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L’economia mondiale nel vortice della crisi

Lorenzo Procopio 

12298489 serie di bombe accesi con la valuta symbolsMentre il governo italiano sventola ai quattro venti gli ultimi dati Istat strombazzando che l’Italia è finalmente fuori dalla recessione, grazie al fatto che l’economia italiana è cresciuta nel 2015 di un misero 0,6%, dopo un quinquennio di contrazione del Pil, i mercati borsistici di tutto il mondo hanno fatto registrare il peggior inizio anno della storia finanziaria del moderno capitalismo. Il crollo degli indici azionari delle principali piazze borsistiche mondiali nelle prime sei settimane dell’anno in corso è stato nettamente il peggiore tra quelli finora registrati, ancor più negativi di quelli fatti registrare nel 1931 e nel 2009,  gli anni immediatamente successivi alle due grandi crisi finanziarie del 1929 e del 2008.

Tale crollo non è stato ovviamente un fulmine a ciel sereno, come qualche prezzolato commentatore vorrebbe far credere per nascondere le reali difficoltà del sistema capitalistico internazionale; infatti, i primi scricchiolii si erano già manifestati nell’estate scorsa quando la borsa di Shangai ha fatto registrare pesanti perdite anche a causa del rallentamento nella crescita della produzione cinese e dell’eccessiva crescita della bolla speculativa sui mercati finanziari della stessa Cina. L’attuale crisi finanziaria è globale e per la prima volta nella storia del capitalismo la propagazione degli effetti dello scoppio della bolla speculativa all’intero sistema internazionale è avvenuta con la velocità della luce. Ciò rappresenta un vero salto qualitativo che differenzia questa crisi di molto non solo da quella del 1929, quando gli effetti del crollo di Wall Street si propagarono sul piano internazionale soltanto nell’arco di qualche anno, ma anche rispetto a quella più recente del 2008 durante la quale i tempi di dilatazione globale degli effetti dello scoppio della bolla speculativa dei mutui sub-prime sono stati nell’ordine di alcune settimane o addirittura di mesi.   Ma questa crisi è globale soprattutto per il fatto che le cause determinanti sono originariamente da ricercare nelle contraddizioni operanti nell’ambito dell’intero sistema capitalistico mondiale e l’immediato manifestarsi dei suoi effetti su un terreno internazionale è solo la necessaria conseguenza dell’operare delle contraddizioni globali del capitalismo. Nel moderno capitalismo non esiste angolo al mondo che sia al riparo dalla crisi economica e dalla devastazione della guerra globale permanente che sempre di più rischia di deflagrare in un conflitto generalizzato.

L’area di crisi non può essere circoscritta soltanto alla sfera finanziaria ma investe globalmente l’economia reale del pianeta. E’ ormai ufficiale anche nei dati statistici che le economie di Brasile e Russia, due dei paesi che maggiormente avevano contribuito alla crescita globale, sono piombate nella più grave crisi economica degli ultimi decenni; lo stesso Giappone non riesce a tirarsi fuori dalle sabbie mobili della depressione economica che da oltre trent’ anni attanaglia la sua economia e la fine del tunnel non sembra proprio vicina. Nonostante la valanga di yen iniettati nel sistema finanziario nipponico in questi ultimi anni, con tassi d’interesse addirittura negativi, la crescita del Pil giapponese è prossima allo zero mentre il livello dei prezzi tende a scendere in maniera repentina. Tutto questo rappresenta una novità del moderno capitalismo, infatti mentre negli anni settanta del secolo scorso la stagione della stagnazione economica si era accompagnata al fenomeno dell’inflazione, tanto che gli economisti borghesi per descrivere quel fenomeno coniarono il termine stagflazione, oggi a livello globale a dominare è la stagdeflazione, ossia la contemporanea presenza della stagnazione economica accompagnata dalla caduta del livello dei prezzi. A prima vista il fenomeno della stagdeflazione sembrerebbe inspiegabile considerando anche le politiche di espansione della massa monetaria attuate negli ultimi anni dalle più importanti banche centrali a livello internazionale, cosa che a livello teorico si dovrebbe tradurre in un repentino aumento dei prezzi. In realtà se consideriamo i processi di concentrazione della ricchezza e il contestuale impoverimento di miliardi di proletari a livello mondiale, determinato dalla riduzione dei salari, possiamo ben capire come tale enorme massa di denaro abbia una scarsa ricaduta sul livello dei prezzi. Torneremo su questo fenomeno nelle conclusioni di questo nostro lavoro; cercheremo ora di analizzare i diversi fronti della crisi economica partendo in primo luogo da una breve premessa metodologica per proseguire nell’analisi del fondamentale mercato del petrolio.

