sin quasi a divenire orizzontale (la riduzione della disoccupazione non dava origine ad un aumento dei salari e dei prezzi per ragioni interne) – qualcosa che si capisce con Marx, non con Friedman.

81. Il neoliberismo è stato una configurazione dinamica del capitalismo, spinta dalle controtendenze alla deriva stagnazionistica, secondo la lezione che discende da Kalecki o Steindl, o dalla Monthly Review (sto di nuovo con lo Sweezy che temeva le controtendenze quanto, se non più, della tendenza). Se vogliamo capirne la crisi dobbiamo cercare le contraddizioni interne al suo dinamismo. Per questo contrapporre la ‘crisi del capitalismo’ alla’crisi del neoliberismo’, come fanno i marxisti puri e duri, è sbagliato.

81. L’orizzonte interpretativo del capitalismo odierno come finanz-capitalismo è affascinante, e dice cose molto giuste. Si basa però su una idea di fondo: l’estrazione di valore via circolazione. Non credo si possa ridurre il capitalismo ad una rapina permanente. 

82. L’analisi che vi ho proposto non ‘parte’ da un primato della coppia domanda-distribuzione, in cui il problema ultimo è la diseguaglianza (spero proprio che nessuno possa pensare che io reputi questi problemi come irrilevanti) ‘Parte’ da produzione-finanza, e da questo ‘centro’ si estende agli altri fenomeni, che sono, in senso stretto, secondari, cioè derivati. 

83. Sul terreno della politica economica, la gran parte degli economisti di sinistra italiani appartiene oggi a quello che, in modo semiserio, definisco come ‘keynesismo-leninismo’. In battuta: abbiamo gli strumenti tecnici, se solo fossimo noi i consiglieri del principe … . Se la Banca Centrale è prestatore di ultima istanza, non vi sono limiti oggettivi al debito pubblico. Il Tesoro non ha difficoltà a svolgere politiche di pieno impiego. I vincoli sono politico-istituzionali. 

84. Da un lato l’economia, riducibile a tecnica. Dall’altro la politica, riducibile a gestione del potere. I rapporti sociali sono scomparsi. Il riferimento è in fondo Hilferding, l’Hilferding di cui appunto Lenin fu attento lettore. L’idea (la citazione è da Brancaccio e Cavallaro) è che “gli unici, veri conflitti di liberazione che hanno meritato nel secolo scorso e meriteranno in questo secolo di esser definiti tali saranno quelli miranti alla conquista delle casematte dentro gli apparati dello stato. È infatti nella capacità o meno di permeare quegli apparati, di muoverne le leve e al limite di stravolgerli, che si concretizza la battaglia tra repressione e rafforzamento del capitale finanziario, che si definiscono i caratteri cruciali del regime di sviluppo, che si quantificano le possibilità concrete di pianificare la liberazione del lavoro dal dominio di una potenza estranea.”

85. Qui vedeva lontano Paul Mattick: il keynesismo-leninismo è un marxismo che, proprio come la solidarietà antitetico-popolare che opponeva Seconda e Terza Internazionale, vede nel comando statale l’alfa e l’omega. La stanza dei bottoni in cui ‘entrare’, per illudersi di governare il processo capitalistico, o per spezzarlo come strumento borghese, senza però cambiarne in fondo la natura. Nulla di più lontano dalla visione che propongo, che è sociocentrica e che vede nella pressione dal basso l’unica garanzia che una politica economica alternativa non si riduca ad autopromozione di quelli che Minsky chiamava economists-courtiers, candidati consiglieri del Principe (come in Minsky, la caratterizzazione non va intesa come un insulto, semmai come tragedia).

86. Molte delle Tesi di Bertinotti, ben più serie di questi Tweet, le condivido. Non amo, come Fausto sa, il termine ‘globalizzazione’, qualcosa che a mio parere non esiste. Parliamo semmai di transnazionalizzazione della finanza, transnazionalizzazione della produzione: ma il termine ‘globalizzazione’, come quello di ‘postfordismo’, come lo stesso ‘pensiero unico’, sono definizioni vuote che generano solo confusione.

87. Trovo il nesso capitalismo finanziario/mancanza di democrazia come è configurato nelle Tesi di Bertinotti non completamente convincente anche per altre ragioni. Innanzitutto (mi pare che dicesse qualcosa del genere anche Gnesutta), in questo ‘nuovo’ capitalismo è davvero difficile separare profitto e rendita, finanza (cattiva) e impresa (buona). 

