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sinistra

Capitalismo 2014. A fondo nella Grande Depressione1

di Antonio Carlo

kandinsky.f2-comp71) L’economia mondiale e la ripresa che non c’è (dopo sette anni);

2) Gli USA: un’economia “forte” che affonda tra debiti, disoccupati, sottoccupati, inattivi e scoraggiati;

3) Europa: sempre più in un vicolo cieco tra impotenza e ricette fallimentari;

4) Italia. Arriva il nuovo Salvatore della Patria e siamo alla catastrofe;

5) Cina e Giappone nulla di nuovo rispetto al passato;

6) Postilla. A proposito di un’inconsistente ideologia: la decrescita serena.

 

1) L’economia mondiale e la ripresa che non c’è (dopo sette anni)

A) L’andamento del PIL mondiale. Nel giugno del 2014 la Banca Mondiale prevede una crescita (in ribasso) del 2,8% per l’anno in corso, meglio il FMI che prevede per il mondo una crescita del 3,7% a marzo, del 3,4% a luglio e del 3,3% ad ottobre. Le tabelle che seguono illustrano le più recenti previsioni sull’andamento dell’economia mondiale.

 

Tabella n. 1: Stima OCSE 2014 (settembre)

Paesi Crescita % PIL
USA 2,1%
Eurozona 0,4%
Giappone 0,9%
Germania 1,5%
Francia 0,4%
Italia -0,4%
UK 3,1%
Cina 7,4%
India 5,7%
Brasile 0,3%


Tabella n. 2: Stima FMI 2014 (ottobre)

Paesi Crescita % PIL
USA 2,1%
Eurozona 0,8%
Giappone 1%
Germania 1,4%
Francia 0,4%
Italia -0,2%
UK 3,2%
Cina 7,5%

Il solito estimatore del capitalismo potrebbe sostenere che, comunque, si cresce e che la crisi è solo questione dell’Eurozona2, inoltre di recente il prof. Piketty ha osservato che con una crescita secolare dell’1% possono farsi miracoli3; questo però era vero prima della Seconda guerra mondiale, poiché in seguito è esploso il boom demografico dei paesi poveri che coinvolge anche alcuni paesi ricchi (gli USA hanno una crescita demografica vicino all’1%)4 ed i demografi ci avvertono che con una crescita dell’1% (70 milioni di persone l’anno a livello mondiale)5 occorre destinare il 3% del PIL ai costi di “allevamento” delle nuove generazioni6; ciò significa che una crescita demografica dell’1% “mangia” l’attuale crescita del PIL mondiale (attorno al 3%).

Ma non è tutto, il grosso della produzione mondiale è in mano a pochi paesi: nel 2011 solo 9 paesi (USA, Canada, Australia, Giappone, Francia, Italia, Germania, Spagna ed UK) raccoglievano 39.563 miliardi di dollari pari al 56,5% del PIL mondiale, mentre i 5 paesi del BRICS (Brasile, Russia, India, Cina e Sud Africa) ne raccoglievano 11.935 pari al 19,9% del PIL mondiale, epperò i paesi ricchi avevano 806 milioni di abitanti (11,6% del totale) contro i 3.012 milioni dei BRICS (il 42% del totale) 7; la differenza nel PIL procapite è semplicemente abissale.

Ora, però, i paesi ricchi sono fermi a crescite modeste, mentre la Cina è al 7,5% (più o meno) e l’India oscilla tra il 5-6%8, ormai crescono solo i poveri o alcuni tra i più grandi di quel gruppo. Il fatto è, però, che per quei paesi anche il 7% è poco o nulla9: infatti la Cina con una crescita del 7,5% del PIL (e del 9% per l’industria) si trova frequentemente negli ultimi anni sotto il livello 50 dell’indice PMI, che misura il livello di sviluppo dell’industria e dei servizi, sopra 50 abbiamo la crescita, sotto 50 abbiamo il ristagno o la recessione10. Ancora: il superindice OCSE, in cui lo spartiacque è dato da 100, ha collocato spesso i paesi emergenti sotto quel livello: ad esempio nell’aprile del 2014 la Cina era a 98,6, (media OCSE 100,6), la Russia a 99,2, il Brasile a 98,5 e l’India a 97,9. In sintesi i paesi ricchi ristagnano ed i poveri (o gli emergenti) non sono da meno. Ciò è ulteriormente confermato da recenti calcoli compiuti sull’andamento delle economie sviluppate dal 2008 (anno di esplosione della crisi ) al 2013: gli USA, facendo base 100 il primo trimestre del 2008, sono a 105,5, la Germania è a 103,8, UK a 100,2, i G7 a 99,3 e l’Eurozona a 97,511. Il quadro non cambia se consideriamo anche il 2014: se tutto andrà bene gli USA cresceranno nel 2014 di un paio di punti o poco più, il che in un arco di 7 anni (2008-2014) significa una crescita media dell’1,1% l’anno, lo stesso per l’UK che, se crescerà del 3,2% quest’anno, totalizzerà una media settennale dello 0,5% circa, quanto alla Germania le cui stime si sono ridotte di recente all’1,2% per il 2014 (valutazione del governo tedesco) saremmo ad una media dello 0,7-0,8% nel periodo considerato; quanto alla Spagna è ferma, nel corso del 2014, a 92 e noi a 9112.

Si cresce poco e male con un andamento a dente di sega (alti e bassi) tipico degli USA, cui fa riscontro il ristagno stabile del Giappone o il lento affondare di Italia e Spagna. E i consumi seguono: nel 2014 si è notato che, facendo base 100 il periodo pre-crisi, si era a 95 nell’Eurozona e a 106 in USA13, il che significa una crescita vicino all’1% per quel paese, ciò che è una “performance” da ristagno di lungo periodo, e gli USA sono considerati l’economia che regge meglio alla crisi tra i paesi ricchi.

Ma non è tutto. Uno studio del CSC (il Centro studi della Confindustria) relativo al 2011 ha accertato che la crescita europea del 2011 (+ 1,4% di PIL nell’Eurozona) determina una perdita del 2,6% del PIL per la bassa utilizzazione degli impianti14; gli impianti, infatti, possono lavorare normalmente al 90% della loro capacità, ma quando l’economia rallenta si scende verso l’80% o meno, il che significa che una parte eccessiva dell’investimento rimane inutilizzata, sono cioè risorse buttate dalla finestra, di cui nel calcolo del PIL non si tiene conto adeguatamente, ed è questo uno dei tanti motivi per cui le stime fondate sul PIL lasciano insoddisfatti molti studiosi15. Ora se si paragonano i tassi di sviluppo delle principali economie ricche con lo sviluppo dell’Eurozona nel 2011 (1,4%) si scopre che essi sono mediamente inferiori, come si è visto. In altre parole questa asfittica ed inconsistente ripresa non basta neanche ad assicurare un adeguato utilizzo degli impianti, ciò che si perde in capitale sprecato è superiore al modesto incremento del PIL16 . Ciò posto che rimane della crescita del PIL mondiale? Assolutamente nulla.

 

B) La montagna del debito mondiale.

C’è, inoltre, un altro enorme peso che grava su questa asfittica e stagnante economia, il peso del debito nelle sue varie componenti (debito pubblico, delle famiglie, delle imprese, derivati). Il debito pubblico era stimato dal FMI al 58% del PIL mondiale nel 2002 divenuto il 120% nel 2009, il livello con cui gli USA uscirono dalla seconda guerra mondiale17. Ancora nel 2007 gli USA erano al 67,2% (rapporto debito-PIL) e nel 2013 erano al 104,3%18 con una crescita di 37 punti a fronte di uno sviluppo del PIL del 5,5% nel periodo 2008-2013, si tratta di un incremento del debito sette volte superiore alla crescita del PIL.

Gli altri paesi non stanno meglio: una recente ricerca coordinata da un noto manager italiano sul debito dei paesi avanzati, ha portato a questi risultati:

Tabella n. 3: Debito nei paesi avanzati nel 2013

PaesiRapp. % debito-PILSpesa interessi % PIL
USA 104,3 % 3,8%
Giappone 224,6% 2,1%
Eurozona 92,7% 2,9%
UE 86,9% 2,8%
Italia 132,2% 5,3%
Francia 93,5% 3,4%
Germania 78,4% 2,2%
Spagna 93,9% 3,4%

Come si vede un indebitamento enorme19, in particolare i 4 grandi dell’Eurozona (Italia, Francia, Germania e Spagna) vedono il loro debito globale passare da 2152 miliardi di euro nel 1992 a 7.130 miliardi nel 2013: il rapporto debito-PIL cresce di 28 punti in Italia, di 48 punti in Spagna, di 53 in Francia e di 38 in Germania20; ancora la Germania ha visto il suo debito evolvere negli anni più recenti dai 1650 miliardi del 2008 ai 2159 miliardi del 2013, in questo lasso di tempo il PIL tedesco è cresciuto, come si è visto del 3,8% e cioè di un centinaio di miliardi o poco più a fronte di una crescita del debito di 509 miliardi.

A questo indebitamento enorme delle economie avanzate corrisponde una spesa per interessi nettamente superiore alla crescita asfittica del PIL, se gli Stati fossero imprese sarebbero falliti da tempo; negli anni ’30 si diceva che la crescita del debito pubblico non era un peso per l’intera società, implicando solo un trasferimento di ricchezza all’interno della società tra debitori e creditori21. Ora, però, questa tesi, già allora discutibile, non appare più sostenibile poiché il debito è sottoscritto sui mercati internazionali, i bonds vanno cioè ad investitori stranieri e questo riguarda più o meno tutti come è noto. Inoltre, anche quando gli investitori sono locali, assai spesso fanno parte di centri finanziari o banche multinazionali, che operano con criteri per nulla nazionalistici, in altre parole costoro investono fin quando la cosa appare profittevole e abbandonano i singoli paesi quando i tassi di interesse proposti non sono considerati remunerativi. Già nel lontano 1971 Guido Carli, governatore della Banca d’Italia osservò che i capitali delle IM (una cifra immensa) si muovevano sui mercati internazionali in senso inverso alla politica monetaria dei singoli paesi mettendola in crisi22; a fine millennio il commissario europeo Monti osservò che le IM mettevano all’asta i loro investimenti collocandoli laddove la politica fiscale era più benevola, il che costringeva gli Stati a concedere sgravi crescenti in concorrenza gli uni con gli altri, per cui non rimaneva che aumentare le tasse sul lavoro23 con conseguenze negative sui consumi che si contraevano e sulla dinamica dell’economia.

Cedere, dunque, quote crescenti di PIL (la spesa per interessi) a centri di potere multinazionali (ci siano o meno presenze locali in essi) è quanto mai pericoloso, gli stati diventano sempre più subalterni a gruppi di potere che non ragionano in termini di sviluppo delle economie nazionali ma in termini del proprio profitto; ciò per i capitalisti è sempre accaduto, ma un tempo, quando il capitalismo era tendenzialmente nazionale, essi non avevano questi strumenti terribili di pressione sugli Stati, adesso possono far fallire qualunque politica monetaria, fiscale o di bilancio che sia sgradita, e più gli Stati si indebitano più cresce la loro situazione di dipendenza politica ed economica da questi grandi centri finanziari.

Né ciò riguarda solo i paesi industrializzati avanzati né solo il debito pubblico, poiché il debito globale (imprese, famiglie e debito pubblico) cresce enormemente24 e ciò contagia anche i paesi emergenti, prima tra tutti il più grande di essi, la Cina: una recente ricerca della Standard Chartered Bank ha attestato che il debito aggregato (debito pubblico e debito delle famiglie) è arrivato al 251% del PIL cinese nel giugno 2014 contro il 250% dell’Italia, il 260% degli USA ed il 415 % del Giappone25. Si noti che il debito aggregato, calcolato da questa banca, non è completo non comprendendo il debito delle imprese con il quale gli USA erano vicini al 400% nel 200926, comunque anche solo valutando il debito pubblico e quello delle famiglie, la Cina è a livelli simili a quelli dell’Italia. Senza debito non cresci, e la crescita cinese è una crescita che maschera il ristagno27. La cosa è ancora più grave perché negli stessi decenni sono state attivate politiche di austerità pesanti, che però hanno colpito duramente lavoratori e pensionati ma hanno beneficiato il capitale sia attraverso gli sgravi fiscali e la tolleranza verso l’evasione fiscale (su cui torneremo)28, sia attraverso i salvataggi delle banche in ragione di 3.300 miliardi di dollari in USA e 4.500 miliardi di euro in Europa29. Austerità per gli uni e sgravi ed aiuti per gli altri col risultato del ristagno dei consumi cui segue uno sviluppo asfittico ed una crescita dell’indebitamento delle famiglie necessario a sostenere consumi stagnanti, mentre le entrate fiscali a causa della debolezza dell’economia e dei consumi sono calanti; ciò determina un crescente indebitamento dello Stato ed una sua sempre più elevata dipendenza dei centri della finanza internazionale che manovrano i cordoni della borsa.

Ma non è tutto purtroppo: l’indebitamento globale comprende anche un’altra voce sviluppatasi dopo il 2000: i titoli derivati. Si tratta di titoli a forte carattere speculativo, i futures sul petrolio e sul grano ne sono un esempio30, il cui sviluppo si collega al carattere asfittico della ripresa: la produzione stagnante non assorbe il capitale disponibile, che rifluisce verso manovre speculative, vere e proprie, scommesse sui prezzi o sul verificarsi di eventi, che non producono ricchezza e trasferiscono soldi da una tasca all’altra. Le valutazioni su quanti siano i derivati in circolazione variano da circa 650.000 miliardi di dollari ad 1,5 quadrilioni di dollari, il che significa da 9 a 21 volte il PIL mondiale del 201131.

La crescita inconsistente dell’economia mondiale naviga su un mare di debiti che in ogni momento potrebbero tradursi in crisi finanziarie, bancarie e monetarie dagli esiti imprevedibili, crisi che negli ultimi decenni si sono effettivamente moltiplicate32.

 

C) La disoccupazione mondiale, un cancro irreversibile.

Il basso utilizzo degli impianti e del capitale ha, come rovescio, il basso utilizzo della forza lavoro. La signora Lagarde, leader del FMI, osserva che la disoccupazione rimane inchiodata attorno a 200 milioni di unità (75 milioni di giovani) e che la crisi ha impedito la creazione di 65 milioni di nuovi posti di lavoro33; l’ILO nel suo recente rapporto sul mondo del lavoro osserva che nel 2014 esistono 800 milioni di lavoratori che vivono con meno di 2 dollari al giorno34; oltre alla disoccupazione esiste cioè il fenomeno della sottoccupazione, persone che lavorano con salari irrisori oppure ad orario limitato (o entrambe le cose). Sembrerebbe, però , che la situazione sia per certi versi migliorata rispetto al rapporto ILO del 2005 quando si segnalava la presenza di 1,2 miliardi di lavoratori (quasi il 50% della forza lavoro mondiale) che lavoravano con 1-2 dollari al giorno35. In realtà le cose non stanno così perché dal 2005 il livello dei prezzi è cresciuto considerevolmente come si evince dalla tabella che segue:

Tabella n. 4: evoluzione dei prezzi nel mondo36

PaesiMedia 2006/2011Anno 2006Anno 2007Anno 2008Anno 2009Anno 2010Anno 2011Anno 2012
India 9,3% 6,1% 6,4% 8,3% 10,9% 12% 8,9% 9,3
Cina 3,75% 1,5% 4,8% 5,9% - 0,7% 3,3% 5% 2,7%
Pakistan 13 ,4% 7,9% 7,6% 20,3% 13,6% 13,9% 11,9% 9,7%
Indonesia 6,3% 13% 6,4% 10,3% 4,6% 7% 5,4% 4,3%
Bangladesh 7,9% 6,3% 9,1% 8,9% 5,4% 8,1% 8,1% 8,7%
Nigeria 10,6% 5,4% 11,6% 12,4% 12,45% 13,7% 10,8% 12,25
Brasile 5,2% 4,2% 3,6% 5,7% 4,9% 5% 6,6% 5,4%
Messico 4,4% 3,6% 4% 5,1% 5,3% 4,2% 3,4% 4,1%
USA 2,2% 3,2% 2,9% 3,8% - 0,4% 1,6% 3,2% 2,1%
Germania 1,2% 1,8% 2,1% 2,6% 0,3% 1,1% 2,3% 2%
Francia 1,6% 1,9% 1,5% 2,8% 0,1% 1,5% 2,1% 2%
UK 3,2% 2,3% 4,3% 4% - 0,6% 4,4% 4,5% 2,8%
Giappone -0,4% 0,2% 0,1% 1,4% -1,4% -0,7% -0,3% 0%
Italia 2,3% 2,2% 1,8% 3,3% 0,8% 1,5% 2,7% 3%
Mondo 3,9% 3,5% 3,8% 5,7% 2,2% 3,45% 4,4% 3,6%

Come si vede un’evoluzione chiaramente inflattiva, per cui chi in termini reali guadagnava 1-2 dollari al giorno nel 2005 (lavoratori dei paesi emergenti) ha subito un drastico impoverimento. In Cina, colosso dei paesi emergenti, con i miracoli della matematica composta37, tenendo conto che, stando alle statistiche ufficiali anche nel 2013 i prezzi sono cresciuti del 2,6%, abbiamo che dal 2006 al 2013 i prezzi sono cresciuti di un 35% circa, il che significa che chi guadagnava 2 dollari nel 2005 ha dovuto crescere fino a 2,7 dollari per mantenere il vecchio potere d’acquisto; ora un salario di 80 dollari mensili in Cina non è per nulla basso38. Secondo le statistiche cinesi 82 milioni di cinesi vivono oggi con un reddito giornaliero fino ad un dollaro e 200 con un reddito inferiore a 1,25 dollari, limite statistico della povertà estrema stabilito dalla Banca Mondiale39. Sotto 2, 7 dollari si colloca una massa enorme di lavoratori cinesi a cui andrebbero aggiunti altri 200 milioni di cinesi che vivono nascosti a causa della legge sul figlio unico e che sono formalmente inesistenti, impossibilitati cioè ad avere un reddito ufficiale e che vivono alle spalle degli altri e/o di lavori saltuari e in nero. Di gran lunga peggiore è, però, la situazione di paesi come India, Pakistan, Bangladesh, Nigeria, Indonesia dove vivono circa 2 miliardi di persone con un reddito inferiore a quello della Cina e dove l’incremento dei prezzi è stato brutale come si evince dalla tabella n. 4. In altre parole la situazione dei dannati della terra dal 2005 in poi è peggiorata.