 

Una breve premessa metodologica

La crisi economica è così grave e globale che nessun commentatore è disposto a immolarsi nel negarla, ma tutti i commentatori borghesi sono impegnati nel camuffarne le cause reali che la determinano. Osserviamo da vicino un tipico modo di spiegare le dinamiche dell’attuale crisi che a prima vista potrebbe sembrare corretto mentre nei fatti distorce la realtà. In molti sostengono che l’attuale crisi è determinata dalla scelta operata dall’Arabia Saudita di aumentare la propria produzione di petrolio per mettere in difficoltà i produttori statunitensi di shale oil e shale gas e l’Iran, il suo rivale storico, appena riammesso sul mercato del greggio dopo la fine dell’embargo economico che era stato sancito dagli Stati Uniti. Grazie all’aumento dell’offerta del greggio saudita si è determinato un abbassamento dei prezzi che nelle intenzioni dell’Arabia Saudita doveva servire a mettere in difficoltà gli americani e gli iraniani,  i cui costi di produzione del greggio sono notevolmente più alti rispetto a quelli sauditi. La scelta dell’Arabia Saudita avrebbe in tal modo determinato un vero e proprio effetto domino in quanto con il crollo del prezzo del petrolio, i mercati finanziari, a causa delle loro strettissime relazioni con il prezzo del petrolio, sono entrati in fibrillazione dando così la stura a questa nuova crisi economica globale. In apparenza tale analisi sembrerebbe spiegare fin nei minimi dettagli l’evoluzione della crisi economica in atto, in realtà nasconde un vizio metodologico fondamentale in quanto scarica tutta la responsabilità dell’attuale crisi sul mondo della politica facendo salvo in tal modo il sistema capitalistico e le sue intrinseche ed insanabili contraddizioni. Se è vero che alcune scelte politiche possono accentuare e/o attenuare l’operare delle contraddizioni del capitale non di meno le reali cause delle crisi vanno ricercate solo ed esclusivamente nei meccanismi contraddittori dei processi d’accumulazione. Chi dimentica ciò lo fa con l’unico scopo di deviare su altri fattori secondari  le reali responsabilità del capitale nel determinare le crisi economiche e salvaguardandolo da possibili critiche politiche che possano metterlo in discussione.

 