88. Il ‘nuovo’ capitalismo nasce dalla crisi del keynesismo, che esplode negli anni Settanta ma che cova già dalla seconda metà degli anni Sessanta. Il libro di Wolfgang Streeck (il cui titolo originale, Gekaufte Zeit, tradotto letteralmente, Tempo comprato, è molto più appropriato di quello che gli è stato dato in italiano: Tempo guadagnato) ha molti limiti, che fanno però il paio con l’enorme merito metodologico che ne fa un esempio quai unico. Torna, finalmente e adornianamente, ad una analisi del capitalismo in termini di totalità sociale unitaria. E dice anche molte cose giuste. Come, per cominciare, che il modello keynesiano va in crisi per un conflitto dei soggetti sociali a partire dal mondo del lavoro (la profezia del Kalecki del 1943, appunto). 

89. Cade anche, se non soprattutto, da sinistra: non solo per il conflitto operaio; cade, tra l’altro, per la critica ecologista, e per quella del movimento delle donne. La sua fine la abbiamo voluta noi. Possiamo sempre pentircene (io no), ma questa è la realtà delle cose. E cade, certo, anche per uno ‘sciopero del capitale’. Per il disegno di smantellare quei conflitti e quegli antagonismi, e di evitarne la riproposizione (la sussunzione reale del lavoro alla finanza e al debito, la centralizzazione senza concentrazione, la ‘traumatizzazione’ del lavoro, la precarizzazione universale, le nuove forme di gestione della politica monetaria ed economica di cui parlo, tutto ciò calza in questo quadro come un guanto).

90. Anche per questo dubito che basti la ‘persuasione’ per tornare a un keynesismo (finalmente?) buono, come mi pare traspaia dal discorso di Jamie Galbraith, dai vari appelli e lettere degli economisti, dalle varie prese di posizione che si vogliono ‘keynesiane’. Penso che sia impossibile rimettere il dentifricio nel tubetto. 

91. L’opposizione non è tanto capitalismo finanziario/democrazia, come dicono le Tesi: è semmai  capitalismo/democrazia, tout court. Presentai all’Unione culturale il libro di Fausto Bertinotti (sarà stato il 1991 o 1992) La democrazia autoritaria. Era fresca la memoria delle tesi dell’ultimo Napoleoni, che sosteneva, con ragione, che il capitale (il capitale in quanto tale, non il capitale finanziario) ha in sé una tendenza totalitaria. La democrazia gli viene ‘da fuori’, dalle lotte. 

92. In verità, a me pare che noi viviamo in un mondo che è quello che riproduce su scala globale il capitalismo britannico di metà Ottocento, in presenza di un movimento operaio come quello inglese di inizio Ottocento. Quel capitalismo che si colloca sul Weltmarkt, sul ‘mercato mondiale’; quel capitalismo in cui il movimento operaio (oggi, ma anche allora, dovremmo dire: dei lavoratori e delle lavoratrici) non era un dato, era una costruzione, e una costruzione dal basso; quel capitalismo che ‘formava’ la classe operaia inglese integrando estrazione di plusvalore relativo e plusvalore assoluto, come ci ricorda Massimiliano Tomba. Un ritorno al passato che è il nostro futuro, e che è la vera novità del capitalismo dei nostri giorni: le nuove forme del vecchio sfruttamento.

93. Fino a qui mi sono tenuto prevalentemente a giudizi di fatto, come faccio quasi sempre: è un mio limite, quello di non avventurarmi troppo sul terreno normativo. C’è però un giudizio che mi può essere contestato come ‘grande ottimismo’: quando dico che sindacato e sinistra dovrebbero muoversi sulla ‘scala’ su cui si muove Draghi, cioè almeno sulla scala europea. Ho detto movimenti dal basso, ma i movimenti dal basso non esistono nell’innocenza della spontaneaità ‘pura’ (Rosa Luxemburg, per dirne una, ha fatto parte di almeno tre partiti, e uno se non due li ha fondati). Nel mio sfrenato ottimismo, non dico quello che penso, che ciò che vorrei è impossibile: mi limito a dire che è quasi impossibile.