Al sottosalario dei paesi emergenti, spesso unito a lavori massacranti e senza alcun sistema di tutela o di welfare, corrisponde nei paesi ricchi l’esplosione del lavoro parziario o precario. Il fenomeno diventa evidente dopo la Grande Crisi del 1973-75: l’Europa diventa un Europa a tempo parziale40 né dopo la situazione è mutata, sicché di recente la prof.ssa Reichelin, una dei big della BCE, ha auspicata che l’era buia dei “mezzi lavori” debba finire41, nel frattempo i lavoratori precari o parziari erano diventati quasi la metà degli occupati in Italia42, e per le nuove assunzioni ormai il tempo indeterminato e pieno è una rarità43, mentre in Germania la riforma di Shoroeder (inizio terzo millennio) ha prodotto 8 milioni di minijobbers pari a circa ¼ della forza lavoro tedesca44. Di recente una grande multinazionale, la Nestlè, ha asserito che in futuro assumerà solo lavoratori parziari45.

Dall’altro lato dell’Oceano il fenomeno si manifesta in modo consistente a partire dalla crisi del 1973-75 quando il 14,6% dei lavoratori è a tempo parziario46; in seguito il fenomeno crescerà ulteriormente come attestano le ricerche del prof. Rifkin47, mentre di recente il Nobel Krugman ha riferito valutazioni che stimano i lavoratori parziari al 40% degli occupati americani48.

Ma non è tutto, le cifre sulla disoccupazione sono spaventosamente sottostimate e non solo perché se un lavoratore parziario equivale ad 1/2 o ad 1/3 di un lavoratore ordinario non può essere assimilato a questo nelle statistiche, ma anche perché negli ultimi anni si è diffusa l’abitudine a chiamare i disoccupati con un altro nome (scoraggiati, inoccupati, inattivi, missing men)49; il fatto è che a fine 2011 l’inchiesta ILO – OCSE ha accertato che il tasso di attività mondiale è del 60% cioè le persone in età di lavoro che sono occupate sono solo 3 su 550. La verità è che nel mondo, a cominciare dai paesi ricchi, la forza lavoro in maggioranza è formata da disoccupati, scoraggiati, inattivi, sottoccupati o sottosalariati.

Perché questo? Il perché, e lo scrivo da quasi 35 anni, sta nel carattere sempre più capital intensive e labour saving della produzione capitalistica. Di recente l’istituto Bruegel ha evidenziato che nei prossimi anni la diffusione della tecnologia metterà a rischio il 47% dei posti di lavoro in USA e ancor più in Europa (51% Germania, 56% Italia, 62% Romania)51. Ora nel dettaglio queste cifre possono essere discusse ma il trend in atto pare essere inconfutabile tranne che per gli struzzi che preferiscono guardare altrove. In USA nel settore manifatturiero, cresce la produzione e la produttività negli ultimi anni ma in compenso saltano 5 milioni di posti di lavoro, quasi 1/3 del totale52; sempre in USA nell’high tech dal 1970 ad oggi la produttività è cresciuta enormemente i posti di lavoro si sono dimezzati53: niente di nuovo già negli anni ’80 (quando internet muoveva i primi passi) era possibile raddoppiare la produzione ogni 5 anni, nei settori avanzati dell’economia, mantenendo stagnante o addirittura riducendo l’occupazione54. A tal proposito fu emblematico il piano ventennale giapponese 1966-85 che prevedeva un incremento del PIL di 5 volte nel corso del ventennio, ipotesi poi abbandonata perché troppo pessimistica, nella seconda versione il PIL doveva crescere di 9 volte (il 900%); ebbene nella prima ipotesi l’occupazione avrebbe dovuto crescere ad un ritmo pari ad 1/27 del PIL, nella seconda ipotesi di 1/35, concretamente + 4% di occupazione e + 108% di PIL (prima ipotesi), + 3% occupazione e + 105% PIL (seconda ipotesi)55. Pazzesco, peccato che la grave crisi del 1973-75 fece saltare tutto.

Non meraviglia, dunque, se di recente i fast food hanno ipotizzato la soppressione (non fisica beninteso) dei commessi, sostituiti da schermi cui il cliente con un tocco può richiedere il prodotto scelto che gli verrà recapitato in modo automatico56.

Un tempo la disoccupazione tecnologica57 trovava il suo sbocco nel terziario pubblico e privato, oggi non è più possibile perché il terziario privato tende ad automatizzarsi come l’industria, mentre il terziario pubblico è travolto dalla crisi fiscale dello Stato alimentato da una evasione incontenibile che impedisce ai governi di usare la PA come spugna della disoccupazione come è avvenuto in passato fino alla crisi del 1973-75.

Nè ciò basta: l’US Labour Statistic Boureau ha asserito qualche anno fa che le professioni del futuro in America sono badanti, baristi, collaboratori domestici, muratori e così via; in particolare l’economia USA nei prossimi anni assorbirà solo 300.000 ingegneri informatici contro 500.000 baristi58. In altre parole le università americane potranno sfornare anche un milione di informatici ad elevatissima preparazione che finiranno per la maggior parte a fare i commessi nei fast food o i disoccupati. Il problema non è nuovo è dagli anni ’80 che osservo come l’industria avanzata assorbe pochi tecnici e molti lavoratori con bassa qualifica59.

Tocchiamo qui quello che è il nodo centrale di tutte le contraddizioni del capitalismo: se la forza lavoro è utilizzata poco e male i salari saranno bassi, come denunciano OCSE, FMI e BRI che rilevano una perdita da 7 a 10 punti di PIL nei redditi da lavoro dipendente a partire dagli anni ’7060 fino all’inizio del nuovo millennio, in maniera pressoché ininterrotta; ciò determinerà il ristagno dei consumi , la debolezza dello sviluppo economico, l’indebitamento delle famiglie, il carattere inadeguato delle entrate fiscali etc, esattamente la realtà che stiamo vivendo. Ormai lo ammettono tutti: l’occupazione deve crescere assolutamente, ma nessuno sa come farla crescere.

 

D) Il problema delle riforme impossibili.

Davanti a questo quadro disastroso un coro di politici, economisti e giornalisti di servizio lancia la parola d’ordine delle riforme, occorre farle per uscire dalla crisi. In particolare ci vorrebbe più flessibilità sul mercato del lavoro, più liberalizzazioni e crescita della competitività. Tali proposte assai generiche le ho confutate qualche anno fa61, rilevando che la competitività nel capitalismo significhi crescita della produttività e quindi significhi produrre di più con meno addetti che è proprio il nodo scorsoio che soffoca il sistema, quanto alle liberalizzazioni farle in un sistema di mercato dominato da poche centinaia di colossi multinazionali in grado di ricattare gli Stati è pura utopia, a parte la considerazione che anche il capitalismo ottocentesco mirava a produrre di più con meno addetti62; la concorrenza, poi, non potrebbe che acuire queste tendenze che sono strutturali nel capitalismo e che sono il problema di oggi, poiché come dicevo i meccanismi di recupero della forza lavoro espulsa dalla tecnologia non operano più.

Di recente, però, si è aggiunta un’altra voce al capitolo “riforme” quella della riforma fiscale: si dice, infatti, che il peso delle tasse è elevato e soffoca impresa e lavoro (investimenti e consumi) per cui occorrerebbe ridurle. Si dà il caso però che l’evasione fiscale da parte dei redditi di capitale sia enorme63 e le imprese hanno ottenuto notevoli sgravi negli ultimi decenni come osserva il commissario europeo Monti. Inoltre nella classifica sui primi 26 paesi per pressione fiscale redatta dall’”Economist” non figurano né il Giappone né gli USA (anno 2011) e la situazione economica di quei paesi non è certo brillante, il Giappone oscilla tra ristagno e recessione e gli USA hanno una crescita modestissima ed oscillante fondata su una montagna di debiti. Ancora Spagna e Grecia hanno una pressione fiscale pari al 31,6% e al 31,2% del PIL, ma non reggono la crisi come la Svezia (44,5% del PIL) o la Norvegia (43,2% del PIL); del resto la tassazione sui redditi alti raggiunse in USA il 91% nel 1957 e l’America allora correva, oggi siamo a poco più del 40% e l’America è ferma ed annega nei debiti. Con ciò vogliamo dire che la politica fiscale è solo un momento della politica economica più generale: le tasse riscosse possono tradursi in sostengo ai consumi (welfare) ed in commesse alle industrie sostenendo l’economia e gli investimenti; la politica fiscale in sé non è decisiva, intesa come mero volume delle imposte sul PIL, come è evidente dagli esempi fatti, ciò che è fondamentale non è solo il volume del peso fiscale ma soprattutto come esso viene usato. Ci vuole, in altre parole, una politica globale che non si vede quale possa essere in questo sistema e nell’attuale fase di depressione che sta vivendo.

Del tutto opposto in materia fiscale è il riformismo proposto da Piketty, che riprendendo implicitamente Keynes, propone di tassare per ridistribuire istituendo una tassazione sul capitale64. Tale ipotesi è impraticabile a livello mondiale per la mancanza di un potere ad hoc, ma sarebbe comunque bene incominciare a discuterne, per l’intanto potrebbe farsi a livello europeo65.

Il fatto è che anche a livello europeo manca un potere in grado di realizzare l’idea di Piketty ed i singoli paesi europei sono in concorrenza feroce tra loro per aggiudicarsi gli investimenti delle IM; Francia, UK, Spagna ospitano sul loro territorio paradisi fiscali, l’Irlanda e il Lussemburgo sono paradisi fiscali etc. Si potrebbe obiettare che, di recente, il G 20 australiano dei ministri finanziari ha accettato il principio sostenuto dall’OCSE, che le tasse si paghino dove si svolge l’attività e non dove si metta la sede per meri fini fiscali, inoltre un numero rilevante di paesi ha deciso di cooperare ad uno scambio di informazioni fiscali a partire del 2017.

Chi, come me, si occupa da quasi 40 anni del problema, sorride, in questo lungo periodo più volte (anche in data recente), si sono evocate crociate finali contro l’evasione fiscale che si sono concluse in un flop, e questo sarà un ennesimo flop. Il perché risulta evidente già dalla data di partenza della nuova collaborazione, il 2017: la situazione dei bilanci statali è talmente positiva per cui possiamo attendere altri due anni per iniziare la lotta all’evasione fiscale, l’unica cosa che accomuna questi governi è la voglia di rimandare il problema. Inoltre se molti paesi decidono che intendono collaborare, altri non sottoscrivono gli accordi proposti ed è bene ricordare che uno dei più famosi paradisi fiscali, il piccolo Stato USA del Deleware gode di una sostanziale autonomia in campo fiscale garantita dalla costituzione americana che nessuno ha osato scalfire, ed è dubbio che questo possa accadere ora in una situazione di debolezza dei governi centrali, sempre più condizionati dal fatto che se i mercati non sottoscrivono i bonds salta tutto66. Del resto, come disse qualche anno fa un dirigente bancario svizzero pentito (Hervé Falciani), il volume dei movimenti del capitale è enorme, ogni giorno si fanno milioni di operazioni e di trasferimenti premendo un bottone, per intervenire e richiedere informazioni devi sapere cosa cerchi in anticipo e ciò avviene solo se le autorità finanziarie hanno ottenuto una soffiata altrimenti tutto avverrà alle loro spalle67. Non occorre, poi, alcun scambio di informazioni per sapere che le IM mettono le loro sedi dove si pagano meno tasse, è cosa che si sa da tempo con casi clamorosi denunciati dalla stampa che non hanno avuto seguito alcuno.

Chiedere a questi governi subalterni alle IM di diventare paladini della lotta all’evasione è come chiedere ad un cannibale di diventare vegano68.

 

E) Un problema inventato: la deflazione.

Un nuovo spettro o mostro si aggira per il mondo: la deflazione, che minaccia l’economia e che mina alla base una ripresa fragile ed insufficiente. Eppure il fatto che i prezzi possano flettere era visto da Draghi come un aiuto all’economia, perché prezzi in ribasso possono sostenere consumi troppo stagnanti69; qualche mese dopo, tuttavia, Draghi si converte alla tesi al pericolo deflazione70, anche se si precisa che il problema non è tanto la deflazione ma una bassa inflazione, di cui si auspica una crescita attorno al 2%. La tabella n. 3 è chiara: i prezzi crescono come tendenza mondiale in modo indubbio e i segni meno sono un’eccezione assoluta, e anche quando ci sono potrebbero nascondere l’inflazione. Qualche decennio fa un economista liberale francese evidenziò, in una ricerca pregevole, che vi può essere inflazione anche quando i prezzi sono rigidi (non calano o calano poco) e potrebbero ridursi notevolmente71. Si pensi all’Italia: da noi ad agosto e settembre 2014 i prezzi flettono dello 0,1% su base annua, non accadeva dal 1959. Ora, però, i prezzi sono stabilmente saliti in Italia da allora e questo è avvenuto anche negli ultimi anni in una situazione di calo permanente dei consumi: in una economia concorrenziale e ottocentesca avremmo dovuto avere una drastica flessione e la lieve limatura della tarda estate 2014 non cambia questo quadro, da noi i prezzi, ragionando in termini ottocenteschi, sono eccezionalmente elevati.

Non si vede, inoltre, perché, quando il prezzo di barile di petrolio era a 100 dollari e cresceva ad ogni minimo accenno di ripresa, ci si dovesse preoccupare perché questa crescita stroncava la ripresa, ed adesso dovremmo preoccuparci perché staziona su 80-82 dollari al barile (ottobre 2014), non vedo molta coerenza in un simile atteggiamento: la spiegazione logica (si fa per dire) di questa posizione è che i consumatori, sapendo che i prezzi scenderanno, rinviano gli acquisti in attesa della discesa e questo renderebbe i consumi ancor più asfittici. Si potrebbe obiettare che il consumatore, reduce da decenni di inflazione stabile e consolidata, potrebbe precipitarsi ad acquistare (qualora i prezzi scendessero) sapendo che il calo è un fenomeno eccezionale e non duraturo. Naturalmente questa ipotesi come quella criticata, è un’ipotesi sulla psicologia del consumatore, ma sta di fatto che il consumatore spende poco sia quando i prezzi crescono, sia quando , eccezionalmente, calano sia pure di poco, come è accaduto nei rari casi in cui la tabella n. 3 segnala un segno meno. Il perché ciò avvenga è molto semplice, nelle tasche dei consumatori ci sono pochi soldi e molti debiti, per cui comunque è difficile fare la spesa.

Inoltre da un punto di vista storico la tesi in questione (la deflazione blocca l’economia) contrasta con lo sviluppo del capitalismo: il XIX secolo, osserva Landes, è stato un secolo deflattivo72, ed il capitalismo in esso si è sviluppato. In particolare negli USA facendo base 100 i prezzi del 1823 si è a 75 nel 1848, a 134 nel 1875 e a 74 nel 1898; poi fatta base 100 i prezzi di quell’anno siamo a 208 nel 1923, a 331 nel 1948, a 530 nel 197373. Il capitalismo americano si sviluppa sia con la deflazione che con l’inflazione ed è proprio nel XIX che gli USA superano l’Inghilterra e diventano il n. 1 dell’economia mondiale.

La deflazione, dunque, è un falso problema, ma perché viene agitato? I motivi, a mio avviso, sono due: il primo, ammesso a mezza bocca, è che l’inflazione riduce il peso reale del debito pubblico, se i prezzi crescono attorno al 2% l’anno al momento del rimborso un’obbligazione trentennale costerà al governo in termini reali molto meno della sua emissione. Verissimo, epperò l’inflazione potrebbe far aumentare l’attesa dei mercati per tassi più alti: se l’inflazione sale , salgono pure i tassi di interesse delle nuove emissioni e questo per i governi è un pessimo affare per cui essi arriverebbero al rimborso dei bonds di lungo periodo letteralmente dissanguati. Un altro motivo non detto è quello di lasciare alle imprese un mezzo per recuperare i costi di una situazione bloccata dove i consumi ristagnano e il capitale investito non è adeguatamente utilizzato, il che implica perdite enormi74. Ora il capitale può recuperare i costi e le perdite in vario modo: può aumentare la produttività del lavoro, ma questo significa licenziamenti o quanto meno blocco del turn over75 con i costi economici e sociali conseguenti; le imprese inoltre possono aumentare le loro pressioni sui governi per ottenere ulteriori agevolazioni fiscali ma la situazione dei bilanci pubblici è disastrosa.

La soluzione, dunque, potrebbe essere quella di permettere alle imprese di usare il vecchio collaudato mezzo del recupero attraverso la crescita dei prezzi, ciò che deprimerebbe consumi già poco dinamici ed esporrebbe a rischio di un aumento dei tassi di interesse sulle nuove emissioni del debito pubblico. Più che una soluzione, un disastro, espressione di quanto siano ormai incontrollabili le contraddizioni del capitale e di come le ricette siano finite.

Le vie del signore sono infinite, ha detto qualcuno, le soluzioni economiche non lo sono.

 

2) Gli USA: un’economia “forte” che affonda tra debiti, disoccupati, sottoccupati, inattivi e scoraggiati.

L’andamento del PIL in USA a partire dal 2008 (anno di inizio della crisi) è questo, confrontato con la media dei periodi precedenti.

Tabella n. 5: PIL USA dal 199076

AnniCrescita % PIL
1990-98 (media) 3,2%
1992-2002 “ 3,3%
2002-2007 “ 2,9%
2005-2010 “ 0,7%
2006-2011 “ 0,5%
2008 -0,3%
2009 -3,1%
2010 2,4%
2011 1,8%
2012 2,8%
2013 1,9%
2014 (I trim.) -2,1%
2014 (II trim.) 4,6%

Come si vede nel periodo 2008-13 la crescita del PIL è stata attorno al 5,5% in totale, nettamente al di sotto dei periodi precedenti, meno dell’1% l’anno, se si realizzerà una discreta performance nel 2014 potremo arrivare ad 1,1% per il periodo 2008-2014, il tutto pagato con una crescita spaventosa del debito pubblico e di quello globale77, e con un costo del debito pubblico che nel 2013 ha doppiatola percentuale di crescita del PIL 3,8% contro 1,9%. È evidente che se gli USA avessero perseguito la politica di Hoover del 1929 (chiudere i cordoni della borsa e aspettare la ripresa dell’economia) sarebbe crollato tutto. È evidente, altresì, che se gli USA fossero un’impresa sarebbero fallita da tempo, perché la dinamica del debito e dei suoi costi è un mare in tempesta e la crescita del PIL un fiumiciattolo. Si è osservato, inoltre, che assai spesso la crescita del PIL non è dovuta alla crescita dei consumi, ma al rinnovo delle scorte da parte delle imprese78, che una volta espletato lascia l’economia in uno stato di languore, come dicono i francesi, per cui si nota spesso un andamento a dente di sega o a sbalzi dell’economia americana, cosa evidente anche nel 2014. Osserva a tal proposito Stephen Roach che ci vuole ben altro di due buoni trimestri consecutivi per riassettare l’economia USA nella quale i consumi sono scarsamente dinamici, e per sostenerli si deve erodere il risparmio precedente ed indebitarsi pesantemente: nel 2013 il debito del consumatore è stato inferiore di 10 punti rispetto al livello del 2007 (segno che ormai è difficile anche indebitarsi) ma superiore di 35 punti alla media degli ultimi decenni, assestandosi al 109% del PIL79. Si consuma poco rosicchiando i risparmi ed indebitandosi. Il motivo per cui questo avviene è presto detto: i salari sono bassi ed in caduta libera da decenni80. Il tentativo di Obama di ottenere un salario minimo per le imprese che lavorano per conto dell’amministrazione federale è fallito per l’opposizione del Congresso condizionato dai repubblicani, la cui forza e aggressività è uscita rafforzata dalle ultime elezioni di medio termine che ha dato ad essi anche il controllo della camera alta. Nel frattempo circa 50 milioni di americani vivono con i buoni pasto del governo (ben 4,45 dollari al giorno) e decine di milioni di americani negli ultimi anni vivono in coabitazione.