Il mercato del greggio

Il prezzo del petrolio nei primi due mesi del 2016 ha subito un vero e proprio tracollo, tanto che le quotazioni sono state per alcune settimane inferiori alla soglia psicologica dei trenta dollari al barile. Soltanto nel mese di marzo 2016 le quotazioni sono tornate sopra i 38 dollari al barile, in ogni caso prezzi lontani anni luce da quelli registrati negli anni scorsi, in parte dovuti agli accordi tra i maggiori produttori di greggio per limitarne la produzione ma soprattutto – come vedremo meglio in seguito – grazie  all’aumento della liquidità iniettata dalle maggiori banche centrali del mondo. Quali sono stati i motivi che hanno determinano il crollo del prezzo del greggio? In primo luogo c’è da tenere in considerazione il fatto che l’economia mondiale è in forte rallentamento - vedremo fra poco i dati sull’andamento dell’economia cinese - per cui l’attuale offerta di petrolio supera di gran lunga la domanda con la conseguenza che il prezzo del greggio tende inesorabilmente a scendere. In questi ultimi mesi il mercato del petrolio è in forte fibrillazione anche per il fatto che a una diminuzione del livello della domanda globale è corrisposta parallelamente un aumento dal lato dell’offerta sia, come si diceva poc’anzi,  per la fine dell’embargo imposto per anni all’Iran sia per la produzione dello shale oil, il  petrolio estratto soprattutto negli Usa con la tecnica dalla frantumazione delle rocce e che ha fatto degli Stati Uniti il maggior produttore di petrolio al mondo con ben 14 milioni di barili al giorno, seguiti da Arabia Saudita con 11,6 e Russia con 10,8. Vi è però una notevole differenza nei relativi costi di produzione tra i tre maggiori produttori di petrolio, a tutto vantaggio della Russia e soprattutto dell’Arabia Saudita. Ora con un prezzo del petrolio che per anni è rimasto anche  sopra i cento dollari al barile, la produzione statunitense di shale oil è risultata remunerativa e comunque tale da consentire ai produttori di pagare le rate dei prestiti contratti con le istituzioni bancarie per finanziarie questa loro attività, mentre con un prezzo in caduta libera essa è diventata nel corso del tempo sempre meno remunerativa tanto da rendere difficoltoso perfino il rimborso dei prestiti. Secondo gli analisti più attenti alle dinamiche del mercato petrolifero,  grazie ai più recenti miglioramenti tecnici nei processi d’estrazione del greggio derivante da frantumazione, ma con un prezzo sotto i 30/40 dollari la produzione di Shale Oil non è remunerativa come peraltro  quella di molti altri paesi produttori di greggio che usano la tecnica convenzionale.

Ma con un prezzo del petrolio così basso perfino  la Russia e l’Arabia Saudita, i cui costi di estrazione sono infinitamente più bassi di quelli dei loro concorrenti,  sono costretti a rivedere al ribasso la loro spesa pubblica e a tagliare in profondità fette importanti di stato sociale,  aprendo in tal modo grosse faglie nel consenso politico ai loro attuali governi.

Con il crollo del prezzo del petrolio sono andate in serie difficoltà tutte quelle istituzioni bancarie e finanziarie che in questi ultimi anni hanno elargito prestiti a buon mercato alle imprese produttrici di Shale Oil, appesantendo di molto le proprie sofferenze bancarie e i crediti inesigibili. Come è facile osservare nel moderno capitalismo sono così strette le connessioni tra finanza ed economia reale che anche a considerarle come due realtà diverse si distorce la realtà del capitale.

La contemporanea presenza di questi due fattori, diminuzione della domanda e contestuale aumento dell’offerta di greggio, ha fatto si che il crollo del prezzo assumesse proporzioni catastrofiche trascinando nel panico, per gli strettissimi legali tra finanza ed economia reale anche i mercati finanziari.

Per comprendere fino in fondo il reale impatto sui mercati finanziari e monetari che ha una caduta del prezzo del petrolio come quella attuale, bisogna inoltre considerare lo strettissimo rapporto che intercorre tra prezzo del greggio, dollaro e tassi d’interesse. Il petrolio non è importante soltanto per l’essere la più importante fonte energetica del pianeta, e già questo basterebbe a porlo al primo posto nelle considerazioni che ogni governo deve fare per il proprio fabbisogno energetico, ma rappresenta anche il sottostante finanziario per una massa enorme di capitali che migrano nel mondo alla ricerca di briciole di plusvalore con le quali remunerarsi. Si comprende così meglio come il livello del prezzo del greggio abbia un strettissimo rapporto con i mercati finanziari, e perchè un crollo di tali proporzioni non poteva che ripercuotersi su tutte le borse del mondo.

Senza riprendere l’analisi sull’importanza della relazione tra prezzo del petrolio e dollaro, rinviando ai numerosi articoli che in questi ultimi anni abbiamo pubblicato sulla nostra rivista DMD’ e su questo stesso sito,[1] occorre sottolineare che il crollo del prezzo del petrolio ha un impatto devastante sugli equilibri monetari internazionali e sulla ripartizione tra i predoni imperialisti della rendita finanziaria. In ragione di ciò la guerra trova ogni giorno di più carburante con il quale alimentarsi.