94. Questa prospettiva può essere accusata di idealismo. A me sembra però l’unica modalità seria di portare avanti una prospettiva materialistica nel senso di Marx. Il movimento operaio non è nato dalla testa di Giunone: è nato rispondendo ad una frammentazione e ad uno sfruttamento estremi. 

95. L’uscita individuale dall’euro, la disobbedienza di un solo paese, la costruzione di un euro del Sud-Europa sono tutte prospettive problematiche. Sempre più assumono un colore ambiguo nelle pretese di una dubbia riconquista di una ‘sovranità’ monetaria ‘nazionale’, da parte del ‘popolo’, a salvezza di una ‘impresa’, di cui il lavoro diviene parte ‘organica’ e subalterna.

95. Nel caso di una rottura dell’euro, ben possibile, una via di sinistra esiste solo lungo questo percorso. Altrimenti, il richiamo alla sovranità monetaria – che molti economisti di sinistra corteggiano, quando non cavalcano - sarà il richiamo del sovranismo. E non è un bel richiamo.

96. Come dichiara un bell’appello per una Europa egualitaria (e federale), con primi firmatari Karl Heinz Roth e Zissis Papadimitriou, occorre partire da un collegamento delle contro-iniziative dal basso, di resistenza sociale; da una progressiva estensione alle classi subalterne e alle classi medie meno agiate di un programma di tutela dei loro interessi materiali; da una alleanza con i movimenti sociali contro le tentazioni eurocentriche, o le derive nazionalistiche o populistiche.

97. Una poesia di T.S. Eliot, “The Hollow Men”, si chiude su questi versi: This is the way the world ends, Not with a bang but a whimper. Consentitemi una parafrasi: E’ così che muore l’euro, non con un botto ma con un gemito. Allo stato, penso che sia molto difficile che la prospettiva Draghi-Merkel proceda senza intoppi perché non si vede da dove ci si possa globalmente procurare la domanda finale. Prendo però estremamente sul serio il whatever it takes di Draghi, la difesa dell’investimento politico e sociale sulla costruzione dell’euro.

98. Questa fondazione che organizza il convegno si richiama al “Cercare ancora” di Claudio Napoleoni. Napoleoni vedeva nel ‘vincolo esterno’ qualcosa che poteva e doveva spingere a una ridefinizione strutturale della nostra economia e società. E’ una prospettiva che prenderei con un grano (abbondante) di sale, pari a quello con cui prenderei la proposta alternativa della svalutazione come ‘salvezza’ del paese e della democrazia. Napoleoni ha sempre valorizzato quello che chiamava ‘vincolo interno’: le lotte distributive, ma anche nella produzione, dei lavoratori e delle lavoratrici (un punto che Bertinotti ha spesso ripreso).

99. Napoleoni ha però anche sempre avvisato: guardate, questo non basta. Dobbiamo proporre un ‘altro’ modello. “Credo che le sinistre siano giunte ad un punto di snodo, ad un bivio, in cui si presentano due strade: una strada consiste nel tentare di risolvere meglio degli altri i problemi che gli altri si pongono […] L’altra strada è quella di mutare in maniera radicale le prospettive, gli obiettivi e perciò anche gli strumenti, di contrapporre veramente al modello degli altri un altro modello.” Oggi non bastano la pura e semplice reflazione, o il ritorno al keynesismo. Occorre un altro modello di economia e società. Il mio richiamo a Minsky sta in quella ispirazione. 

100. È un’ispirazione utopistica? Possibile. Va intesa come la intendeva Gramsci al tempo delle Tesi di Lione. Non un programma di governo, oggi improbabile. Semmai un programma su cui raccogliere le forze, organizzando lotte in cui i soggetti sociali plurali, su scala transnazionale, si connettono tra di loro: in una lotta progressivamente sempre più di massa, che apra ad un coerente orizzonte alternativo allo stato presente. Fare questa cosa non è la stessa cosa che convocare bei convegni, non è scrivere bei saggi, non è pronunciare belle lezioni. Richiede di avviare, qui e ora, senza garanzie di successo, un lavoro sociale e politico che, a tutt’oggi, non siamo ancora stati in grado neanche di iniziare a pensare davvero. E’ ora. Se non ora, quando?


* Pubblicato in Fondazione Cercare Ancora, Capitalismo finanziario globale e democrazia in Europa, Ediesse, Roma 2014

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