Tocchiamo qui il vero punto dolente dell’economia americana (e mondiale) la disoccupazione che calmiera i salari verso il basso e azzera o quasi il potere dei sindacati. Più volte negli ultimi anni sia la Fed che la Yellen hanno ammonito sul fatto che la disoccupazione reale non è quella delle statistiche81, scrive in proposito Marcello De Cecco: “Il mercato del lavoro USA si è ristretto per l’uscita di milioni di disoccupati che hanno smesso di cercare lavoro mentre altri milioni lo cercano senza trovarlo. La disoccupazione di lungo periodo ed i lavori precari e mal pagati sono aumentati anche durante la ripresa”82.

Ma le statistiche USA macinano successi dopo successi e a settembre la disoccupazione ufficiale cala al 5,9%, ma osserva Massimo Gaggi:

“… il calo della disoccupazione arriva in un contesto di ridotta partecipazione degli americani al mondo del lavoro. I cittadini attivi sono scesi ulteriormente al 62,7% (lo 0,1% in meno rispetto al mese precedente), rispetto al 66-67% del periodo precrisi. Non solo: i nuovi impieghi oltre ad essere mediamente meno remunerativi di quelli che sono stati soppressi, spesso sono anche a tempo parziale. Il tasso di disoccupazione allargando, quello che comprende anche i lavoratori che hanno accettato un lavoro part-time ma ne cercano uno a tempo pieno, è molto più alto anche se qui si registra un miglioramento, l’11,8% contro il 12% di agosto”83.

Ora è bene dire che nel biennio 2012-13 in media sono stati creati 182-183mila posti di lavoro al mese, oltre 4 milioni in due anni84. Molti si dirà , ma riandando ai miei vecchi lavori scopro che nel febbraio 2005 sono stati creati in USA 260.000 nuovi posti di lavoro e la disoccupazione è cresciuta dello 0,2%85; in altre parole in un paese enorme come gli USA, con un incremento della popolazione vicino all’1% annuo e con la conseguente crescita della forza lavoro, non bastano neanche 200.000 posti di lavoro mensili perché la disoccupazione si riduca. Il calo, dunque, è un mero giochetto statistico: la disoccupazione cala perché si riducono gli americani che cercano lavoro, molti disoccupati si ritirano dal mercato del lavoro e non cercano più un’occupazione, sicché la disoccupazione si riduce non perché i disoccupati siano assorbiti ma perché gettano la spugna . Il tasso di partecipazione degli americani al mercato del lavoro è ai minimi negli ultimi trent’anni ed è il 62,7% cifra che indica le persone che sono attive ed hanno un lavoro ed i disoccupati che lo cercano attivamente, se togliamo a questa cifra i disoccupati attivi (che cioè cercano lavoro) i lavoratori occupati scendono a meno del 60% delle persone in età di lavoro. Gli scoraggiati sono una marea che quasi raddoppia il dato ufficiale della disoccupazione86; a metà 2010 la disoccupazione cala ma solo perché si sono ritirati dal mercato del lavoro 652.000 americani, a gennaio 2011 la disoccupazione cala rispetto a dicembre 2013 al 9% dal 9,4% questo perché i disoccupati si riducono di 600.000 unità a fronte della creazione di soli 36.000 posti di lavoro87, un risultato così non lo avrebbe mai ottenuto nemmeno il celebre personaggio di Eduardo De Filippo “Sik Sik l’artefice magico”; infatti eliminare 600.000 disoccupati con soli 36.000 nuovi posti di lavoro è impresa da Sik Sik. La disoccupazione è enorme ma anche la sottoccupazione non è da meno: il Nobel Krugman la stima al 40% degli occupati88; implicitamente il Dipartimento del lavoro americano gli dà ragione riferendo che la durata della settimana lavorativa in USA nel 2013 supera di poco in media le 34 ore89; ciò significa che moltissimi lavoratori sono parziari, infatti in USA si può lavorare normalmente 44 ore (limite stabilito negli anni ’30), come del resto negli altri paesi di capitalismo avanzato, 34 ore medie significa un utilizzo della forza lavoro al 78% delle proprie capacità, una sottoutilizzazione enorme. Naturalmente questo non basta per gli struzzi che esistono e incredibilmente voltano lo sguardo dall’altra parte: così di recente un signore ha osservato, su un grande quotidiano italiano, che la situazione occupazionale in USA è rosea in quanto nel periodo 2004-2013 l’occupazione non agricola passa da 132,6 milioni a 137,4 milioni90 a riprova che i posti distrutti in un settore sono stati recuperati in altri settori. Se questo è vero sono stati creati in 9 anni 4,8 milioni di nuovi posti di lavoro e cioè 45.000 al mese una cifra che, per un colosso come l’America, con la sua dinamica demografica, è del tutto irrisoria, una tale cifra sarebbe in grado di assorbire solo una piccola minoranza delle nuove leve che si presentano sul mercato del lavoro (ma abbiamo visto che non lo fanno più perché sarebbe tempo perso). Tutto questo indipendentemente dalle considerazioni fatte sull’espansione violenta del lavoro parziario, precario e sottopagato.

Il quadro complessivo dell’economia USA non è per nulla esaltante e ciò spiega l’interesse di Obama per il trattato per la liberalizzazione del commercio con l’Europa che dovrebbe, secondo calcoli correnti, giovare al PIL USA per uno 0,31,3% a partire dal 2018 mentre per l’Europa il beneficio calcolato sarebbe dello 0,5-0,7%91.

Le cose non vanno bene e si punta al vecchio cavallo di battaglia delle liberalizzazioni da cui però si attendono vantaggi da decimale di punto e tutti da dimostrare, troppe volte in passato ci si attendeva miracoli che non sono venuti e l’esperienza della UE è sotto gli occhi di tutti, le merci circolano molto più liberalmente del passato e l’economia è a terra. Le liberalizzazioni degli scambi commerciali non producono automaticamente nuovi posti di lavoro, anzi la caduta delle barriere doganali (dirette o indirette), avvantaggerà presumibilmente le imprese più forti e cioè più capital intensive, il che, con la situazione occupazionale sopra descritta non sarebbe un grande risultato. Il Congresso, peraltro, non ha dato ancora via libera ad Obama convertito al liberismo commerciale ed uscito ancor più azzoppato dalle elezioni di medio termine.

 

3) Europa. Sempre più in un vicolo cieco tra impotenza e ricette fallimentari.

La situazione dell’Europa si può evincere da quanto scritto in precedenza: PIL quasi fermo ai livelli del 2008 (in alcuni paesi al di sotto), consumi bloccati, debito pubblico (e non solo) alle stelle con i costi del servizio del debito nettamente superiori agli incrementi asfittici del PIL, non a caso l’OCSE di recente ha espresso il timore di una stagnazione secolare per UE e Giappone. Non meno pesante è la situazione occupazionale: a settembre 2014 l’Eurostat certifica una disoccupazione all’11,5% (12% settembre 2013) che nella UE a 28 è al 10,1% (10,8 % nel settembre 2013) una lieve limatura sui livelli dell’anno precedente in un quadro comunque molto grave; anche qui, poi, occorre considerare che la disoccupazione reale è ben più elevata, basti pensare che gli 8 milioni di mini-jobbers tedeschi che solo con un notevole sforzo di fantasia possono essere considerati occupati.

In questo contesto si collocano le elezioni europee che vedono la sconfitta delle forze favorevoli all’austerità: in Germania la Merkel ottiene il peggior risultato della propria carriera politica e le forze che criticano l’austerità (socialdemocratici, verdi, Linke) ottengono nel complesso il 44-45% dei voti espressi, una larga maggioranza relativa del paese; in Francia ed Inghilterra sfondano le forze decisamente anti-europee, in Italia avanza la Lega, si riconferma la forza del movimento 5 stelle e il PD, critico nei confronti della Merkel, supera il 40% dei voti (dato comunque assai meno trionfalistico di quanto si dica per la scarsa affluenza dell’elettorato).

La nuova Commissione europea è un compromesso tra austeri e sviluppisti, ma quando la Francia afferma che non rispetterà i limite del 3% nel rapporto deficit-PIL, sarà il francese Moscovici (nuovo Commissario europeo) a richiamare all’ordine il suo stesso paese, egli che un tempo era contro l’austerità. La verità è che nella nuova commissione e nel nuovo Parlamento europeo coabitano, assediati da crescenti forze eurocritiche o euroscettiche, gli esponenti di due politiche fallite: quella austera che pensa ai conti e non all’economia che affonda (riedizione di Hoover 1929) e quella che vorrebbe spendere di più senza indicare però come tradurre gli investimenti da fare in deficit in nuovi posti di lavoro. Il nodo per entrambe le politiche è sconfiggere le tendenze labour saving del capitalismo, cosa che è semplicemente impossibile: se un AD dicesse ai suoi azionisti che i licenziamenti tecnologici sono un disastro perché in prospettiva porteranno una crisi, sarebbe licenziato in tronco poiché se l’azienda (quali che siano le sue dimensioni) non si liberasse dei lavoratori esuberanti vedrebbe salire i suoi costi con le conseguenze inimmaginabili (fallimento o acquisizione da parte dei concorrenti). In questo sistema concorrenziale non esiste altro criterio di successo se non il profitto aziendale e per fare profitti devi produrre di più con meno addetti con le conseguenze che si vedono, dal momento che i meccanismi di riassorbimento della forza lavoro in esubero si sono completamente usurati negli ultimi decenni.

Sperare che con qualche investimento in più riparta l’economia è una pia illusione, se gli investimenti sono fatti con la logica labour saving, che è naturale nel capitalismo, non si ripartirà ma si andrà verso il baratro (anzi nel baratro già ci siamo).

Così si ipotizzano 300 miliardi di investimenti a livello europeo nei prossimi anni che solo in parte verranno dal bilancio della UE, che copre appena l’1% del PIL europeo92, tanto è vero che a settembre sono finiti i soldi del bilancio anche per pagare le borse Erasmus (e non è la prima volta). I 300 miliardi in questione verranno in larga misura da banche e privati, la UE in altre parole fa assegnamento sui soldi degli altri piuttosto che sui propri, ma ammesso che gli altri rispondano positivamente all’appello della UE ci sono due tipi di limiti l’uno quantitativo e l’altro qualitativo. Dal punto di vista quantitativo 300 miliardi spalmati su vari anni ed in 28 paesi sono pochissima cosa: l’Italia nel 2011 ha investito il 20% del proprio PIL (316 miliardi di euro più o meno); la cifra in questione è quanto mai misera, più rilevante è la cifra messa a disposizione dalla BCE alle banche perché finanziano famiglie e imprese: 1000 miliardi al tasso dell’1%.

È accaduto tuttavia, che malgrado il bassissimo tasso di interesse richiesto la prima tranche di 150 miliardi è stata sottoscritta per poco più di 82 miliardi, un flop evidentissimo. Ciò perché, si nota da varie parti, l’economia non è in grado di assorbire positivamente questa iniezione di liquidità , le banche , infatti, non sono enti di beneficenza ma devono prestare i capitali di cui dispongono a clienti, siano essi imprese o famiglie, che siano solvibili; ora le famiglie sono indebitate e le imprese sono in gravi difficoltà, per cui prestare soldi a pioggia o con bassissime garanzie sarebbe assurdo, chi oggi rimprovera alle banche di essere poco coraggiose ieri criticava le banche americane ed inglesi perché prestavano soldi con bassissime garanzie favorendo la crescita di una bolla speculativa che poi è scoppiata. In altre parole occorre che prima l’economia riparta e poi sarà possibile per questa di riassorbire i capitali disponibili.

Davanti a questa situazione disastrosa si reagisce inventandosi miracoli e riprese che non ci sono: così si dice che la Spagna è ripartita perché nei primi due trimestri del 2014 il Pil è cresciuto di qualche decimale (ma siamo lontanissimi dal 2008) mentre la disoccupazione, su base annua, cala di circa 1 punto dal 25% al 24% a metà anno. Da ridere.

Lo stesso per l’Inghilterra che nel 2014 crescerà di un 3% o poco più, peccato che nel 2013 quel paese, come si è visto, era solo a 100,2 rispetto alla base di partenza del 2008, un ribalzino nel ristagno; quanto all’OCSE segnala che la disoccupazione inglese di lungo periodo permane elevata ed il calo dei livelli di disoccupazione è dovuto essenzialmente all’aumento dei lavoratori parziari93. Inoltre nel linguaggio comune sorge una nuova parola “boomeranger” che si riferisce ai giovani che dopo aver lasciato la casa dei genitori per cercare lavoro tornano indietro perché il lavoro non l’hanno trovato, e sarebbero alcuni milioni; ovviamente il solito imbecille di passaggio dirà che si tratta di mammoni o di schizzinosi.

Rimane ovviamente la grande Germania che, però, non ha avuto dal 2008 una crescita degna di questo nome e a metà del 2014 rallenta ulteriormente: ad agosto gli ordini dell’industria tedesca calano del 5,7% su luglio, il più forte calo dall’agosto 2009 (anno nero), nello stesso mese l’export cala del 5,8% su base annua anche qui il dato più basso dal 200994. Il governo tedesco abbassa le previsioni di sviluppo per il 2014 all’1,2% meno di quanto stimato da OCSE ed FMI.

La verità è che l’Europa annaspa o affonda (a seconda dei paesi) e naturalmente quando questo accade si cerca il capro espiatorio e quindi si accusa l’Italia di essere responsabile del 50% della corruzione che avvelena il continente95. Ora quando si raccontano balle occorrerebbe ricordare quello che si è detto in precedenza ed a fine 2012 la Commissione europea pubblica una valutazione del peso della corruzione (in percentuale del PIL) nei 4 grandi paesi dell’Eurozona e (udite udite!) noi siamo all’ultimo posto con un peso della corruzione pari al 4,1% del nostro PIL (appunto 60 miliardi) ma la Spagna è al 5% , la Francia al 5,6% e la Germania al 5,9%96. Noi facciamo la nostra bella figura ma gli altri ci battono; lo stesso discorso vale per l’evasione fiscale che secondo valutazioni elastiche oscilla da noi tra i 120, i 180 e i 250 miliardi annui di tasse evase97, in Europa però il volume globale delle tasse evase ogni anno si aggira sui 1000 miliardi di euro, cifra fornita dal Commissario Bailly e confermata dal presidente Barroso al cospetto del Parlamento europeo98. Esemplare è quello che è accaduto per la Tobin tax: noi l’abbiamo istituita ma è stato un flop nel senso che ne era esentato il 98% delle transazioni finanziarie99, un bell’esempio di arrendevolezza, ma gli altri non hanno fatto meglio di noi e spesso non ci hanno neanche provato. Sommersa da impotenza politica strutturale100, debiti, disoccupati, corruzione ed evasione fiscale, l’Europa sta morendo101, sia chiaro però che l’Europa non muore perché sono arrivati Farage e la signora Le Pen, al contrario siccome l’Europa sta morendo arrivano Farage e Le Pen.

 

4) Italia. Arriva il nuovo salvatore della patria e siamo alla catastrofe

A) la situazione economica del paese nel 2014.

Del PIL crollato a 91 (base 100 nel 2008) si è detto, ma l’Istat stima che il nostro PIL sia a livello di quello del 2000, inoltre a fine 2014 registriamo 13 trimestri consecutivi di calo; sempre secondo l’Istat il reddito disponibile delle famiglie italiane è sceso ai livelli del 1995 ed i consumi ai livelli di 30 anni or sono. Ancora nel campo dei consumi, gli acquisti del bene casa (un simbolo per noi italiani) sono in caduta libera: 807 mila appartamenti venduti nel 2007 contro i 403 mila del 2013102; Bankitalia riferisce (giugno 2014) che su base annua le sofferenze bancarie, già elevate, sono cresciute del 20% mentre i finanziamenti a famiglie e imprese (già in calo) sono calati ulteriormente del 2,5% su base annua. La disoccupazione a settembre è al 12,6%, quella giovanile veleggia verso il 44%, mentre l’OCSE ci avverte che vi sono 3,3 milioni di italiani che vorrebbero lavorare ma non cercano lavoro perché è inutile, lo stesso istituto ci informa che il 52,5% dei giovani lavora in maniera precaria, sempre i giovani hanno pagato il prezzo più elevato della crisi, poiché nell’area degli under 35 sono stati distrutti oltre 2 milioni di posti di lavoro dall’inizio della crisi (Istat). Il tasso di attività (persone in età di lavoro che hanno un lavoro) si aggira sul 55%, ma chi lavora è spesso precario e non solo tra i giovani, infatti quasi la metà dei lavoratori italiani hanno un lavoro precario o parziario103. Il trend, però, si acuisce nell’ultimo periodo: nel 2013 su 9.602.254 di contratti di lavoro stipulati, 6.577.733 sono a tempo determinato e solo 1.584.516 a tempo indeterminato, nel primo trimestre 2014 siamo a 1.583.808 a tempo determinato contro 418.396 a tempo indeterminato, nel secondo trimestre 1.848.147 a tempo determinato contro 403.036 a tempo indeterminato (Ministero del lavoro)104.

Si tratta di una realtà cancerogena davanti alla quale è da struzzi dire che bisogna rassegnarsi alla fine del tempo indeterminato, se questo fosse vero bisognerebbe rassegnarsi alla irreversibilità di un cancro incurabile. Infatti un lavoratore per poter consumare, in un mondo in cui i beni di consumo durevoli sono acquistati normalmente a rate, deve avere un reddito sicuro altrimenti non solo non potrà acquistare una casa, ma nemmeno un’auto, un televisore o un computer. Se si accetta il carattere instabile e precario del posto di lavoro si accettano implicitamente le conseguenze che ne derivano e cioè la stagnazione dei consumi e dell’economia e il suo sprofondare, più o meno lentamente, in una depressione senza via d’uscita. Il capitalismo è stato forte, nel periodo 1945-70, perché garantiva un posto di lavoro stabile, se non a tutti ad una parte consistente dei lavoratori (fossero essi operai o dipendente del terziario pubblico e privato), lo stesso miracolo giapponese tanto osannato negli anni ’60 aveva tra i propri pilastri l’assunzione a vita dei lavoratori della grande impresa e del settore pubblico. Tornare al capitalismo dei libri di Dickens non è più possibile perché questo capitalismo ha capacità produttive enormi che richiedono consumi adeguati, se il consumatore non è messo in grado di spendere, sia pure a credito, il sistema crolla. Keynes lo aveva capito, gli struzzi contemporanei non lo capiscono e pretendono che si possa consumare e che si possa crescere con lavori instabili e malpagati. Idiozie105.