 

La frenata cinese

Uno dei fattori determinati l’attuale crisi del sistema capitalistico a livello globale è legato al forte rallentamento dell’economia cinese. Mentre fino a qualche anno fa la crescita del Pil della Cina si collocava abbondantemente sopra il 10%, negli ultimi due anni la crescita si è dimezzata. Nel 2015 il prodotto interno lordo cinese è aumentato di circa il 6%, una cifra che per molti paesi rappresenterebbe una risultato straordinario, ma che per la Cina rappresenta un livello di crescita a dir poco deludente e che non garantisce di assorbire nei processi produttivi l’enorme massa di lavoratori che annualmente si spostano dalla campagna verso i centri industriali del paese. Anzi proprio in questi giorni il governo di Pechino ha annunciato un taglio alle cosiddette aziende zombie, ossia quelle imprese che sopravvivono soltanto grazie agli aiuti statali, con la conseguenza che nei prossimi mesi saranno licenziati ben 6 milioni di lavoratori impegnati soprattutto nel settore minerario.

La fabbrica del mondo cresce ora ad un ritmo insufficiente per rappresentare la nuova locomotiva dell’economia mondiale. Altri dati confermano la frenata cinese e con essa le aumentate difficoltà dell’intera economia mondiale; nel mese di gennaio 2016 l’export cinese è diminuito del 6,6%, assestandosi ad un valore annuo di 174 miliardi di dollari, mentre nello stesso periodo le importazioni sono crollate del 14,4% rispetto al mese precedente, ammontando a 114 miliardi di dollari l’anno. Per un’economia come quella cinese fortemente orientata verso le esportazioni un calo di tali proporzioni è tale da scatenare il panico anche nel mercato finanziario ed in effetti la borsa di Shangai ha fatto registrare i peggiori risultati a livello mondiale.

Se guardiamo più da vicino la realtà cinese possiamo osservare che la straordinaria crescita economica degli ultimi anni è anche il frutto di un profondissimo processo d’indebitamente privato; i debiti delle imprese private ammontano al 200% dell’intero Pil cinese, una cifra astronomica che colloca la Cina sugli stessi livelli degli Stati Uniti. Questo dato fa emergere che anche quella che veniva dipinta come l’economia più virtuosa del pianeta, in realtà si è potuta sviluppare a quei ritmi grazie all’indebitamento, tanto che sotto questo punto di vista Pechino non è molto diversa da Roma, Atene o Washington.

Con il rallentamento dell’economia per la cosiddetta fabbrica del mondo si sta registrando un fenomeno nuovo, ossia la fuga di capitali. Nel solo 2015 sono fuorusciti dalla Cina quasi mille miliardi di dollari, capitali che rientrano nei paesi d’origine (leggi Stati Uniti e Germania) o migrano in aree che presentano un costo del lavoro ancor più basso di quello cinese. Sempre lo scorso anno si è registrato un crollo delle riserve monetarie della banca centrale cinese, passate in pochissime tempo da quasi 4000 a 3230 miliardi di dollari. Ciò è stato determinato dal tentativo della banca centrale cinese di sostenere il corso della propria moneta e di conseguenza di contrastare la fuga di capitali dal paese. Ma il dato maggiormente preoccupante è quello relativo al sistema bancario cinese, che ha nella propria pancia una montagna di crediti in sofferenza. Secondo le ultime stime ammontano a oltre 6000 miliardi di dollari le sofferenze bancarie, di cui ben 4000 sono ormai considerati crediti inesigibili. Una vera e propria valanga che rischia di travolgere il sistema bancario e con esso l’intera economia cinese.

 

La crisi bancaria

E ad avere bilanci farciti di crediti inesigibili non sono solo le banche statunitensi, di cui alcune ormai sull’orlo del fallimento, o quelle cinesi, ma il fenomeno è veramente globale. Un fronte molto caldo dell’attuale crisi bancaria è la Germania, quella che bacchetta gli altri paesi dell’Unione europea per essere troppo allegri nella gestione dei conti pubblici; infatti, i due maggiori istituti bancari tedeschi, Deutsche Bank e Commerzbank, hanno nei propri bilanci centinaia di miliardi di euro di sofferenze bancarie e finora hanno evitato il default solo grazie agli aiuti statali elargiti poco prima dell’entrata in vigore dei limiti imposti dal bail in.[2] La situazione delle banche tedesche è particolarmente difficile in quanto da un lato sono affamate di liquidità, come tutte le altre istituzioni finanziarie; dall’altro, in conseguenza della politica espansiva del credito praticata dalla BCE in questi ultimi anni, e il crollo dei  tassi d’interesse e dello spread tra i tassi nei diversi paesi dell’Unione europea, si sono ridotti di molto i rendimenti dei loro impieghi. Basta pensare ai profitti realizzati in questi anni dalle banche tedesche che acquistavano i titoli del debito pubblico dei PIGS a tassi d’interesse a doppia cifra, mentre pagavano al proprio interno tassi d’interesse prossimi allo zero. Non è quindi un caso che sono soprattutto i tedeschi a criticare la scelta di Draghi di aumentare il quantitative easing da 60 a 80 miliardi di euro mensili a partire dall’aprile 2016 e per un periodo imprecisato. Da un lato si ha un aumento della massa monetaria, con la possibilità di scaricare sui conti pubblici molti dei crediti inesigibili[3], mentre dall’altro lato, con la riduzione dei tassi d’interesse, diminuiscono di molto i margini di guadagno delle grandi banche tedesche, una contraddizione che non lascia molti margini di manovra e che rischia di aggravare ulteriormente la già precaria situazione finanziaria internazionale.

Quando nel 2008 è scoppiata la crisi dei mutui subprime il governo statunitense, e a ruota tutti i paesi più importanti al mondo, si erano impegnati  a emanare delle norme che limitassero gli eccessi speculativi della finanza per ricondurla in tal modo nell’alveo di una funzione che privilegiasse il finanziamento delle attività produttive. Mai promessa è stata così disattesa e smentita. Disattesa perché false erano le sue premesse teoriche; infatti, se è vero che le attività finanziarie si sono sviluppate così tanto anche grazie all’approvazione di norme di liberalizzazione dei movimenti di capitale e alla creazione di sempre nuovi strumenti finanziari, la causa determinante di tale crescita è da ricercarsi solo ed esclusivamente nell’operare della legge della caduta tendenziale del saggio medio del profitto che ha spinto una massa crescente di capitali a ricercare la propria remunerazione non nelle attività produttive (poco remunerative) ma sempre di più nelle attività finanziarie e speculative.[4]

L’enorme montagna di capitali che vaga quotidianamente per il pianeta oggi può ottenere la propria quota di plusvalore solo a patto che la montagna cresca sempre di più. Un semplice dato numerico può aiutarci a comprende meglio l’attuale situazione: nel mondo circola una ricchezza finanziaria pari a circa un quadrilione di dollari, mentre la ricchezza materiale è pari soltanto a 100 trilioni di dollari. Per chi non è molto avvezzo ai numeri ciò significa che per ogni dollaro di ricchezza reale che  circola nel mercato globale, corrisponde un valore pari a 10 mila dollari di ricchezza finanziaria. In altri termini,  su una base materiale di un solo dollaro  è stata finora prodotta una massa di capitale fittizio pari a 10 mila dollari che, in quanto capitale, vuole essere comunque remunerato come qualsiasi altro capitale. Nello stesso tempo, però,  alimenta la spinta alla creazione di altro capitale fittizio spostando in tal modo sempre di più nel futuro il pagamento dei debiti così creati. In altre parole si può dire che la crisi determinata dallo scoppio della bolla speculativa dei mutui subprime del 2008, aldilà delle promesse dei vari governanti, è stata affrontata attraverso una produzione senza precedenti di capitale fittizio, determinando in tal modo una situazione in cui l’intero capitalismo mondiale è prigioniero della gigantesca bolla speculativa che nel frattempo si è generata ed è pronta ad esplodere in qualsiasi momento.