Che il reddito dei lavoratori sia stata falcidiato negli ultimi decenni è indubbio: una ricerca CISL (che nessun Istat ha smentito anzi come abbiamo visto quell’Istituto ha prodotto dati anche più catastrofici) ha documentato che nel periodo 2007/13 i lavoratori hanno perso il 5,7% del loro reddito a causa del cosiddetto fiscal drag; ora considerando i dati del MEF (Ministero Economia e Finanza) relativi alle dichiarazioni dei redditi del 2012 (ultime disponibili) il reddito medio dei lavoratori dipendenti era di 20.680 euro l’anno (contro i 20.469 di imprenditori e lavoratori autonomi) il che significa che i lavoratori hanno perso nel periodo considerato circa 1.200 euro annui a testa (100 al mese). Nel periodo 2000-2010 la perdita è stata di 5.500 euro l’anno106. Le pensioni medie superano di poco i 16.000 euro lordi l’anno (2012): in dettaglio l’INPS rileva che il 45,2% dei pensionati guadagna meno di 1000 euro e un terzo meno di 500107, lo stesso istituto valuta che nel periodo 2008-12 il potere d’acquisto delle famiglie è calato del 9,4%, nel solo 2012 il calo è stato del 4,9%, come si vede l’INPS è anche più catastrofica della CISL. Non a caso il Consiglio d’Europa ammonisce l’Italia sul livello molto basso delle pensioni108, in questo caso, però, nessuno dice “ce lo chiede l’Europa”. Quanto poi ai dipendenti pubblici hanno perso, nel periodo 2010-13, a causa del blocco degli scatti, della contrattazione e del turn over 7,8 miliardi di retribuzioni nel solo 2013, il 4,5% del monte stipendi della PA (fonte Istat) e questo a prescindere dal fiscal drag.

Quanto alla pressione fiscale è elevatissima, per comune ammissione, la CGIA di Mestre ha calcolato che dal 1997 al 2014 le entrate fiscali sono cresciute del 52,7% (241 miliardi di euro in più) mentre le spese sono cresciute del 62,7% (295,9 miliardi di euro) in dettaglio le imposte centrali sono cresciute del 42, 4%, quelle locali del 190,9%. Il guaio è che, però, che questo carico enorme grava su lavoratori e pensionati, i grandi redditieri evadono il fisco largamente: le dichiarazioni IRPEF di lavoratori autonomi e imprenditori sono “evasive” per il 56% (ISTAT)109, mentre l’evasione IVA e IRAP è stimata in 50 miliardi per il 2011 dalla Corte dei conti, che arriva ad ipotizzare una evasione di 250 miliardi di tasse evase considerando sia l’evasione ad opera delle imprese “emerse” sia l’evasione delle imprese che operano nel sommerso che rappresenterebbe il 21% circa dell’economia italiana110.

Il guaio è che anche se scoperti gli evasori non pagano: il dottor Befera, per anni numero uno della lotta all’evasione fiscale (si fa per dire) ha ammesso che negli ultimi 15 anni lo Stato ha accumulato 545 miliardi di crediti fiscali che oggi sono esigibili solo al 5-6% in quanto imprese, imprenditori e beni sono scomparsi o si sono rifugiati all’estero111. È ovvio che data questa situazione il peso crescente della fiscalità ricada sui soliti noti: lavoratori e pensionati.

 

B) La politica di Renzi, PIL, debito pubblico, lavoro.

All’inizio del 2014 arriva al governo un signore di Firenze chiamato Renzi, che rappresenta l’ultimo salvatore della patria in ordine di tempo e che eredita la situazione di cui sopra assolutamente fallimentare. L’uomo si impegna molto nel campo della comunicazione, ha poche idee anzi ne ha una sola “cambiare subito”, come cambiare però non sembra essere chiaro e quello che si capisce ha assai poco di nuovo. Occorre rilanciare il PIL e quindi si vara un decreto “sblocca Italia” per far ripartire l’economia e riaprire i cantieri. Quanto si sblocca? Non più di 3-4 miliardi cui dovrebbero aggiungersene altri 6-7 ad opera dei privati in totale una decina di miliardi, pochissimo dal punto di vista quantitativo e dal punto di vista qualitativo devo ripetere il solito rilievo sul carattere labour saving degli investimenti che vengono fatti, e su questo punto il governo non fa assolutamente nulla.

È necessario rilanciare i consumi e a maggio, alla vigilia delle elezioni europee, Renzi mette in busta paga una riduzione fiscale di 80 euro per i lavoratori dipendenti fino a 26.000 euro di reddito lordo, esclusi però i 16 milioni di pensionati. Dovrebbe essere una frustrata per i consumi, e a giugno i consumi reagiscono: vendite al dettaglio + 0% su maggio, e – 2,6% su giugno 2013. Alla frustrata di Renzi l’economia risponde con uno sberleffo. Il fatto è che un simile flop non era per nulla imprevedibile se si pone mente alle cifre che abbiamo fornito in precedenza per indicare i salassi subiti dai lavoratori negli ultimi anni: si è trattato di un’emorragia enorme, solo la perdita del fiscal drag indicato dalla CISL per gli anni 2007-2013 è superiore al bonus fiscale messo in busta paga da Renzi, ed è facile supporre che gli 80 euro siano finiti per pagare rate e debiti pregressi, che si sono accumulati sulla schiena dei nostri esausti lavoratoriconsumatori. Bisogna considerare poi che la devastazione dei redditi di lavoro, che è stata violentissima negli ultimi anni, viene molto da lontano e comincia con la politica di austerità posta in essere dal PCI di Berlinguer e di Napolitano fin dagli anni ’70 e condivisa o subita dalla CGIL112. Oggi ce la prendiamo con l’austerità della signora Merkel ma quella che ha imperversato in casa nostra per quarant’anni è ignorata, anzi viene lodata: basta aprire la TV e si scoprono autorevoli personaggi che esaltano l’attacco di Craxi alla scala mobile. La BRI, banca che ha tra i soci fondatori la Banca d’Italia, ha calcolato che dal 1983 all’inizio del nuovo millennio i lavoratori e i pensionati hanno perso 120 miliardi di euro l’anno di potere di acquisto113, in altre parole per restituire a lavoratori e pensionati il potere di acquisto che avevano nel 1983 bisognerebbe aggiungere 120 miliardi ai redditi di cui essi godevano intorno al 2005/2006, siccome però negli ultimi anni il saccheggio dei redditi di lavoro è continuato, bisognerebbe aggiungere ai salari e alle pensioni attuali qualcosa come 150 miliardi l’anno. Si tratta di una cifra semplicemente enorme ed impensabile: è fin troppo chiaro che se questo avvenisse il sistema non reggerebbe, ma il fatto è che il sistema non può reggere neanche con questi livelli di consumo assolutamente stagnanti o calanti. In altre parole quelli che per 40 anni hanno praticato una politica di austerità o di saccheggio selvaggio dei redditi dei lavoratori hanno creato una situazione insostenibile ed un problema insolubile, davanti al quale la mancetta di 80 euro mensili di Renzi ricorda il bambino che voleva svuotare l’Oceano col secchiello da spiaggia.

Non meno carente è la politica di Renzi sul tema del debito: sul “Corriere della sera” appare un articolo durissimo sulla totale latitanza del governo in materia di debito: dopo il 2015 ogni anno dovremo ridurre il nostro debito del 5% la parte eccedente il 60% del rapporto debito-PIL, ogni anno, in parole povere, dovremmo fare una manovra aggiuntiva di una cinquantina di miliardi l’anno assieme ovviamente alla manovra per azzerare il deficit corrente. Un’ipotesi assolutamente impensabile. L’articolo ha l’effetto di svegliare il governo, il sottosegretario Del Rio si fa intervistare dal giornale in esame e sostiene che il governo una politica ce l’ha anche se non si capisce quale sia. Il dibattito viene concluso dall’economista banchiere Bini Smaghi il quale osserva che ogni tentativo di ristrutturare il debito, svalutandolo nascostamente, sarebbe sgradito ai mercati che ci punirebbero pesantemente, non rimane altra strada da percorrere se non quella dell’alienazione del patrimonio pubblico114. Ora però vendere il patrimonio pubblico non è per nulla cosa facile, poiché in un momento di crisi economica è difficile trovare investitori disposti ad acquistare conventi, carceri e caserme smesse che poi dovrebbero essere ristrutturati in modo molto costoso perdestinazioni che non sono molto chiare soprattutto per la pesante crisi economica. Di recente poi, lo Stato ha messo in vendita 15 grandi immobili da cui conta di ricavare 11 milioni di euro (meno di 800 mila euro per ogni grande immobile)115, inezie.

In verità nel periodo 1999 – 2002 vennero venduti gioielli di famiglia di grande rilievo come quote di Enel e di Eni e si incassarono 120 miliardi di euro116, una cifra pari al 10% del PIL dell’Italia o a un quarto del PIL di un paese come l’Olanda nel 2002, ma il rapporto debito-Pil passò da 105, 4% del 2002 al 105,7% del 2005 per calare al 103,3 del 2007 anno da cui riprenderà a salire ininterrottamente. Il debito ha assorbito l’enorme sforzo di alienazioni compiuto senza nessun serio calo dello stesso, si è comportato come un enorme buco nero.

Perché? La risposta sta nel fatto che non puoi comprimere gli effetti se non comprimi le cause: il debito cresce perché l’economia, l’occupazione e i consumi ristagnano o calano. Se l’economia riprende il debito cala come avvenne negli USA dopo il 1945, per contro se l’economia va male il debito sale, se non altro per le spese a sostegno delle imprese in difficoltà e per il costo crescente degli ammortizzatori sociali117. Occorrerebbe quanto meno bloccare la crescita del debito che dal 2007 non rallenta: nel 2013 dopo la revisione dei criteri di valutazione del PIL decisa da Eurostat, il rapporto deficit-PIL è calato nel 2013 al 2,8% e il rapporto debito-PIL al 127,9%. Epperò subito dopo l’Eurostat, a fine ottobre ci gela, nel primo semestre del 2014 siamo già al 130,7% (media Eurozona 92,7%) e nel 2015 arriveremo al 133,8% con un trend impressionante. Senza intervenire sulle cause non cavi un ragno dal buco basti pensare che il costo degli ammortizzatori sociali è cresciuto enormemente, sicché l’INPS non può farvi fronte con i contributi dei lavoratori e si è dovuto ricorrere alla fiscalità generale (e quindi anche al debito) per 14,7 miliardi nel 2014118.

A questa autentica Caporetto del debito il governo risponde con un flebile belato (un belato toscano vien fatto di dire) poiché nella finanziaria 2015 è previsto un’entrata pari allo 0,7% del PIL per quell’anno e per gli anni a venire derivante dall’alienazione del patrimonio pubblico, se si tiene presente che il costo del debito nel 2013 è stato pari al 5,3% del PIL (una ottantina di miliardi) si otterrebbe solo tra 1/7 e 1/8 della cifra necessaria a pagare gli interessi: un belato dicevamo.

Ancora. Nel campo del lavoro viene varato con decreto il primo Jobs Act119, che il Ministro Poletti, in un’intervista, presenta come un intervento di sostegno alla diffusione dei contratti a tempo determinato, questo perché quello sembra essere il tipo di contratto che il mercato predilige120. Verissimo ma si tratta, in Italia come altrove, di una pessima forma di lavoro che mina lo sviluppo economico comprimendo pesantemente salari e consumi, in altre parole si sostiene la diffusione delle cellule cancerogene.

Il secondo Jobs Act sarebbe una legge delega dai contenuti ancora da determinare in larga misura121, ma che si muove comunque in una direzione ben precisa, sostenuta con durezza da Renzi, che va nel senso di ridurre l’incidenza e la tutela dell’art. 18. In realtà le riassunzioni sono un fenomeno ridottissimo: le cause in materia sono alcune centinaia su 160 mila vertenze di lavoro mentre nel 2011-12 i licenziamenti sono stati oltre 1,8 milioni (Istat)122, mentre si è visto che il datore di lavoro è liberissimo di assumere lavoratori precari o parziari. I famosi lacci che impediscono il licenziamento e che indurrebbero gli imprenditori a non assumere sono un’autentica invenzione padronale, stando almeno ai numeri, la tutela di cui all’art. 18 è economicamente marginale e trascurabile. Tuttavia essa può avere un’importanza politica notevole soprattutto in un momento di acuta crisi sociale quando liberarsi di un’attivista sindacale ingombrante può essere una scelta padronale utile (gli unici licenziamenti veramente vietati dall’art. 18 sono i licenziamenti politicamente discriminatori, spesso mascherati da licenziamenti con motivazioni economiche o disciplinari)123. Ritornare però all’epoca del padrone delle ferriere non crea occupazione, poiché non è certo l’art. 18 a produrre disoccupati, tanto è vero che la disoccupazione esplode in tanti paesi dagli USA alla Spagna che non hanno l’art. 18. Le pretese padronali sono del tutto ingiustificate e mascherano solo la voglia di ripristinare al 100% la situazione degli anni ’50, senza alcuna ricaduta positiva sulla disoccupazione che ha ben altre cause.

 

C) Il problema delle riforme specchietto per le allodole (cretine).

Il nuovo cancelliere fiorentino Matteo Renzi (il vecchio, si sa era Machiavelli) insiste nel tormentone delle riforme che sono necessarie perché l’Italia riparta, prima fra tutte la riforma della PA di cui da tempo immemorabile si dice peste e corna essendo la stessa fonte di sprechi e corruzione. In realtà stando ai dati oggi disponibili da noi la PA non costa in maniera spropositata: in Danimarca siamo al 19,2% del PIL (in termini di costo), in Svezia al 14,4% come in Finlandia, in Francia al 12,6%, in Spagna all’11,9%, in UK all’11,5% in Italia all’11,1%, si collocano al di sotto di noi l’Olanda (10%) e la Germania (7,9%)124. Potrebbe tuttavia osservarsi che il vero problema da noi, ed il vero costo, sta nel cattivo funzionamento della macchina burocratica per cui Renzi presenza un DL di 82 articoli e 71 pagine che dovrebbe risolvere il problema e su cui sono piovute critiche impietose: un provvedimenti elefantiaco (con buona pace della semplificazione legislativa) in cui c’è tutto il suo contrario in allegra confusione privo di documenti esplicativi di accompagnamento; decisivi sono i rilievi del prof. Ainis, costituzionalista, il quale osserva che l’Italia annega in decreti ed in leggi, nel campo degli appalti negli ultimi anni ne hanno fatte 6 con Renzi siamo a 7125, ciò significa che la PA è sommersa da indicazioni diverse e contraddittorie che si accavallano in breve tempo, nessuno potrebbe funzionare in simili condizioni. Eppure un tempo la PA ha funzionato, con costi e tensioni indubbie, ma ha funzionato, il miracolo economico è impensabile senza una macchina burocratica funzionante: un esempio per tutti, il piano autostradale, simbolo del miracolo economico, fondato sull’auto, che venne realizzato in 5 anni, con una PA che mise le ali ai piedi fornendo le autorizzazioni necessarie a tamburo battente. Anche allora la PA era pletorica e clientelare ma la gonfiatura del terziario pubblico è un fenomeno non solo italiano ma mondiale126.

Oggi i costi del malfunzionamento sono divenuti insopportabili a causa della crisi e al posto del miracolo rappresentato dal piano autostradale abbiamo la ricostruzione post-terremoto a Napoli e l’incredibile farsa del raddoppio della Salerno-Reggio Calabria; è evidente che l’apparato burocratico è largamente degenerato rispetto agli anni del miracolo economico, e c’è da chiedersi quali ne siano le ragioni. A tal proposito è da ricordare che la PA è un esecutore non certo passivo delle direttive del governo, spesso può anche ostacolarle, ma non può inventarsi delle direttive che non esistono. E il problema è proprio questo che, finito il miracolo economico italiano, di governi in grado di dare direttive come negli anni ’50 e ’60 non se ne sono più visti, dalla crisi del 1973-75 i governi galleggiano su un’economia sempre più incontrollabile, l’unica politica che è stata praticata negli anni ’80 è stata quella della dilatazione del debito pubblico, poi esploso all’inizio degli anni ’90, per cui c’è stata un’accentuazione sempre più violenta della politica di austerità iniziata nella seconda metà degli anni ’70. Nessun governo e nessun Parlamento ha espresso una capacità progettuale e l’Italia è andata lentamente declinando127. Senza direttive strategiche la PA si è adattata a lavorare servendo un governo e un Parlamento del tutto privi di prospettive politiche, si è adattata ad una situazione di declino in cui, dilagando la corruzione, ha finito con l’essere partecipe di essa. Il problema però è a monte nella mancanza di direzione politica del paese , un paese che affonda ha una PA che affonda con esso ingloriosamente. Ciò vale anche per altri aspetti come la riforma dell’istruzione e dell’università, per quanto ho vissuto nell’università (oltre 40 anni) ho sempre sentito che l’università non preparava i giovani all’inserimento nel mercato del lavoro, una riforma dell’istruzione che fosse vera doveva colmare questa carenza. Era un autentico tormentone ed era un’autentica assurdità: il mercato del lavoro infatti tende a restringersi dagli anni ’70 e tende a produrre sempre minore richiesta di lavoro qualificato come si è visto. Adattarsi a questo mercato del lavoro è impossibile e l’università è in crisi perché è in crisi l’economia nel suo complesso e la società che affonda le radici in questa economia. Per uscire da questo stagno ci vorrebbe un progetto riformista audace, che però non è praticabile per cui l’università diventa, come abbiamo rilevato una fabbrica per disoccupati o nella “migliore” della ipotesi un’università elitaria per produrre i pochi quadri dirigenti di cui il sistema ha bisogno. In questo contesto prendersela con i ritardi della burocrazia è ridicolo, con il che non voglio negare che esista corruzione, in un sistema decadente e privo di prospettive è normale che ciò avvenga, ma ancora una volta l’inefficienza e la corruzione sono molto più effetti che cause. Ciò peraltro non avviene solo nel campo della amministrazione straordinaria (politica economica, politica dell’istruzione o della ricerca etc.) ma anche nel campo dell’attività più banalmente ordinaria come può essere quella della riscossione dei crediti. Qui come si è visto, la macchina statale è carente in modo mostruoso e la sua inefficienza è ancor più evidente se compariamo la situazione italiana con quella di altri paesi: da noi i crediti dello Stato vengono esatti in ragione del 10,4% (appunto per questo c’è una massa enorme di crediti inesatti che poi diventano inesigibili) contro il 91% dell’UK, l’87% della Francia, l’81% della Spagna, il 44% dell’Albania ed il 31% della Grecia128, sorge il sospetto che anche l’Uganda sia messa meglio di noi. Si dirà che la colpa è della PA ma sarebbe ingiusto poiché ci troviamo davanti ad una politica che da tempo immemorabile strizza l’occhio al grande popolo delle partite IVA da cui deriva una massa enorme di evasione fiscale. Tale massa si concentra per la maggior parte in poche mani (abbiamo visto che solo 120.409 debitori devono allo Stato qualcosa come 452 miliardi) epperò la grande massa dei piccoli imprenditori e lavoratori autonomi rappresenta una forza enorme dal punto di vista elettorale che ha pesato nella politica italiana negli anni della Democrazia Cristiana129 e pesa tuttora130; per parte mia l’anno scorso ho avuto occasione di rilevare come il partito degli evasori sia stato l’asse portante dei successi elettorali di Berlusconi131. Quanto a Renzi, nella finanziaria 2015 ha presentato come obiettivo il recupero di 3,8 miliardi di tasse evase su un’evasione che abbiamo visto oscillare tra i 120-250 miliardi l’anno, un simile obiettivo è una dichiarazione di resa al partito degli evasori e un invito implicito ad evadere il fisco. Recentemente l’ex Ministro (nonché viceministro) Visco (tra i pochi che abbiano tentato di fare qualcosa contro l’evasione) ha dichiarato al “Fatto Quotidiano” che chi volesse condurre la lotta all’evasione fiscale in Italia metterebbe a rischio 10 milioni di voti, se la memoria non m’inganna, una ventina di anni or sono l’ex Ministro delle finanze, il socialista Formica, rilasciò analoga dichiarazione. Ciò premesso chiedere alla PA di fare la lotta a fondo contro l’evasione fiscale è asserzione di una ingenuità estrema. Questa lotta e il conseguente recupero crediti nessun governo e nessun Parlamento vuole farla in Italia. È rilevante, a tal proposito, che mentre si parla tanto di riforma del processo, l’unica vera riforma che potrebbe fruttare soldi allo Stato in poco tempo viene ignorata e cioè la riforma del processo tributario con la modifica delle leggi sulla prescrizione fiscale e l’allargamento dei casi in cui è possibile ottenere il sequestro conservativo, l’unico mezzo per impedire che i beni degli evasori emigrino all’estero in sicuri paradisi fiscali, largamente presenti anche all’interno della UE132.