 

Lo spettro della deflazione

Un nuovo fronte della crisi attuale è la deflazione, un fenomeno che in apparenza è inspiegabile considerando le politiche espansive praticate in questi ultimi anni dalle più importanti banche centrali del mondo. Finora la teoria economica era concorde nel sostenere che le politiche espansive del credito alimentassero l’inflazione, mentre ora assistiamo alla riduzione dei prezzi anche in presenza di tassi d’interesse addirittura negativi e all’espansione della massa monetaria circolante attraverso la politica del quantitative easing. Da un punto di vista dell’economia capitalistica la deflazione è un fenomeno che fa inorridire in quanto la tendenziale riduzione dei prezzi alimenta la depressione economica per il fatto che gli operatori sono propensi a rinviare nel tempo i loro acquisti in attesa di prezzi sempre più bassi. La conseguenza di tale spirale è che il capitalismo è sempre di più spinto nelle secche della stagnazione. Non è proprio un caso che l’ex ministro del tesoro americano Summers ha parlato negli ultimi tempi del pericolo di una stagnazione secolare, un rischio che rischia di trasformarsi in realtà.

Ma la deflazione si spiega agevolmente se analizziamo l’attuale realtà del capitale senza schemi preconcetti e valutando almeno tre fattori. Il primo elemento da considerare, seppur non primo per importanza,  è la riduzione del prezzo delle materie prime, petrolio in primo luogo, che spinge al ribasso il livello generale dei prezzi. Tale fattore incide in maniera marginale in quanto con la crescita della massa monetaria, i capitali alla ricerca di impieghi speculativi spingono in alto il livello dei prezzi delle stesse materie prime. Gli ultimi rimbalzi del prezzo del petrolio si spiegano facilmente con l’aumento del quantitative easing deciso dalla BCE e dalla mancata riduzione del QE della Federal Reserve. Un secondo fattore da non sottovalutare è che l’enorme massa monetaria creata ha un impatto prossimo allo zero sulle attività produttive, essa infatti circola nella quasi totalità nella sfera finanziarie e incide per una risibile percentuale sui livelli produttivi e sulle dinamiche dei prezzi. Ciò è anche la conseguenza dell’enorme processo di concentrazione della ricchezza e della stessa centralizzazione dei capitali, che limitano al minimo gli impatti della crescita monetaria sul livello dei prezzi. Ma il fattore veramente determinante del fenomeno deflattivo è la dinamica salariale ferma ormai da decenni, con salari in discesa libera a livello internazionale. I prezzi scendono anche perché non ci sono globalmente sufficienti consumatori disponibili ad acquistare ciò che si produce, spingendo in tal modo l’intero sistema in una spirale perversa di deflazione e depressione economica. Concentrazione della ricchezza e abbassamento dei livelli salariali sono due facce della stessa medaglia del moderno capitalismo, che sempre di più determina l’arricchimento di pochi eletti a discapito dell’impoverimento di miliardi di esseri umani.

Commetteremmo però un gravissimo errore se considerassimo la dinamica salariale come un fenomeno avulso dal contesto economico internazionale, infatti la drastica riduzione dei livelli salariali è consequenziale allo sviluppo abnorme delle attività finanziarie speculative. Il circolo vizioso finora descritto non è quindi socialmente indolore, tutt’altro, visto che determina l’impoverimento di miliardi di essere umani ed è la causa fondante della guerra globale permanente. L’enorme massa di capitale fittizio, pur non partecipando che in una piccolissima parte alle attività produttive, vuole essere remunerata e affinché ciò accada occorre che ci sia qualcuno che produca il plusvalore necessario a tale remunerazione. L’ipertrofia finanziaria si lega in tal modo all’aumento vertiginoso dello sfruttamento proletario e alla contestuale riduzione del costo del lavoro su scala globale. Abbiamo visto come per continuare a funzionare il moderno capitalismo è costretto ad alimentare progressivamente la produzione di capitale fittizio, ma nello stesso tempo, per remunerare tale massa crescente di capitale fittizio, è costretto a ridurre sempre di più il costo del lavoro ed aumentarne la sua produttività. Ma in tal modo è sempre più stridente la contraddizione tra una massa crescente di capitali e la riduzione relativa della base produttiva dalla quale estrarre plusvalore con il quale remunerare la massa crescente di capitali. In altri termini assistiamo al fatto che la sfera finanziaria cresce ad un ritmo notevolmente maggiore di quello dell’economia reale, con la conseguenza che la produzione di plusvalore è tendenzialmente insufficiente a garantire la remunerazione dell’intera massa di capitali (fittizi e reali). Se aggiungiamo che anche la produttività del lavoro tende a crescere a ritmi sempre più bassi, possiamo ben capire la portata dell’attuale crisi che sempre di più, oltre ad impoverire progressivamente e repentinamente miliardi di proletari, rischia di far precipitare l’intera umanità nella barbarie della guerra globale permanente.

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Note
[1] Cfr – G. Paolucci – Il saliscendi del prezzo del petrolio ovvero il dominio del virtuale sul reale- http://www.istitutoonoratodamen.it/joomla/questionieconomiche/190-petrolioreale
[2] A partire dal primo gennaio 2016, l’eventuale crisi di una banca dovrà risolta con il nuovo meccanismo detto “bail-in”: il salvataggio dell’istituto di credito, cioè, non avverrà più con soldi pubblici dello Stato e/o delle banche centrali (come è stato sino a oggi), bensì attraverso la riduzione del valore delle azioni e di alcuni crediti (come quelli dei correntisti che abbiano depositato più di 100mila euro) o la loro conversione in azioni, per assorbire le perdite e ricapitalizzare la banca in misura sufficiente a risolvere la crisi e a mantenere la fiducia del mercato.
[3] Infatti con il quantitative easing le banche Centrali danno ai vari Istituti di credito liquidità monetaria mentre questi ultimi offrono in garanzia i loro crediti inesigibili. In tal modo i crediti inesigibili degli istituti di credito privati, entrando nella pancia delle banche centrali, entrano inevitabilmente nella contabilità pubblica.
[4] cfr: La legge della caduta tendenziale del saggio del profitto  http://www.istitutoonoratodamen.it/joomla/questionieconomiche/162-cadutasaggio

Comments

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Claudio
Thursday, 31 March 2016 15:39
Sul rapporto Trilioni/quadrilioni avete ragione, ma mi sono confuso dal fatto che avete esagerato un po' parlando dell'ammontare totale della finanza in circolazione, che la danno tutti da 10 a 13 volte il Pil Mondiale, come potete constatare dall'articolo di Repubblica del 27/10/2014 che allego. Mentre sul Salario non si è trattato di estrarre una singola frase ma della summa dei concetti che dallo scritto emergono.