Ulteriore riforma che dovrebbe far ripartire l’Italia è quella del Senato che molti sostengono essere un inutile doppione della Camera, che rallenta i lavori parlamentari. In realtà di questa riforma non si era sentito nessun bisogno finché l’economia italiana si è sviluppata, adesso che tutto è fermo occorre trovare dei capri espiatori che spieghino il declino del paese e uno di questi è il povero Senato, che non ha nessuna colpa della fine del miracolo economico italiano né della crisi mondiale. Quando l’economia funzionava il Parlamento italiano col suo bicameralismo perfetto ha funzionato e sono state prodotte una serie di riforme epocali che possono piacere o no ma che erano importanti, la riforma delle PP.SS.: la nuova politica meridionalista che ha permesso il passaggio del Mezzogiorno dal sottosviluppo stagnante al sottosviluppo dinamico133, la scelta del mercato comune europeo, lo statuto dei lavoratori, il processo del lavoro, il nuovo diritto di famiglia, il piano autostradale, l’ordinamento regionale, l’istituzione dei TAR, il servizio sanitario nazionale gratuito per tutti, etc. L’Italia è stata governata non malgrado il bicameralismo ma attraverso il bicameralismo, anche durante legislature difficilissime come fu quella del 1953-58 in cui il Parlamento nato dalle elezioni del ’53 sembrava ingovernabile, ma fu governato dalla DC spostandosi leggermente ora a destra ed ora a sinistra, sicché in quegli anni si completò la ricostruzione, si misero le basi per il miracolo economico, e si compì la scelta del MEC. Inoltre il bicameralismo non è solo italiano, in USA il Congresso ha due rami che hanno poteri se non del tutto identici largamente simili soprattutto per quel che riguarda le leggi economico-finanziarie, tanto è vero che è normale, in occasione delle elezioni di mezzo termine (un vero “tagliando” sull’operato dell’Amministrazione a metà mandato), che il presidente perda il controllo di uno dei due rami del Congresso (con le ultime elezioni Obama ha perso il controllo di entrambi i rami del Congresso) il che lo costringe a compromessi defatiganti con l’opposizione, nessuno però in USA parla di eliminare uno dei rami del Congresso o di eliminare le elezioni di mezzo termine, un buon liberale sa che nelle nostre democrazie il potere va diviso e devono esistere meccanismi di controllo. La situazione italiana dunque non è per nulla anomala; anomalo e comunque gravissimo è il fatto che non ci sia più da decenni in Italia una direzione politica degna di questo nome e che si cerchi di nascondere la propria impotenza davanti ad una realtà ingovernabile inventandosi falsi obiettivi e specchietti per le allodole.

Un’ultima considerazione in tema di riforme deve riguardare la legge elettorale. Occorre una legge che permetta di governare, la vecchia legge il cosiddetto “porcellum”, era fatta per non governare come ormai ammettono tutti, a cominciare dal relatore della legge stessa. Ma non è affatto vero che per governare occorra una legge maggioritaria e che senza di essa non si governi. La governabilità la producono i programmi politici e non le leggi: l’Italia è stata governata col bicameralismo ma anche con una legge proporzionale ed è stata governata in modo incomparabilmente più efficiente negli anni che vanno dal 1945 al 1970 che non adesso, in quegli anni eravamo il secondo paese al mondo per sviluppo e siamo diventati una grande potenza industriale; ci fu il tentativo di imporre un sistema maggioritario nel 1953, ma quel tentativo fallì e proprio la difficilissima legislatura 1953-1958 dimostrò che se hai un programma politico adeguato alla realtà puoi governare anche con una legge proporzionale. Se non hai un simile programma una legge maggioritaria permetterebbe solo a un partito del 40% dell’elettorato votante (che ormai è al 70% o meno) di rimanere attaccato alle poltrone di governo anche se non ha nessuna capacità di esprimere una politica positiva. Chiamare questo governabilità mi pare ridicolo, io la chiamerei piuttosto stagnazione politica nell’ambito di una crisi strutturale irrisolvibile.

 

D) La legge di bilancio 2015.

Il giudizio negativo su Renzi può essere ulteriormente ribadito sull’analisi di bilancio che prevede: a) conferma del bonus di 80 euro di sgravi per lavoratori dipendenti (9,5 miliardi); b) sgravio IRAP per 6,5 miliardi; c) TFR in busta paga (scelta volontaria); d) taglio spese regionali per 4 miliardi, mentre i Comuni dovrebbero risparmiare 2 miliardi e le provincie 1; e) tasse sulla previdenza integrativa (3,6 miliardi); f) rifinanziamento degli ammortizzatori sociali e fondo per la decontribuzione dei nuovi assunti a tempo indeterminato (3,4 miliardi in totale)134.

La più grande operazione di detassazione nella storia della Repubblica si dice, ma in realtà Renzi si è già ripreso il bonus di 80 euro concesso a maggio ai lavoratori dipendenti. Infatti sulla previdenza integrativa grava un peso di 3,6 miliardi di nuove tasse mentre il TFR in busta paga dovrebbe essere tassato con l’aliquota ordinaria e non con quella agevolata e questo permetterebbe un ulteriore introito di 2,2 miliardi135, infine 3,4 miliardi per la decontribuzione e gli ammortizzatori sociali cadranno sulla fiscalità generale che già sborsa 14,7 miliardi per sopperire ai vuoti dell’INPS. Sommando queste cifre arriviamo a 9,2 miliardi di nuove tasse su lavoratori e contribuenti che praticamente assorbono il bonus di 9,5 miliardi concesso da Renzi nel maggio 2014, questo indipendentemente da eventuali nuove tasse locali che regioni ed enti locali potrebbero mettere per sopperire ai tagli subiti. Le cose sono andate chiaramente in questo senso: Renzi e il tuo team si attendevano una ripresa dell’economia grazie alla “frustrata” degli 80 euro, questa ripresa avrebbe permesso l’autofinanziamento dello sgravio concesso poiché si auspicava un miglioramento delle entrate fiscali. Siccome al posto della frustrata c’è stato, come si è visto, lo sberleffo della realtà, Renzi e il suo governo si sono trovati scoperti degli 80 euro e hanno dovuto recuperarli nascostamente. Rimane solo la riduzione dell’IRAP che andrà a sostegno del popolo delle partite IVA che già evade largamente il fisco e che avrà un premio per l’evasione di 50 miliardi di IVA e IRAP stimato dalla Corte dei conti per il 2011. Il governo si attende da questo ennesimo regalo una risposta positiva nel senso di assunzioni di lavoratori dal momento che i costi del lavoro vengono detassati, con l’aggiunta della decontribuzione per i nuovi assunti a tempo indeterminato. Il guaio è che gli imprenditori, grazie alla tecnologia, possono aumentare la produzione senza compiere assunzioni, ciò che sta avvenendo in Italia e a livello mondiale. La ricetta è una ricetta fallimentare e usurata già sperimentata in Italia nel 1977 con la legge sull’occupazione giovanile, e fallita, replicata ancora da Letta con il bonus per l’assunzione giovani anch’esso fallito136, e riproposta adesso da Renzi con la decontribuzione temporanea per l’assunzione di lavoratori a tempo indeterminato. Non avendo altre idee si replicano fallimenti sperando forse nell’intervento della Madonna di Lourdes. La cosa è ancor più evidente perché il costo del lavoro da tempo non è più un problema in Italia, se ne parlò accanitamente negli anni ’60 e ’70 e chi scrive contestò a quell’epoca le tesi correnti137, ma adesso i dati forniti da Eurostat provano che il costo del lavoro in Italia è sotto la media europea: 28,1 euro di costo orario in Italia contro una media europea di 28,4 euro, 31,3 per la Germania, 34,3 per la Francia e 39 euro per il Belgio. Il vero problema per le imprese italiane è la competitività fondata sulla produttività del lavoro ma premere sull’acceleratore in quella direzione porta a produrre di più con meno addetti, cioè verso imprese sempre più labour saving, mentre misure come quelle prospettate spingono nella direzione di imprese sempre più labour intensive e poco competitive. Non a caso il sistema delle imprese capitalistiche ha ignorato questo tipo di sollecitazione che venivano dal sistema politico.

Quanto al TFR in busta paga è assolutamente sconveniente per i lavoratori che pagherebbero più tasse in cambio di una pensione più leggera, lo ha rilevato a fine anno anche la Banca d’Italia attraverso i propri dirigenti138.

 

E) Un nuovo salvatore della patria in lista di attesa. Le ricette (indigeste) di Corrado Passera.

Pochi sono disposti a credere che Renzi possa durare a lungo e nuovi salvatori della patria si scaldano a bordo campo tra essi Corrado Passera che in un libro dal titolo volutamente sgrammaticato, come un tempo una famosa canzone di Don Backy, ha proposto un programma del presidente che, ovviamente, sarebbe lui per chi non l’avesse capito139.

Il banchiere, aspirante salvatore della patria, esordisce dicendo che occorre una terapia shock per salvare l’Italia: mobilitare centinaia di miliardi e non qualche miliardino qua e là come nel decreto sblocca Italia di Renzi140. Verissimo, ma da dove vengono i miliardi per sostenere investimenti e consumi? Occorrerebbe, infatti, mettere nelle tasche degli italiani due mensilità in più di salario o di stipendio l’anno. La prima mensilità potrebbe derivare da un aumento del carico lavorativo degli attuali occupati volto a produrre beni destinati all’esportazione con un carico aggiuntivo di 80 ore lavorative l’anno141. questo quando in USA si lavorano 34 ore in media settimanale e paesi come la Cina, il Giappone e al Germania che hanno puntato tutto o quasi sull’export sono in evidente difficoltà142.

Produrre di più quando il mercato mondiale non tira significa produrre beni che rimarranno invenduti.

L’altra mensilità dovrebbe venire dall’anticipo del TFR in busta paga, ipotesi che Renzi con abilità levantina gli ha scippato. Il fatto è che una mensilità in più pagata per giunta in modo assai salato dai lavoratori, non cambia granché dopo la devastazione che hanno subito i redditi di lavoro negli ultimi 40 anni, il flop del bonus di 80 euro è sotto gli occhi di tutti e se gli 80 euro diventassero 160 non cambierebbe granché: non puoi tagliare le gambe a un mezzofondista e poi pretendere che riprenda a correre perché gli restituisci le dita di un piede o di entrambi i piedi; la devastazione è stata enorme e si protrae da oltre 40 anni per invertire la tendenza ci vogliono cifre enormi come abbiamo visto, non può affrontare il cancro al cervello con l’aspirina. Inoltre un’inchiesta della Confesercenti ha evidenziato che solo il 18% vorrebbe il TFR in busta paga mentre il 15% non ha deciso e il 67% lo lascerebbe in azienda, tale sondaggio appare quanto mai verosimile considerando le molte controindicazioni (rilevate anche dalla Banca d’Italia) cui va incontro una simile misura.

Bisognerebbe inoltre, sostiene Passera, finirla con l’ideologia del posto fisso143, che è superato dalla realtà, il che è vero ma nel senso opposto a quello che sostiene Passera, è vero nel senso che la maggior parte dei nuovi assunti il posto fisso non ce l’ha ma questo non esprime la forza del capitalismo attuale, ma, come abbiamo rilevato, la sua debolezza e la sua incapacità a realizzare un rilancio di consumi senza il quale sprofonderà (e anzi sta già sprofondando) nelle sabbie mobili di una depressione invincibile.

Infine 400 miliardi, che secondo Passera dovrebbero servire a rilanciare l’economia, e qui il nostro banchiere ammette che bisogna dare un colpo mortale all’evasione fiscale144. Ora una persona come Passera dovrebbe ben conoscere per motivi professionali il fatto che l’evasione fiscale è opera di “lor signori” e non di operai, pensionati e cassintegrati145, inoltre come ha ammesso un dirigente bancario, Hervé Feliciani, le banche cooperano allegramente all’evasione fiscale o al riciclaggio di denaro sporco, l’espressione “Banksters” è diventata di uso corrente ed è rimbalzata anche sulle colonne del giornale della Confindustria. Un uomo informato come Passera deve conoscere certi meccanismi (anche se io sono il primo a credere che non li pratichi) e quindi sarebbe professionalmente la persona più indicata per combatterli, mi meraviglio allora che nel suo libro non sia indicato alcun mezzo concreto per battere l’evasione fiscale e per mettere in condizione il governo di riscuotere gli enormi crediti che vanta verso signori che gli devono milioni di euro a testa e che se la spassano allegramente mentre le finanze statali affondano. Fin quando Passera non indicherà cosa fare concretamente il suo auspicio di lotta all’evasione fiscale rimane assolutamente platonico. Un’ultima considerazione infine: abbiamo visto che il problema dei problemi è il carattere sempre più labour saving del sistema economico italiano e mondiale, ciò ci sta portando in fondo ad un burrone. Che propone Passera su questo punto? Assolutamente nulla.

Con queste premesse temo che l’aspirante salvatore della patria rimarrà a bordo campo a tempo indeterminato.

 

5) Cina e Giappone. Nulla di nuovo rispetto al passato

Ad inizio anno la Banca Mondiale pronostica un imminente sorpasso della Cina sugli USA, ciò perché il PIL cinese sarebbe sottostimato, considerando infatti il potere di acquisto reale la Cina sarebbe molto vicina agli USA. Il primo a dire di non essere d’accordo con questa valutazione è stato il governo cinese, forse preoccupato che questa valutazione preludesse alla richiesta di nuove responsabilità mondiali per il paese, responsabilità che la Cina non vuole assumersi; in effetti il distacco tra il PIL globale cinese e quello americano è elevato (in termini quantitativi, per la qualità non esiste paragone) e ancor più lo è per quel che concerne il PIL pro-capite dove la Cina è appena al 99° posto nel mondo (127° l’India)146; inoltre è stato rilevato di recente che la produttività media in Cina è il 5% di quella dei paesi ricchi147. Ancora: fare un paniere comune dei beni tra paesi ricchi e poveri è solo un’esercitazione che lascia il tempo che trova, infatti una volta investita una quota relativamente elevata del proprio reddito in riso, all’operaio ed al contadino cinese rimarrà assai poco, per cui il basso livello del fitto di una limousine o di una retribuzione per una baby sitter o del costo di un pasto al ristorante sarà del tutto irrilevante perché questi beni sono irraggiungibili per l’operaio e il contadino cinese; si è visto inoltre che per la maggior parte dei consumatori cinesi il sogno della vita non è l’acquisto di un’auto o di una moto ma di una bicicletta148.

La Cina rimane, dunque, il primo dei paesi sottosviluppati con un mercato che, nei settori trainanti, è dominato dalle IM straniere, così il governo cinese si è espresso di recente contro le grandi industrie delle auto straniere la cui colpa è quella di controllare il 76% del mercato cinese contro il 27% delle imprese locali149. Lo sviluppo cinese è ai livelli di guardia vicino al 7% che per la Cina, lo si è visto, è ristagno se non recessione, infatti nel terzo trimestre del 2014 siamo al 7,3%, vicino a livello critico del 7,2% sotto il quale la Cina non sarebbe in grado di assorbire i dieci milioni di nuovi lavoratori che si presentano ogni anno sul mercato del lavoro150. In realtà, però, già adesso malgrado lo sviluppo a due cifre di qualche anno fa, la disoccupazione ufficiale in Cina è cresciuta dal 3,1% del 1999 (2,8% media del periodo 1990-98 ) al 4,1% del 2011 (4% media 20002011)151, il fatto è che se utilizzi la logica del capitale (produrre di più con meno addetti) puoi fare sfasci occupazionali anche se operi con tecnologie obsolete ma in un paese sovrappopolato come la Cina e l’India: in Europa, infatti, il passaggio al telaio meccanico o ad altre tecniche che oggi ci sembrano di archeologia industriale, provocò pesanti fenomeni di disoccupazione tecnologica152, una cosa è lavorare con tecnologie oggi superate altra cosa è lavorare solo con il martello, lo scalpello, la zappa o le nude mani.