Finanza, un trilione di dollari che soffoca l’economia reale
È DI 993 MILA MILIARDI IL VALORE DELLA RICCHEZZA DI CARTA” GLOBALE A FINE DEL 2013,
CIRCA 13 VOLTE IL PRODOTTO LORDO MONDIALE. IN DIECI ANNI IL PIL È RADDOPPIATO, L’ALTRA GRANDEZZA È TRIPLICATA.
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Lorenzo Procopio
Thursday, 31 March 2016 14:50
Aver trattato specificatamente le aree e i settori in cui si evidenzia meglio la crisi del capitale non significa ignorare che la crisi è strutturale ed investe l'intero sistema. In tutto l'articolo non si fa altro che tentare di spiegare questo fenomeno globale fin dall'introduzione.
L'impoverimento delle classi medie(?) non è la conseguenza dell'aumento delle tasse e dei balzelli dello stato ma va inquadrata nel più generale processo di concentrazione e centralizzazione dei capitali. Per la piccola e media borghesia l'aumento delle tasse rappresenta solo un costo di produzione che in quanto tale viene scaricato sul prezzo finale della merce prodotta. pertanto quale costo di produzione non può essere all'origine dell'impoverimento dei ceti medi.
Per quanto concerne l'attacco al salario questo è assolutamente guerra di classe combattuta dalla borghesia contro il proletariato; estrarre una singola frase da un contesto d'analisi più generale è cosa vecchia che serve solo a fare della sterile polemica che non interessa praticamente nessuno.
Ma queste sono solo opinioni. Non è opinione il fatto matematico che un quadrilione è diecimila volte più grande di 100 trilioni, per il semplice motivo che un quadrimilione è uguale a 1 seguito da 24 zeri, mentre 100 trilioni è uguale a 1 seguito da 20 zeri.
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Claudio
Thursday, 31 March 2016 00:32
Questo tentativo d’analisi manca d’una visione d’insieme del sistema capitalistico di produzione e quindi della sua crisi, che è crisi dell’attuale modello sociale, per questo si limita a considerare alcuni importanti settori e le loro specifiche crisi, come: il crollo delle borse, quello del prezzo del petrolio, la frenata cinese, la crisi bancaria, lo spettro della deflazione, per finire con quella che chiama dinamica salariale, trattandoli come se non facessero parta di un unico insieme, e, quindi, di una stessa crisi globale complessiva.
Credo che per comprendere la portata dell’attuale crisi e della sua mancanza di soluzione a breve termine, occorre partire dai concetti marxisti elementari, e cioè dal fatto che nel sistema capitalistico si produce per il mercato, cioè per vendere, e quindi se non si riesce a vendere non si produce ed il sistema va in crisi per sovrapproduzione. Ora, infatti, tutti i settori produttivi sono in sovrapproduzione, a livello globale, per questo non riescono a sbloccarla nonostante che tutte le banche centrali abbiano stampato e immesso sul mercato migliaia di miliardi di moneta. Ma se c’è sovrapproduzione vuol dire anche che sussiste il suo rovescio, cioè sottoconsumo, il quale dipende da vari fattori. La grande finanza globale dagli anni ottanta del secolo scorso ha lanciato la guerra al salario per aumentare i profitti (altro che “dinamica salariale ferma ormai da decenni”) e ridotto i profitti della piccola e media borghesia con la spietata concorrenza delle multinazionali, e col forte inasprimento delle tasse. Tutto ciò ha fatto crollare i consumi. Inoltre, data la profondità ed il prolungarsi della crisi, gli stati, che come sappiamo sono organizzazioni del potere borghese, hanno cercato di sostenere i profitti e di salvare le banche e i settori in crisi, sborsando grandi quantità di denaro, e quindi indebitandosi come nei tempi di guerra. Risultato, le classi medio basse sono state impoverite e debbono ridurre i consumi, riducendosi i consumi i capitalisti privati non fanno investimenti, gli stati, da parte loro, essendosi fortemente indebitati non sono in grado di poter fare politiche keynesiane con grandi investimenti nelle infrastrutture, ma anzi spremono con sempre maggiori tasse per non rischiare il default.
Per quanto riguarda la frenata cinese, se invece di rifarsi alle sciocchezze che ripetono i media ci si ragiona un po’, si capisce che ciò è assolutamente normale, in quanto quando inizia a svilupparsi un paese, parte da quantità produttive piuttosto ridotte, per cui riesce a realizzare abbastanza facilmente elevate percentuali di crescita (per es. poniamo che la produzione iniziale sia 1, basta che riesca a produrre un altro 1 in più, per aver realizzato una crescita del 100%): Man mano che si sviluppa, la base del calcolo cresce, per cui, pur crescendo in assoluto molto di più che nel periodo iniziale, realizza percentuali di crescita assai inferiori (Ipotizziamo che la produzione di quel paese sia cresciuta negli anni fino a quadruplicare il volume iniziale, raggiungendo una produzione di 4, se nell’anno in esame riuscisse a crescere di 2, portandola complessivamente a 6, con un di più di prodotto addirittura doppio dell’anno iniziale, avrebbe realizzato un incremento del 50%, cioè dell’esatta metà. Per quanto poi riguarda la riduzione delle esportazioni cinesi, oltre che dalla crisi, dipende anche dalla nuova politica nazionale intrapresa che tende ad un maggior consumo interno, anche per cercare di attenuare le loro tensioni sociali. Definite “fenomeno nuovo la fuga di capitali”, il che non è assolutamente vero. Per ciò che concerne il rapporto tra finanza e ricchezza reale (un quadrilione/100 trilioni) corrisponde ad un rapporto 1/10 e non 1/10000, o mi sbaglio?
Per finire, sentite, sentite: “la drastica riduzione dei livelli salariali è consequenziale allo sviluppo abnorme delle attività finanziarie speculative” , quindi per voi non si tratterebbe di guerra di classe al salario, dalla finanza speculativa! Insomma, un vero e proprio insulto al povero Marx, ma credo anche a Damen.
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