La situazione della Cina è in realtà drammatica i rampolli della classe dirigente fuggono verso gli USA o il Canada portandosi dietro i soldi153, prima che la caldaia scoppi. Il governo è terrorizzato e davanti alla rivolta di Hong Kong o allo sciopero degli operai calzaturieri, non usa i metodi repressivi del 1989, ma oscilla tra aperture, minacce, provocazioni, arresti e rilascio degli arrestati; la campagna contro la corruzione, che poteva essere tollerata (come costo dello sviluppo) quando si cresceva a due cifre, è diventata qualcosa di reale, sono sotto inchiesta 182.000 funzionari (spesso di grado elevato) contro i soli 10.000 degli anni precedenti, mentre esponenti dell’establishment cinese tuonano contro i corrotti dicendo “vi perseguiteremo anche da morti”154. Il fatto è che un paese in cui si verificano (secondo fonti ufficiose ma autorevoli) tra 100-180.000 rivolte all’anno, con un PIL che ormai ristagna, non può permettersi più il lusso di una corruzione che è un costo troppo elevato per uno sviluppo che si fa asfittico e al tempo stesso è una sfida per la rabbia popolare che cresce.

Per uscire dal ristagno dell’economia occorrerebbe rilanciare i consumi che nel 2014 sono responsabili per la prima volta del 48,5% della crescita cinese (3,6-3,7 punti di PIL), contro il 41% degli investimenti155, ma in realtà questo incremento è solo un rimbalzino in fondo al baratro che non riesce a produrre una crescita accettabile per quanto si è detto. La tabella che segue illustra ampiamente i caratteri strutturali dell’economia e del miracolo cinese per ciò che attiene il rapporto tra crescita del PIL, investimenti, consumi delle famiglie ed esportazioni156.

Tabella n. 6 La dinamica dell’economia cinese

AnniCrescita PILInvest. % PILConsumi fam. % PILEsport. % PIL
2002 9,1% 40,2% 46,3% 28,9%
2003 10% 44% 40% 34%
2004 10,1% 44,2% 41,4% 38,1%
2005 11,3% 41,5% 38% 36,7%
2006 12,7% 40,9% 36,4% 39,7%
2008 9,6% 44% 34% 37%
2009 9,2% 48% 34% 27%
2010 10,4% 48% 34% 30%
2011 9,3% 48% 35% 31%

Dopo il 2011 la tendenza a deprimere i consumi a vantaggio degli investimenti orientati verso l’esportazione è continuata infatti:

“… Per decenni si è retta (l’economia cinese A. Carlo) sulle esportazioni spinte dal basso costo di lavoro e sugli investimenti enormi in infrastrutture e sviluppo dell’edilizia. Un sistema oggi insostenibile, la fabbrica del mondo soffre di un eccesso di capacità produttiva, il settore immobiliare, che conta per circa ¼ del PIL se si considerano le industrie dell’acciaio, del cemento e delle finiture, fa temere la bolla. Ci sono 10 milioni di case invendute”157.

Da anni si dice che la Cina deve cambiare il suo modello di sviluppo orientandosi verso i consumi interni e da anni questo non avviene, poiché, lo ripeto, quello del 2014 è solo un modestissimo ribalzino, la Cina è abissalmente lontana dai livelli di consumo privato mondiale (61-62% del PIL) e per arrivare a livelli decenti in grado di rilanciare uno sviluppo vicino a quello del passato, la Cina dovrebbe superare due ostacoli enormi la cui presenza evidenzio da anni. Il primo è il riconoscimento pieno delle libertà sindacali e del diritto di sciopero, incompatibili con la natura autoritaria dell’attuale regime, il secondo è dato dalla debolezza e della classe operaia e dei lavoratori in genere sul mercato del lavoro: la disoccupazione ufficiale esiste in Cina ed è crescente ma è enorme il peso della sottoccupazione, masse enormi di contadini che emigrano dalla campagna alla città per trovare salari appena migliori rispetto alla situazione miserabile delle campagne. Si tratta di un tipico mercato in cui la posizione dominante è quella del compratore di forza lavoro. In una situazione simile, all’interno del sistema capitalistico, contare su un’impennata dei salari e dei redditi di lavoro è credere a Babbo Natale158. Pochi rilievi sull’altro grande colosso asiatico, il Giappone che è nella stessa situazione dell’anno scorso: ristagno dell’economia, consumi interni depressi, disoccupazione bassa solo perché le statistiche mentono spudoratamente, l’asse dell’economia centrato sulle esportazioni in un momento in cui il mercato mondiale langue per la depressione mondiale in atto. Una cosa importante, tuttavia, si è verificata nel 2014, il governo ha elevato il livello dell’IVA dal 5% all’8% a decorrere dall’aprile 2014; è accaduto allora che nel primo trimestre i consumatori si sono precipitati a fare scorte prima che i prezzi salissero sicché il PIL è cresciuto improvvisamente, poi nel secondo trimestre abbiamo avuto un crollo più elevato dell’incremento precedente e appena inferiore al crollo record che subì l’economia giapponese in occasione della catastrofe del 2011. In altre parole il consumatore giapponese ha rotto il salvadanaio per fare un po’ di scorte e poi è calato il buio pesto; non solo ma il governatore della banca giapponese ha osservato che a causa dell’aumento dell’IVA siamo passati da una deflazione moderata di pochi decimali di punto l’anno a una impennata dei prezzi del 3,6% (base annua) nel giugno del 2014159. Ultima notizia mentre chiudo questo lavoro: il PIL giapponese cala per il secondo trimestre consecutivo (luglio-settembre 1,6% su base annua), è di nuovo recessione tecnica.

 

6) A proposito di una inconsistente ideologia: la decrescita serena

A conclusione di questo lavoro mi sembra opportuno trattare il problema della “decrescita serena”, su cui esistono molti equivoci alimentati spesso dalle oscillazioni della teoria in questione160. Innanzitutto Latouche e il suo team negano ogni rapporto con i sostenitori della tesi dello sviluppo sostenibile ed ecocompatibile, che sarebbero tecnocrati del capitalismo che propongono un riformismo solo apparente161, epperò essi negano di volere un calo della produzione poiché chiaramente parlano di uno sviluppo diverso che metta in primo piano le esigenze collettive e soddisfi i bisogni primari delle popolazioni partendo innanzitutto dal lavoro. Non si tratta, quindi, di tornare alle candele chiudendo le fabbriche, ma di innescare uno sviluppo centrato sui bisogni sociali. Qui, però, le critiche si fanno molto più stringenti di un semplice rilievo linguistico poiché cosa sia questo sviluppo non è detto con chiarezza, si sa solo che la società della decrescita è incompatibile con il capitalismo, infatti: “La nostra concezione della società della decrescita non è né un impossibile ritorno all’indietro, né un compromesso con il capitalismo, è un superamento (possibilmente senza eccessivi traumi) della modernità (…) La decrescita va necessariamente contro il capitalismo”162.

Niente società delle candele e niente capitalismo. Questo andrebbe bene se non venisse proposto un programma concreto di instaurazione della società desiderata in cui si vede chiaramente che in tale società sopravvivono le strutture portanti del capitalismo: ci sarebbero infatti le IM con i loro profitti (ovviamente da tassare), la Borsa e la finanza con le transazioni di borsa (ovviamente da tassare), i grandi patrimoni (ovviamente da tassare) e sinanche le scorie nucleari e le emissioni di anidride carbonica (ovviamente da tassare). Il capitalismo con le sue strutture caratterizzanti rimane ancorché tassato e si noti che sinanche l’anidride carbonica e le scorie nucleari non vanno impedite ma tassate. A queste strutture che sono quelle del capitalismo si chiede di funzionare in modo non capitalistico, realizzando il fine del lavoro per tutti e quindi lo sviluppo tecnologico che determina l’aumento della produttività non dovrebbe tradursi in licenziamenti tecnologici ma in riduzione dell’orario per tutti a parità di salario163, in altre parole si chiede al capitalismo di funzionare in modo anticapitalistico. Non è la prima volta che questo accade alla fine degli anni ’70 una commissione di economisti europei presieduta dal belga Maldague varò un progetto di riforma molto più radicale del progetto qui prospettato, anch’esso però andava nel senso di chiedere alle strutture del capitalismo di funzionare in modo anticapitalistico. Lo scandalo tra gli eurocrati di Bruxelles fu grande, anche perché gli economisti in questione non erano dei radicali ma più dei riformisti moderati, e il fatto che essi rivalutassero anche delle tematiche maoiste (la rivalutazione del lavoro manuale e della sua retribuzione) destò grande impressione per cui si cercò di nascondere il rapporto in fondo ad un cassetto, da dove, tuttavia, una mano misteriosa lo prese e lo pubblicò permettendo a me di farne la critica cui ho prima accennato164.

C’è , però, un’altra critica non meno radicale da fare a Latouche e ai suoi seguaci, si sostiene infatti che la lotta di classe è finita e che le classi dominanti hanno vinto irreversibilmente165. Se questo fosse vero la partita sarebbe chiusa: nessun sistema crolla solo per le sue contraddizioni strutturali, ma perché essi hanno innescato tensioni e movimenti sociali incontrollabili per il sistema: la crisi della monarchia assoluta francese e delle finanze pubbliche, sbocca nella presa della Bastiglia; il dato fondamentale è sempre una crisi strutturale, ma essa deve tradursi in azione contro il sistema, se non c’è quest’azione il sistema non cade per l’intervento dello Spirito Santo. Ora è ben vero che sinora le esplosioni sociali che si sono verificate sono state recuperate, represse o sono rifluite epperò il panorama degli ultimi anni mostra un susseguirsi continuo di esplosioni sociali che non ha precedenti nei 20 anni della stabilizzazione e cioè il periodo 19802000, che segue alla esplosione delle lotte sociali negli anni ’60 e ’70. Il movimento degli indignados, occupy Wall Street, le primavere arabe, le manifestazioni della borghesia israeliana impoverita, la ribellione delle città inglesi nel 2011, quella della banlieu parigina, la guerriglia in India, le 100- 180.000 rivolte annue in Cina, i movimenti ecologisti, la ripresa del conflitto anche a livello operaio, offrono un quadro tutt’altro che tranquillizzante per il potere. Nessun sistema può sopravvivere con una politica esclusivamente repressiva, occorre che i problemi che generano le rivolte siano affrontati, altrimenti si riprodurranno periodicamente e diventerà sempre più difficile controllarli e reprimerli. Ciò perché nel nostro sistema (ma considerazioni analoghe possono farsi anche per i sistemi preesistenti) il potere dei gruppi sociali dominanti si fonda su due pilastri e cioè sui meccanismi di formazione del consenso e su quelli repressivi166. Entrambi questi meccanismi tuttavia, esigono risorse: la politica di alleanze con i ceti o le classi medie fatta dal capitalismo esige la concessione di privilegi a questi gruppi sociali, che hanno un loro indubbio costo e che servono a distinguere il loro ruolo da quello della classe operaia167; lo stesso discorso vale per quel che attiene i meccanismi repressivi che costano e non poco, ora la depressione mondiale in atto rende sempre più difficile procacciarsi le risorse necessarie a questi due tipi di meccanismi, e questo indebolisce le possibilità di controllo della classe dominante; il riproporsi continuo di ribellioni e di conflitti non è detto che si traduca nella loro sconfitta e nel loro riflusso, la difficoltà crescente a reperire le risorse per sostenere tali meccanismi si tradurrà in difficoltà crescenti da parte dei gruppi sociali dominanti nel realizzare un controllo efficace e stabile della ribellione sociale. Che le cose si pongano in questi termini ci sembra indubbio: i tagli crescenti allo Stato sociale stanno pesantemente mettendo in discussione l’alleanza con i ceti medi spinti verso una situazione per molti versi simile a quella della classe operaia. Lo stesso discorso vale per i meccanismi di repressione sia esterni che interni. Qualche anno fa ho rilevato che il generale americano McChrystal venne giubilato durante la campagna in Afghanistan perché sostenne la teoria della controguerriglia, secondo la quale gli USA non dovevano limitarsi a gettare bombe ma dovevano costruire scuole ed ospedali in modo da creare consenso sociale alla loro azione e causare un movimento popolare di controguerriglia168; è appena il caso di notare che se costruisci scuole e ospedali devi poi presidiarli altrimenti i talebani tornano e li distruggono, si tratta cioè di una proposta estremamente dispendiosa dal punto di vista economico e che un paese indebitato come gli USA non può sopportare.

Lo stesso discorso vale più in generale per gli interventi fatti in Iraq ed in Afghanistan, interventi cosiddetti leggeri cioè con 120-150.000 soldati, lontanissimi dai 500.000 e più soldati inviati in Vietnam, ora in una situazione di guerriglia diffusa 120-150.000 soldati non bastano a controllare il territorio, servono a controllare le zone chiave e le città principali, più che occupanti si è degli assediati in un ambiente ostile. Si tratta di una strategia chiaramente perdente ma gli USA non possono permettersi di più. Una conferma ulteriore di ciò è data dall’andamento recente della spese militare: le spese militari americani calano dai 696,6 miliardi del 2010 a 645,7 del 2012169; nel 2011 il Ministro della difesa americano dell’epoca (Leon Panetta) ha asserito che 450 miliardi di tagli programmati per la spesa militare dei prossimi anni saranno governabili a patto di non andare oltre quella cifra170. In Francia la spesa militare è di 60,7 miliardi di dollari nel 2007 contro i 48,1 del 2012 (52 nel 2010), in Germania 40,4 miliardi nel 2012 contro i 42,1 del 2007 (44,1 nel 2010), in Italia 23,6 miliardi nel 2012 contro 37,8 nel 2007 (21,9 nel 2010); leggermente diversa la situazione nell’ UK: 64,1 miliardi nel 2012 contro 63,3 del 2007 e 57,8 nel 2010.

La tendenza, con qualche eccezione, è generale171. Ed essa riguarda anche la sicurezza interna: in USA la crisi fiscale che colpisce le varie articolazioni dello Stato ha portato a licenziamenti e riduzioni del personale non solo tra i dipendenti civili ma anche per i poliziotti, a cominciare dalla ricchissima e florida California172. Passando dall’altro lato dell’Oceano in Inghilterra quando scoppia (nel 2011) la rivolta dei quartieri periferici di Londra, che poi si estende ad altre città, si scopre che l’organico della polizia londinese, assolutamente inadeguato a fronteggiare la rivolta, è formato da appena 2500 elementi, si tenga presente che Londra è una città con la popolazione dell’Olanda173. In Italia nel corso del 2014 la polizia minaccia lo sciopero a causa del blocco pluriennale della contrattazione, una minaccia che dall’altro alto dell’Oceano, in Brasile diventa realtà, a ridosso dei mondiali di calcio i poliziotti brasiliani protestano per l’inadeguatezza di stipendi e di organici; in India l’apparato repressivo è assolutamente inadeguato a contenere la guerriglia174. Non meno sintomatico è quello che avviene in America nel 2010 quando il segretario alla sicurezza interna annunzia l’abbandono del progetto per la costruzione di una cortina di ferro di 3.200 km al confine col Messico per bloccare l’immigrazione clandestina175, dopo 80 km ci si è accorti che costava troppo. È stata sostituita con un sistema di avvistamento dall’alto ad opera dei “droni” che possono segnalare movimenti sospetti ma non possono bloccare il flusso degli immigrati clandestini che è notevolissimo, per fare questo occorrerebbe l’intervento di un nutritissimo corpo di guardie di frontiera atto a presidiare un confine lunghissimo e anche questo costerebbe troppo. La crisi strutturale del capitalismo mondiale e di bilanci statali in bancarotta pongono dei limiti enormi alle possibilità di reprimere indefinitamente movimenti di ribellione che riemergono continuamente.

Il limite della teoria di Latouche sta nel fatto che dà la partita persa quando siamo appena all’inizio del primo tempo e quando le prospettive per la classe dominante non sono prospettive che possono rendere sereni (se ci permettete il gioco di parole). In conclusione la teoria della decrescita serena è un pasticcio indigesto e confuso per nulla originale.

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1 Questo lavoro riprende i temi sulla crisi del capitalismo che tratto da circa 40 anni. Tra i miei lavori più recenti, cui questo si ricollega, cito: A. CARLO, Capitalismo 2008: nel tunnel senza uscita, in www.crisieconflitti.it, 2009; ID, Capitalismo 2009: la via verso il crollo, in www.countdown.info, 2010 e in www.sinistrainrete.info , 2010; ID, Capitalismo 2010, uomo morto che cammina, ivi, 2011; ID, Capitalismo 2011, decomposizione in atto, ivi, 2012 e in http://connessioni-connessioni.blogspot.it 2012; ID, La putrescenza del Capitalismo contemporaneo e la teoria del crollo, pubblicato nei due ultimi siti prima indicati a fine 2012; ID, Anatomia della politica attraverso l’economia: a) il caso italiano (1945-2013); b) la depressione mondiale e i funerali dell’autonomia del politico, in www.sinistrainrete.info , 2013.
2 Vedi in tal senso M. BALDASSARRI, in AA. VV., Uscire dalla crisi, riprendere la crescita. Come? Quando?, Ed. “Il Sole 24 ore”, 2013, pp. 15 e sgg, a p. 26 tabella sull’andamento del PIL mondiale.
3 Vedi TH. PIKETTY, Il capitalismo nel XXI secolo, Bompiami, Milano, 2014, pp. 152 e sgg.
4 Su ciò v. A. CARLO, La società industriale decadente, Liguori, Napoli, III edizione, 2011 (prima edizione 1980), pp. 85 e sgg.
5 Sono queste le cifre correnti e si ritiene anche che siano sottostimate, poiché nei paesi poveri la registrazione dei nuovi nati viene realizzata con anni di ritardo, sicchè si pensa che in quei paesi la popolazione è sottostimata di un 5-10%; c’è poi, il caso della Cina dove la famigerata legge sul figlio unico ha portato all’occultamento di 200 milioni di persone (si stima) nelle campagne cinesi.
6 Vedi il lavoro citato alla nota 4.
7 Fonte nostre elaborazioni su dati “Economist”
8 Il fenomeno dura dall’inizio della crisi, v. i lavori citati alla nota 1.
9 Vedi A. CARLO, La putrescenza cit., par. 4; ID, Anatomia cit., par. 8.
10 Ibidem.
11 Vedi G. SARCINA, Ripresa lenta ma solo l’Italia non dimentica la Grande Crisi, ne “Il Corriere della Sera”, 27/7/14, p. 4, dove si riprendono i dati diffusi dall’Agenzia “Thomson Reuters”, dati basati su quelli ufficiali diffusi dai singoli governi; anche chi scrive aveva elaborato una tabella sugli USA (v. infra par. 2) che arrivava a conclusioni simili in base ai dati del Dipartimento del Commercio USA.
12 Vedi A. ALESINA, F. GIAVAZZI, Una terapia coraggiosa, ne “Il Corriere della Sera”, 17/8/14, p. 1, che prendono come base 100 il secondo trimestre 2008 quando l’Europa è investita dalla crisi proveniente dagli USA.
13 Vedi D. MANCA, Non arrendetevi al mal di testa della depressione, ne “Il Corriere della Sera”, 13/10/14, p. 1.
14 Vedi A. CARLO, La putrescenza, cit., par. 1, lett. B).
15 Vedi ad esempio J.P. FITOUSSI, Il teorema del lampione, Einaudi, Torino, 2013, pp. 185-6.
16 E per ottenere questo risultato occorre indebitarsi a rotta di collo (v. infra nel testo).
17 Vedi A. CARLO, Capitalismo 2010, par. 1, lett. B).
18 Fonte Tesoro USA per il 2007 e la tabella che segue per il 2013.
19 La fonte della tabella che precede, redatta sulla base dei dati dei singoli governi, è una ricerca coordinata da Roberto Poli, per 9 anni ala presidenza dell’ENI, e pubblicata con tabelle di sintesi su uno dei più grandi quotidiani italiani, v. F. TAMBURRINO, Gli interessi record del debito. Spesi sinora 1650 miliardi, ne “Il Corriere della Sera”, 4/8/14, pp. 2 e 3. Una lieve differenza con dati da me forniti nelle mie precedenti ricerche c’è per il Giappone, che nel 2013, secondo altre fonti, era già al 240% contro il 224,6% stimato da Poli, ma si tratta di lievi divergenze dovute alla valutazione nel perimetro del debito pubblico e delle somme in esse incluse, cosa pochissimo rilevante dato il livello comunque abnorme delle cifre in questione.
20 Ibidem.
21 Vedi A. CARLO, Il leviatano morente, Liguori, Napoli, III edizione 2001 (prima edizione 1981), p. 82 dove cito il dibattito teorico tra gli economisti negli anni ’30.
22 Vedi C.H. LEVINSON, Capitale, inflazione ed imprese multinazionali, Etas Kompass, Milano, 1973, p. 61 ove riportata la dichiarazione di Carli che rilevava, altresì, come le banche di emissione erano del tutto prive di strumenti per contrastare il fenomeno.
23 Vedi A. CARLO, Economia, potere, cultura, Liguori, Napoli, 2000, pp. 70-71 nota 238.
24 Vedi A. CARLO, Capitalismo 2010 cit., par. 1, tabella n. 2.
25 Vedi M. SABELLA, Pechino, scala la classifica del debito, raggiunti gli USA, ne “Il Corriere della Sera”, 22/7/14, p. 7.
26 Vedi A. CARLO, Capitalismo 2009 cit., par. 3, tabella n. 2.
27 Vedi infra par. 5 e A. CARLO, La putrescenza cit. par. 4, ID., Anatomia cit.,par. 8.
28 Vedi infra, par. 3 e 4, ma nei lavori citati nella nota 1 ho fornito una mole enorme di dati sul problema.
29 Vedi A. CARLO, La putrescenza cit. par. 2.
30 In pratica si scommette sul rialzo o sul ribasso sul prezzo del barile di petrolio e del sacco di grano a 2,3 o 6 mesi. L’equivalente di una puntata di corsa di cavalli ed in borsa come all’ippodromo, c’è chi cerca di truccare la competizione.
31 Vedi A. CARLO, La putrescenza cit., par. 1 lett. B).
32 Ivi, par. 11.
33 Vedi TELEVIDEO RAI, 27/1/14, p. 131.
34 Vedi R. SORRENTINO, La ripresa debole non farà calare la disoccupazione, ne “Il Sole 24 ore”, 21/1/14, p. 15.
35 Su ciò v. A. CARLO, Crisi del lavoro e tramonto del capitalismo, in www.crisieconfilitti.it, 2005-2006, par. 4.
36 Fonte “Economist”.
37 Con la matematica composta qualunque base a tasso di crescita del 2,5% l’anno raddoppia dopo 29 anni e 4 mesi. In altre parole se il primo anno (quello base) si passa da 100 a 102,5, il secondoanno l’aumento si commisurerà su 102,5 e così via.
38 Vedi F. RAMPINI, Il secolo cinese, Mondadori, Milano, IV ed., 2005, pp. 201 e sgg.; ID, L’impero di Cindia, Mondadori, Milano, III ed. , 2006, pp. 128-52. In Cina nel 2011 si sono venduti 13 milioni di auto e 490 milioni di biciclette (v. A. CARLO, La putrescenza cit., par. 1, lett. B), il che significa che per la grande massa dei consumatori cinesi (operai e contadini) il sogno non è neanche la moto ma la bicicletta, mentre c’è una minoranza della popolazione del 10% o poco più che iperconsuma.
39 Vedi G. SANT. , La Cina affronta la nuova frenata ed il partito torna sotto pressione, ne “Il Corriere della Sera”, 22/10/14 , p. 15.
40 Vedi A. CARLO, La società industriale cit., p.. 188-89.
41 Vedi L. REICHLIN, L’epoca buia dei mezzi lavori, ne “Il Corriere della Sera”, 24/8/14, pp. 1 e 33, che nota la crescita a livello europeo della sottoccupazione e la riduzione del tasso di partecipazione al mercato del lavoro (gli scoraggiati che si ritirano da esso). Altro che ripresina, sia pure fragile, viviamo in un’epoca buia e questo detto da una tecnocrate dell’Eurotower è molto significativo.
42 Vedi A. CARLO, Anatomia cit., par. 2.
43 Vedi infra par. 4.
44 Vedi, L’eccezione tedesca?, in “Aspenia”, n. 62, 2013, p. 6 (editoriale) dove si rivela che dal 2005 grazie alle riforme di Shoroeder il 22,5% dei lavoratori tedeschi è scarsamente retribuito (notoriamente con 450 euro mensili). La cosa incredibile è che questo numero della rivista esalta il pragmatismo del modello tedesco. Né questi sono gli unici casi di lavori parziari o precari in Germania: in una delle sue celebri inchieste GUENTER WALRAFF (Germania anni ’10, ed. L’orma, Roma, 2013) ha documentato l’inferno del sottolavoro nella Germani degli anni ’10 del XXI sec. La cosa però non è nuova in una sua precedente inchiesta risalente agli anni ’80 Walraff aveva denunciato la piaga del lavoro spazzatura soprattutto a danno degli immigrati (v. G. WALRAFF, Faccia da turco, Pironti, Napoli, 2001). Nel primo di questi due lavori citati Walraff accenna al fatto che una grande impresa, che risente molto di fattori stagionali, lascia gli operai a casa senza stipendio nei periodi di stanca e nei periodi ad alta intensità li fa lavorare per 420 ore mensili (v. Germania cit. p. 17); nell’altro lavoro si parla di operai assunti per 15 giorni e che devono esporsi al rischio di contaminazione radioattiva, dopo 15 giorni, avendo raggiunto il massimo di contaminazione prevista, vengono licenziati perché sono diventati radioattivi (v. Faccia di turco cit. , p. 192 inchiesta risalente alla prima metà degli anni ’80).
45 Vedi Shock di Nestlè, addio ai dipendenti stabili in azienda, solo part-time, in “La Repubblica”,
9/4/14, p. 22
46 Vedi H. J. SHERMAN, Stagflation , Harper & Row, New York, 1976, che riferisce il dato di 13,5 milioni di parziari su 92,5 milioni di occupati (il 14,6% nel 1975).
47 Vedi J. RIFKIN , La fine del lavoro, Baldini & Castoldi, Milano, V ed., 1995, pp. 309-12.
48 Vedi A. CARLO, La putrescenza cit., par. 3.
49 Cosa che da anni sottolineo continuamente fin dai miei lavori negli anni ’80. L’inconsistenza delle statistiche in tema di lavoro si evidenzia con alcuni raffronti: in USA la disoccupazione al fine 2013 è di poco al di sotto del 7% ma il tasso di attività (persone in età di lavoro che effettivamente lavorano), è al 58,5%, in Spagna il tasso di attività è inferiore di circa 4 punti a quello americano ma la disoccupazione si aggira intorno al 25%: è evidente che in Spagna i disoccupati sono chiamati con il loro nome ed in USA sono occultati, come osservano vari studiosi da Krugman, a Phelps (altro Nobel), a Rifkin. Analogo discorso per il Giappone, dove la disoccupazione si aggira sul 4% ma il tasso di attività delle donne giapponesi è tra i più bassi al mondo, inferiore anche al nostro, che è sottomarino, evidentemente le donne giapponesi non sono disoccupate ma semplicemente “inattive” o “inoccupate”.
50 Vedi A. CARLO, La putrescenza cit. , par. 1, lett. A).
51 Vedi F. BASSO, Tecnologie “mangialavoro” i rischi maggiori nella periferia UE, ne “Il Corriere della Sera”, 19/8/14, p. 7, per quel che concerne in particolare l’automazione dei fast food, cui accenniamo nel testo, v. C. DE CESARE, il Big Mac si ordina sul touch screen, ne “Il Corriere della Sera”, 23/10/14, p. 39.
52 Vedi G. SACCO, La crisi e il mondo reale, in “Limes”, n. 2, 2012, pp. 39 e sgg. 46-47. Il quaderno di “Limes” si intitola ironicamente “A che serve la democrazia?”, domanda legittima davanti a dati come questo.
53 Vedi MCKINSEY GLOBAL INSTITUTE, Tecnologie dirompenti: l’automazione del lavoro, in “Aspenia”, n. 62, 2013, pp. 11 e sgg. a pp. 17 sgg.
54 Vedi A. CARLO, La società industriale cit., p. 170 e sgg., da allora (anni ’80), lo sviluppo tecnologico ha fatto passi da gigante.
55 Vedi A. CARLO, La società industriale cit., p. 62-63.
56 Vedi retro nota 51. Nei miei lavori citati alla nota 1 ed alla nota precedente, rilevo, altresì, che il fenomeno, nato nel settore manifatturiero, è emigrato nel terziario a gestione capitalistica.
57 Il fenomeno esisteva già nell’800 ed era segnalato da Marx nella sua opera massima quando evidenzia l’enorme aumento della produttività del lavoro nell’industria tessile inglese, che in un secolo aumentò di 200 volte cioè del 20.000%, creando moltissimi disoccupati, v. K. MARX, Il Capitale, I, Ed. Riuniti, Roma, 1964, pp. 434-5 e 473; lo stesso avviene in altri paesi come in Francia, scrive Latouche: “in Francia nell’arco di due secoli la produttività oraria del lavoro è aumentata di 30 volte, la durata individuale del lavoro si è ridotta della metà e l’occupazione è aumentato soltanto di 1,75 volte, mentre la produzione è aumentata di 26 volte”, v. S. LATOUCHE, Breve trattato sulla decrescita serena, Bollati Borenghieri, Torino, 2008, p. 85.
58 Vedi A. CARLO, Capitalismo 2011 cit., par. 1 dove menziono le posizioni del prof. De Rita che invita i giovani a smetterla con l’università ed andare in fabbrica, posizioni assunte anche dal miliardario Bloomberg, già sindaco di New York, peccato che entrambi ignorino che le fabbriche licenziano e non assumono più.
59 Vedi A. CARLO, La società industriale cit., pp. 170 e sgg. C’è una ristretta pattuglia di studiosi che dagli anni ’50 sostiene che lo sviluppo tecnologico comporta non una elevazione del lavoro ma una sua degradazione: cominciò negli anni ’50 Pollock, seguì negli anni ’70 Bravermann, poi negli anni ’80 comparve il mio lavoro citato ad inizio nota, negli anni ’90 comparve la ricerca del prof. Rifkin , ed infine a cavallo dei due millenni la ricerca del tedesco Beck. Amo chiamare questa pattuglia di cinque studiosi (di cui io sono il n. 3) come la banda dei 5 fessi che parlarono per decenni al deserto del tutto inascoltati, i saggi erano gli altri quelli che dalle cattedre diffondevano sciocchezze sul futuro di massa delle professioni tecnologiche. L’ufficio di statistiche del lavoro americano ci dà finalmente ragione, il futuro è dei baristi e delle badanti anche nei paesi più avanzati. È accaduto, per ironia della sorte, che il sistema ha realizzato il programma di un pensatore “sessantottino” come André Gorz il quale sosteneva che l’università andasse distrutta. In realtà è stato il sistema che l’ha distrutta poiché attualmente l’università non serve a niente , tranne un limitato numero di università quanto mai elitarie e costose che dovrebbero servire per l’addestramento di un numero di quadri minimo che serve al sistema.
60 Vedi A. CARLO, Capitalismo 2008 cit., par. 2.
61 Vedi A. CARLO, Capitalismo 2010 cit., par. 1.
62 Vedi retro nota 57.
63 Di ciò mi sono occupato varie volte negli ultimi anni (vedi lavori citati alla nota 1), con una mole di dati enorme che riguarda l’economia mondiale; per quel che concerne in particolare l’evasione e l’Italia v. infra par. 3 e 4.
64 Vedi TH. PIKETTY, op. cit., pp. 814 e 837-38.
65 Ibidem.
66 Abbiamo visto che IM mettono in concorrenza tra loro gli Stati collocando gli investimenti dove il regime fiscale è più favorevole, ecco perché anche un grande paese come gli USA ospita sul proprio territorio paradisi fiscali come il Deleware, il Nevada o Portorico mentre la Francia e l’Inghilterra hanno le isole della Manica e territori d’oltremare, la Cina ha Hong Kong, Panama e i Caraibi gravitano nell’orbita USA (tranne le Antille francesi ed inglesi), Monaco è un protettorato di fatto francese, l’Andorra è un protettorato franco-spagnolo, etc..
67 Vedi A. CARLO, Capitalismo 2010 cit., par. 1.
68 Le sole riforme che potrebbero salvare il capitale sono entrambe impraticabili. La prima è la riforma del modello economico che non sia più labour saving, ma, come rilevo da anni e ribadirò da breve (v. infra par. 3), una simile riforma è irrealizzabile poiché il solo criterio di successo per le imprese capitalistiche (siano esse una IM o una PMI) è il profitto aziendale. Un amministratore che dicesse ai suoi azionisti che non è possibile ridurre la forza lavoro divenuta esuberante, pena una crisi futura, sarebbe cacciato a calci: se l’impresa non liquida gli esuberi l’investimento non produrrà profitti, i costi saliranno e l’impresa diventerà vulnerabile, fallirà o sarà scalata. La seconda riforma sarebbe la lotta all’evasione fiscale impraticabile per quanto detto.
69 Vedi E. POLIDORI, Draghi: “la domanda interna si rianima, i prezzi bassi aiutano la domanda”, in “La Repubblica”, 23/2/14, p. 9.
70 Vedi F. FUBINI, Deflazione, Draghi pronto alla svolta, in “La Repubblica”, 4/4/14, pp. 1 e 10.
71 Il lavoro cui alludo è opera di J. P. MOCKERS, , L’inflation en France 1945-75, Cujas, Paris, 1975, pp. 33-34.
72 Vedi D. S. LANDES, Prometeo liberato, Einaudi, Torino, 1978, pp. 304-305.
73 Vedi A. CARLO, La società industriale cit., pp. 105-6 dove riprendo i dati di Magdoff; anche per la Francia J. P. MOCKERS, op. cit., p. 20, fornisce una tabella analoga. È inutile dire che dopo il 1973 la tendenza inflattiva continua ed anzi si accelera drammaticamente con la crisi del  petrolio.
74 Vedi retro nel testo.
75 Non sempre le imprese ricorrono ai licenziamenti di massa, basta bloccare la sostituzione dei lavoratori che vanno in pensione o si dimettono, ed in modo strisciante e continuo si contrae l’occupazione.
76 Per i periodi di cui si indica la media la fonte è l’ “Economist” per gli anni e i trimestri la fonte è il Dipartimento del Commercio USA.
77 Sull’esplosione del debito globale nei paesi avanzati, v. A. CARLO, Capitalismo 2010 cit., par. 1 , tabella n. 2.
78 Vedi S. ROACH, Per curare gli USA non bastano due trimestri, ne “Il Sole 24 ore”, 29/1/14, p. 9; G. FERRAINO, Yellen, Wall Street all’angolo con i banchieri centrali, il focus è la disoccupazione, ne “Il Corriere della Sera”, 17/8/14, p. 6 dove è riportata una dichiarazione in tal senso di Bob Rubin già ministro del tesoro con Clinton.
79 Vedi S. ROACH, op. cit.
80 La cosa è stata rilevata da più parti in particolare da studiosi come Rifkin e Krugman per ciò che attiene gli USA, ma come ho detto più volte la tendenza è generale negli ultimi decenni ed è stata  documentata da OCSE, FMI e BRI.
81 Vedi l’articolo di G. Ferraino citato alla nota 78, dove è riportata una dichiarazione di Bob Rubin (ministro del tesoro sotto Clinton) rilasciata al “Corriere della Sera”, dove si dice testualmente “nessuno crede al dato ufficiale della disoccupazione” il tasso reale è “significativamente più alto di quello riportato” e ciò rende i salari stagnanti.
82 Vedi M. DE CECCO, Quel fantasma della deflazione, in “La Repubblica Affari & Finanza”, 7/4/14, pp. 1 e 3.
83 Vedi M. GAGGI, Stati Uniti, disoccupati sotto il 6%. Mai così pochi dall’inizio della crisi, ne “Il Corriere della Sera”, 4/10/14, p. 17 come si vede il contenuto dell’articolo contrasta con il tono trionfalistico del titolo; in seguito, ad ottobre, ulteriore calo al 5,8% ma l quadro globale rimane lo stesso.
84 Fonte: Dipartimento del lavoro USA come per gli altri dati sul lavoro.
85 Vedi A. CARLO, Crisi del lavoro cit., par. 2.
86 Vedi A. CARLO, Capitalismo 2010 cit., par. 2.
87 Ibidem.
88 Vedi A. CARLO, La putrescenza cit., par. 2, dove riferisco anche la stima di Krugman sulla disoccupazione reale comprensiva anche degli “scoraggiati”: 24 milioni.
89 Vedi A. CARLO, Anatomia cit., par. 8.
90 Vedi F. MORGANTI, Quanti profeti di sventura sul lavoro, una storia diversa dei dati americani, ne “Il Corriere della sera”, 24/7/14, p. 37.
91 Vedi D. TAINO, Obama e quell’idea di Nato economica per imbrigliare la Cina, ne “Il Corriere della Sera”, 23/7/14, p. 13. Nell’articolo si accenna al fatto che nei primi anni della sua gestione Obama non era minimamente interessato al problema del libero scambio atlantico.
92 Vedi L. BINI SMAGHI, Morire di austerità, Il Mulino, Bologna, 2013, p. 21.
93 Vedi Études économiques de l’OCDE, Royaume-uni, OCDE, Paris, 2013, pp. 18 e sgg.
94 Fonte Ministero dell’economia e Ufficio federale tedesco di statistica.
95 Vedi L. MILELLA, L’UE mette in guardia l’Italia “la corruzione ci costa 60 miliardi”, in “La Repubblica”, 4/2/14, p. 6.
96 Questa tabella venne pubblicata dal giornale della Confindustria ed in seguito da me v. A. CARLO, Anatomia cit., par. 8.
97 Vedi infra par. seguente.
98 Vedi A. CARLO, op. loc. ult. cit. Per ironia della sorte mentre concludo questo lavoro compare un’inchiesta bomba sugli accordi segreti tra il governo del Lussemburgo e le IM per frodare i sistemi fiscali nazionali, eminenza grigia dell’operazione sarebbe il signor Juncker numero uno della politica lussemburghese ed attuale numero uno della Commissione europea, che dovrebbe lottare contro corruzione ed evasione fiscale, v. P. BIONDANI, V. MALAGUTTI, L. SISTI, Il buco nero delle tasse, ne “L’Espresso”, 13/11/14, pp. 40 e sgg. Spuntano fuori ben 28.000 pagine di dossiers confidenziali che buttano una pessima luce sul granducato e su Juncker , anche se, è bene dirlo, che il granducato sia un paradiso fiscale è il segreto di Pulcinella da almeno cinquant’anni. Se, però, i dossiers escono fuori adesso qualcuno ha brigato per procurarseli e siccome Juncker e la Merkel sono i capofila del partito dell’austerità è evidente che lo scandalo fa il gioco degli sviluppisti.
99 Vedi M. PANARA, Tobin tax flop da 900 milioni, gli speculatori non la pagano, in “La Repubblica, 14/12/13, p. 28.
100 Si tratta di un’impotenza strutturale nel senso che politiche di uscita dalla crisi non ce ne sono, né in Europa né altrove, tuttavia la mediocrità delle dirigenze politiche mondiali è evidente e dà un contributo alla ingovernabilità dell’economia mondiale, nell’ottobre dl 2013 il supplemento de “Il Sole 24 ore” che si denomina “IL” pubblica un numero sull’ingovernabilità del mondo che si apre così (p. 59): “Il mondo è ingovernabile. I poteri sono deboli. I leaders si nascondono. L’impossibilità di decidere è diventata cronica e si è diffusa a livello nazionale”.
101 In questo quadro desolante l’Eurostat, al fine di rivitalizzare un PIL anemico, include in esso, a partire dal 2013, anche le attività criminali (servizi resi dalle prostitute e commercio di droga) mentre le spese per la ricerca che erano un costo di produzione del PIL diventano PIL. Assurdo. Le spese in ricerca si traducono in PIL se le scoperte fatte sono concretamente utilizzate, se queste non ci sono oppure vengono messe in frigorifero non si vede perché il costo debba essere contabilizzato nel PIL. Quando alle attività criminali qualcuno ha detto che il PIL così diventerà il prodotto interno lurido. Ma il problema non è moralistico: è difficile considerare i servizi a pagamento forniti dalle escort come ricchezza reale, mentre per le attività connesse alla droga si potrebbe dire che siamo in presenza ad un settore dell’industria chimica. Da un punto di vista formale potrebbe essere corretto, tuttavia il volume di affari dell’industria della droga è elevatissimo perché i prezzi di produzione sono artificiosamente gonfiati a causa delle proibizioni di legge, se la droga fosse prodotta legalmente il fatturato di questa attività crollerebbe, ed è noto che questo è l’argomento principe degli antiproibizionisti i quali osservano che il divieto di legge produce affari d’oro per i narcotrafficanti. Stando così le cose il fatturato dell’industria della droga è un enorme falso ed è una tassa che sottrae risorse al resto dell’economia danneggiandola. In realtà questo gioco di prestigio dell’Eurostat serve concretamente a creare un minimo spazio di manovra nell’ambito dell’esecuzione dei trattati europei: in Italia grazie alla revisione del PIL fatta nel 2013 il rapporto deficit-PIL è calato dal 3% al 2,8% e il debito pubblico è diventato pari al 127,9% del PIL. Inezie, ma ormai la politica europea è diventata un gioco sulle inezie non potendo affrontare i problemi di fondo si fanno giochi di prestigio sulle inezie, ottenendo scostamenti assolutamente irrilevanti.
102 Fonte, ricerca Censis.
103 Vedi A. CARLO, Anatomia cit., par. 2.
104 Vedi D. DI VICO, Dire addio al posto fisso non basta, la flessibilità all’epoca di LinkedIn, ne “Il Corriere della Sera”, 27/10/14, p . 9.
105 Dirò di più circa 35 anni or sono sfogliando i documenti dei pianificatori francesi ne trovai uno in cui , molto lucidamente, si diceva che non solo occorreva garantire la stabilità del posto di lavoro ma anche la sua permanenza in un’area geografica limitata, ciò perché la politica della casa era necessaria per sostenere un settore come quello edilizio, che è ancora in grado di assorbire una quota consistente della forza lavoro, ciò richiede il ricorso massiccio a mutui di 20-30 anni, per cui se un lavoratore ha stipulato un contratto di mutuo a Parigi, non puoi trasferirlo subito dopo sui Pirenei o al confine svizzero. Di quel documento mi ricordai qualche anno fa quando in Francia scoppiò lo scandalo della Telecom France: quella impresa, non potendo licenziare i lavoratori che godevano di una protezione simile ai dipendenti della PA, gli impose di trasferirsi con un brevissimo preavviso dall’altro capo della Francia per spingerli verso le dimissioni. Il risultato fu qualche decina di suicidi tra i lavoratori, con il conseguente sdegno dell’opinione pubblica che costrinse la Telecom a tornare sui suoi passi, ciò che però non valse a resuscitare i suicidati. Questo evento evidenzia quanto assurdo vi sia nella ideologia della mobilità selvaggia ad ogni costo, puoi anche praticare una simile politica, ma se la fai devi rinunciare alla politica per la casa con tutte le conseguenze negative proprio in campo occupazionale. In altre parole la mobilità non è la soluzione ma è il problema.
106 Vedi L. GRION, Potere d’acquisto giù per operai e impiegati, in 10 anni hanno perso 5.500 euro, in “Le Repubblica”, 28/9/10, p. 28.
107 Ma questi dati sono rose e fiori se si pensa alle future pensioni dei Co.Co.Co., costoro dato il basso livello di retribuzione e di contributi e il carattere saltuario della loro occupazione, avranno pensioni da 120 euro mensili (stima Istat).
108 Vedi TELEVIDEO RAI, 29/1/14, p. 137.
109 Vedi A. CARLO, Capitalismo 2011 cit., par. 4, lett . B).
110 Vedi su ciò, Scontrini elettronici ed una banca dati contro l’evasione, ne “Il Messaggero” 28/9/14, p. 2. Articolo anonimo. La Corte dei conti condivide la valutazione del sommerso che è fatta anche dalla Commissione europea (il 21,1% dell’economia italiana), anche però limitandocialla sola economia emersa il volume delle tasse evase sarebbe di 120 miliardi. È da notare, tuttavia, che Gutgeld (Deputato del PD e tra i consulenti economici di Renzi), stima l’evasione di 150 miliardi l’anno (v. Y. GUTGELD, Più uguali e più ricchi, Rizzoli, Milano, 2013, p. 31). Una ricerca fatta dal London Tax Research per conto del gruppo socialista al Parlamento europeo ci accreditava per il 2009 di un volume di tasse evase pari a 180 miliardi l’anno (ma come si diceva l’evasione globale europea è molto più elevata).
111 Vedi TELEVIDEO RAI, 22/1/14, p. 132. Si tratta di una cifra nota e confermata anche dai dati forniti dal MEF al Parlamento italiano subito dopo le elezioni del 2013, si comunicò allora che ben 452 miliardi non esatti (dei 545) facevano capo ad appena 120.409 contribuenti con debiti da 500 mila euro in su, la media con un semplice calcolo aritmetico superava i 3,5 milioni di debito a testa. Questi dati confermano, da una parte l’impotenza dello Stato incapace di riscuotere i propri crediti, e dall’altra il fatto che relativamente pochi evasori detengono la massa dell’evasione fiscale: solo poco più di 120 mila persone mettono insieme un monte debiti (ormai pressoché inesigibile) nei confronti dello Stato paragonabile al PIL di un continente come l’Africa. L’evasione fiscale si concentra nelle mani dei più ricchi e del resto è evidente che solo chi è più ricco può evadere non certo un pensionato al minimo o una casalinga senza lavoro. Sarebbe banale rilevarlo ma ricordo che fino a pochi anni fa quando si facevano notare queste cose alla Confindustria le reazioni erano isteriche. Adesso invece cominciano ad ammettersi le responsabilità dei grandi evasori, anche da parte del CSC della Confindustria. Ma da questo a fare qualcosa contro l’evasione ci corre il mare. Qualche anno fa la Confindustria ha sancito, con decenni di ritardo, il principio che chi paga il pizzo alle varie mafie debba essere espulso dall’associazione, non mi risulta che si sia fatto altrettanto per i grandi evasori.
112 Su ciò vedi, A. CARLO, Anatomia cit., par. 4 e 5.
113 Vedi A. CARLO, Capitalismo 2008 cit., par. 1.
114 Vedi L. BINI SMAGHI, Ridurre il debito, attenti ai pericoli, ne “Il Corriere della sera”, 18/8/14, pp. 1 e 25.
115 Vedi A. DUCCI, Lo Stato ci prova, mette in vendita palazzi ed ex conventi, ne “Il Corriere della sera”, 15/7/14, p. 15.
116 Vedi L. NAPOLEONI, Democrazia vendesi, Rizzoli, Milano, 2013, p. 86; S. BOCCONI, Il circolo (vizioso) degli interessi. Un macigno di 80 miliardi l’anno, ne “Il Corriere della sera”, 5/11/14, p. 4.
117 Visto che con le alienazioni si ottiene poco da più parti si comincia a ventilare l’ipotesi di una patrimoniale come quella del secondo dopoguerra all’epoca della ricostruzione. A questo punto, però, una simile soluzione ci sembra un palliativo, perché, come si accenna nel testo, occorre intervenire sulle cause non sugli effetti: se versi in quell’enorme buco nero del debito cifre anche consistenti, come avvenne per le alienazioni del 1999-2002, non risolvi il problema, perché il debito tende a riprodursi ed assorbire tutto se non elimini le cause che lo producono e che, come abbiamo visto sono inestirpabili.
118 Vedi E. MARRO, La crisi del lavoro e i 14,7 miliardi di sussidi a carico dei contribuenti, ne “Il Corriere della Sera”, 10/10/14, p. 43.
119 Su ciò v. AA.VV., Jobs Act come cambia il lavoro, Ed. “Il Sole 24 ore”, Milano, 2014.
120 Vedi M. GIANNINI, Il Jobs Act di Poletti formato Nestlè, in “La Repubblica”, 14/4/14, p. 1 con allusione alla scelta Nestlè di assumere solo lavoratori a termine; L. GRION, Poletti tra 10 anni più posti ai giovani, ivi, 16/3/14, pp. 1 e 10 ove intervista al Ministro.
121 Il meccanismo della delega prevede una legge cornice che fissa paletti insormontabili, al cui interno, però, il governo ha un’ampia possibilità di scelta nel determinare i contenuti concreti della legge stessa con decreti attuativi ad hoc.
122 Vedi A. CARLO, Anatomia cit., par. 2.
123 Ibidem.
124 Fonte. Tesoro – Eurispes – UIL PA.
125 Vedi M. AINIS, Un naufragio tra i decreti, ne “Il Corriere della Sera”, 31/8/14, p. 1.
126 Vedi su ciò, A. CARLO, Il capitalismo impianificabile, Liguori, Napoli, II ed., 1979, pp. 79-84.
127 Questi temi sono stati ampiamente trattati da me nel mio lavoro dell’anno scorso Anatomia cit., par. 3 e sgg.
128 Vedi S. LIVADIOTTI, Ladri, Bompiani, Milano, 2014, p. 83.
129 Vedi A. FORNI, I fuorilegge del fisco, Ed. Riuniti, Roma, 1981.
130 Vedi S. LIVADIOTTI, Ladri cit., pp. 179 ed sgg.
131 Vedi A. CARLO, Anatomia ci., par. 6.
132 L’unica riforma realizzata da Renzi sinora è la riforma del processo civile, varata a fine 2014, dovrebbe snellire i processi ma da più parti si osserva che già in passato si era fatto un tentativo con il giudice di pace, tentativo che è clamorosamente fallito; naturalmente chi scrive non tifa per un altro fallimento ma si limita a rilevare che questa riforma non ha nessun carattere decisivo in rapporto alla crisi economica che è mondiale e che riguarda paesi che hanno sistemi giudiziari molto più rapidi del nostro. Non è invece una riforma la nuova disciplina delle provincie che si volevano abolire. Poi qualcuno ha ricordato che le provincie sono previste dalla Costituzione per cui una loro abolizione avrebbe richiesto una faticosa riforma costituzionale oltre ad avere anche implicazioni internazionali a nostro avviso: le provincie di Trento e Bolzano con il loro Statuto speciale sono una conseguenza di accordi tra l’Italia e l’Austria, una loro eventuale abolizione avrebbe avuto delle conseguenze nelle relazioni con il nostro vicino. Perciò ci si è limitati ad una modifica del sistema di elezione delle cariche regionali che dovrebbe produrre un piccolo risparmio economico e che è un tipo di elezione indiretta, che allontana sempre più l’elettore dall’eletto.
133 Vedi su ciò E.M. CAPECELATRO, A. CARLO, Contro la questione meridionale, Savelli, Roma, III edizione, 1975, cap. IV.
134 Per un’ampia e precisa radiografia della legge di stabilità proposta alle Camere v. M. SENSINI, Radiografia di bonus, sconti e sgravi. La trappola delle tasse che verranno, ne “Il Corriere della sera”, 22/10/14, p. 2, in particolare sul pessimo affare che sono le liquidazioni in busta paga (pessimo affare per i lavoratori beninteso) v. R. BAGNOLI, Liquidazioni in busta paga vale 127 euro ma taglia del 13% la rendita, ne “Il Corriere della Sera economia”, 20/10/14, pp. 26-27; A. BASSI, L. CIFONI, Accise, detrazioni fiscali, ecco gli aumenti in agguato, ne “Il Messaggero”, 25/10/14, p. 10.
135 Vedi M. SENSINI, op. ult. cit.
136 Su ciò v. TELEVIDEO RAI, 29/6/14, p. 133; G. DOSSENA, Flop del bonus giovani, solo 22mila assunzioni. Negozi allarme chiusura, ne “Il Corriere della Sera”, 29/6/14, p. 5.
137 Su ciò v. A. CARLO, La società industriale, cit., pp. 115 e sgg.
138 Si è trattato di una presa di posizione clamorosa che smentiva il governo e si augurava che la decisione fosse provvisoria, una posizione che conteneva le stesse critiche dell’articolo di Bagnoli citato alla nota 134.
139 Vedi C. PASSERA, Io siamo, Rizzoli, Milano, 2014.
140 Ivi, pp. 38 e sgg.
141 Ivi, pp. 43 e sgg.
142 Su questo punto v. infra par. seguente per Cina e Giappone.
143 Vedi C. PASSERA , op. cit. , p. 52.
144 Ivi, pp. 59 e sgg.
145 A volte i lavoratori in nero vengono accusati di contribuire all’evasione fiscale il che è falso perché il lavoro nero sottopagato e privo di coperture assistenziali è imposto al lavoratore dal datore di lavoro con l’alternativa secca “o questo o niente”.
146 Vedi G. VIETTI, Far East, in “La Repubblica, Affari & Finanza”, 12/5/14, p. 1.
147 Vedi G. SACCO, op. cit., p.42.
148 Vedi retro nota 38.
149 Vedi V. SPARISCI, Pechino contro l’auto straniera. L’accusa anti-trust: listini gonfiati, ne “Il Corriere della sera”, 23/8/14, p. 39.
150 Vedi G. SANT, La Cina affronta cit..
151 Fonte “Economist”.
152 Vedi retro nota 57
153 Vedi A. CARLO, La putrescenza cit., par. 4.
154 Vedi G. SANTEVECCHI, Per i corrotti divieto di suicidio: “Vi perseguiremo anche da morti”, ne “Il Corriere della sera”, 26/9/14, p. 17.
155 Vedi G. SANT. , La Cina affronta cit..
156 Fonte “Economist”.
157 Vedi G. SANT. , op. ult. cit.
158 Si noti peraltro che autorevoli economisti cinesi hanno rilevato che il tasso di disoccupazione ufficiale è sottostimato poiché anche in Cina esistono gli scoraggiati, v. A. CARLO, Capitalismo 2009 cit. , par. 6.
159 Vedi G. FERRAINO, La deflazione? Sempre deleteria per la crescita. Draghi “farò tutto per evitare i rischi in Europa”, ne “Il Corriere della sera”, 25/8/14, p. 11 ove è inserito un’intervista a Kuroda , governatore della banca centrale nipponica che fornisce questo dato.
160 Vedi S. LATOUCHE, op. cit.
161 Ivi, pp. 19 e sgg.
162 Ivi, p. 109.
163 Ivi, pp. 85 e 93 e sgg.
164 Vedi A. CARLO, La società industriale cit., pp. 128 sgg.
165 Vedi S. LATOUCHE, op. cit. , p. 81.
166 Su ciò vedi A. CARLO, Conflitto. Controllo sociale. Rivoluzione. Tredici tesi sulla fine del capitalismo, in www.crisieconflitti.it, 2008, par. 10.
167 Vedi su ciò A. CARLO, La società industriale cit. pp. 34 e sgg.
168 Vedi A. CARLO, Capitalismo 2010 cit., par. 2.
169 Fonte “Economist”. Anche gli altri dati sulla spesa militare che citeremo nel testo provengono da quella fonte.
170 Vedi A. CARLO, op.ult. cit.
171 Non manca, è bene dirlo, qualche caso in controtendenza e i più rilevanti sono il Giappone e la Cina.In Giappone siamo a 41 miliardi di dollari nel 2007 che diventano 59,4 nel 2012 (54,4 nel 2010), ma tenendo conto delle dimensioni economiche della popolazione del Giappone non siamo neanche ai livelli italiani in senso relativo. In Cina si passa dai 46,2 miliardi del 2007 ai 102,2 miliardi del 2012 (76,4 nel 2010), con un’accelerazione indubbia che esprime le paure di una classe dirigente davanti al numero enorme di ribellioni che esplodono ogni anno in quel paese, ma se lo sforzo è ingente rimane inadeguato rispetto alla popolazione ed al numero di rivolte che è semplicemente immenso e anche qui in termini relativi (percentuale del PIL) siamo a livelli inferiori rispetto agli USA che sono in calo.
172 Vedi su ciò A. CARLO, Capitalismo 2010 cit., par. 2 e 6. È sintomatico quello che avviene in California dove le riduzioni del personale della polizia determinano situazioni paradossali: se chiami il 911 (il pronto intervento) un disco registrato ti dirà che se non c’è un pericolo immediato di vita arriveranno non prima di 8 ore: un pronto intervento che si muove con la velocità di una lumaca.
173 Vedi A. CARLO, op. ult. cit., par. 7.
174 Vedi A. CARLO, Capitalismo 2009 cit., par. 9.
175 Vedi A. CARLO, Capitalismo 2010 cit. , par. 7
 
 

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