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La crisi e il lungo silenzio della sinistra

Antonio Lettieri

Era l’occasione per un profondo riesame culturale e politico, ma un lungo silenzio ha dominato i grandi partiti della sinistra europea. Il timore di uscire dall’ortodossia ha finora prevalso sulla voglia di indagare sullle origini sociali della crisi, sul fallimento delle teorie neo-conservatrici e sulla possibilità di aprire nuovi percorsi ideologici e politici

E’ passato poco più di un anno da quando il mondo fu scosso da quella che fu definita la crisi più grave dopo la Grande Depressione degli anni Trenta. La crisi, non diversamente da quella del 1929, era nata dal crollo delle banche. Ma questa volta fu chiaro che alla sua origine vi era, oltre alla speculazione finanziaria, l’esplosione degli squilibri sociali accumulati negli ultimi decenni. Con la stagnazione dei salari e la requisizione dei guadagni di produttività a vantaggio del venti per cento della popolazione più ricca, l’economia americana era cresciuta sull’indebitamento delle famiglie. E le banche avevano trovato il modo di realizzare una colossale speculazione sui mutui ipotecari, adottando i più sofisticati strumenti della finanza innovativa.

Ma, non ostante le loro responsabilità nella crisi, si fece strada l’idea che innanzitutto bisognasse salvare le banche per evitare una nuova Grande Depressione. “Troppo grandi per lasciarle fallire” divenne il principio direttivo di tutti governi occidentali. Si sarebbe pensato dopo a rimettere in movimento l’economia reale e ad arginare la disoccupazione che, intanto, cresceva a vista d’occhio.

A poco più di un anno di distanza, possiamo dire che l’operazione salvataggio delle banche è riuscita. Anzi fanno grandi profitti e distribuiscono bonus come in pieno boom dell’economia, creando un certo  imbarazzo perfino nell’élite del capitalismo globale che si riunisce annualmente fra le nevi di Davos. Come è potuto avvenire? Semplice. I governi occidentali hanno messo a loro disposizione alcuni trilioni di dollari con pesanti conseguenze per i bilanci pubblici.

Gli effetti della recessione sommati ai salvataggi non potevano non far lievitare i disavanzi pubblici. Gli Stati Uniti presentano un disavanzo di bilancio superiore al 10 per cento, il più alto mai registrato in tempo di pace. In Gran Bretagna siamo vicini al 13 per cento del Pil. La Grecia, il Portogallo e la Spagna si trovano in una condizione che oscilla all’interno di queste cifre. Che fare in queste circostanze? Il caso esemplare è la Grecia. La Commissione europea esige il rientro nei parametri di Maastricht nel più breve tempo possibile. La Grecia non avendo altra scelta – se non l’uscita dall’euro con i rischi connessi –  s’impegna a contrarre il disavanzo dal 13 al 2 per cento entro il 2012. Per riuscirci dovrà ridurre gli stipendi pubblici, aumentare la tassazione indiretta, privatizzare una parte di imprese pubbliche.

La Commissione europea e la Banca centrale europea si dichiarano finalmente soddisfatte. Ma per un paese già in crisi è una cura da cavallo, un enorme salasso. I sindacati si ribellano. I mercati finanziari apprezzano la scelta di “lacrime e sangue”, ma non credono che il governo socialista riesca a realizzare il programma. Riparte la speculazione finanziaria e si estende al Portogallo e alla Spagna. In sostanza, la Commissione europea a la Banca centrale adottano le stesse misure strangolatorie tipiche del Fondo monetario internazionale: le cosiddette politiche di aggiustamento tendenti alla riduzione dei salari reali, della spesa sociale e degli investimenti pubblici.

Ma la Grecia è solo la punta dell’iceberg di una politica che è uno spudorato ritorno al passato. All’inizio della crisi, si spiegò che il primo passo doveva essere arrestare la frana della finanza. Il secondo passo sarebbe stato quello dell’intervento nell’economia reale e dell’impegno per la ripresa dell’occupazione. Oggi si spiega che l’obiettivo è il rientro dei disavanzi di bilancio,  la cui origine – non dimentichiamolo –  sta proprio nella recessione e nel salvataggio delle banche. Quella che Paul Krugman chiama la “budget hysteria” blocca il secondo passo: l’intervento per rilanciare l’economia e l’occupazione. La politica neoconservatrice riprende fiato. Lo Stato deve rientrare nei ranghi. La riforma sanitaria in America è ridotta a un simulacro, e rischia di svanire del tutto. La disoccupazione rallenta la ripresa – e reciprocamente – ma consente l’aumento della produttività e dei profitti insieme con un’ulteriore compressione di salari.

Non è detto che questa linea passi, dal momento che le conseguenze sociali della crisi occuperanno un lungo arco di tempo. La crisi del ‘29 ebbe alti e bassi per un intero decennio. Ma fu anche l’era del New Deal, che gettò le basi di una rivoluzione culturale e sociale che proiettò i suoi effetti nei decenni successivi.

Potevamo aspettarci un nuovo “New Deal”, dopo quella che all’unisono è stata definita la più grave crisi degli ultimi 80 anni? Sarebbe stata una speranza esagerata. Quello era il tempo di Franklin Roosevelt, di John M. Keynes, di Lord Beveridge. A vario titolo, tutti convinti che il vecchio modello liberista si era dimostrato  fallimentare, e che un nuovo ruolo spettasse allo Stato per garantire la crescita, il pieno impiego e un nuovo equilibrio sociale. Non erano anticapitalisti, né marxisti. Ma erano l’espressione di una visione del mondo e di una pratica politica che non si fa fatica a definire progressista o di sinistra.

Oggi la crisi si consuma nell’opacità del dibattito culturale e politico. O, per essere più precisi, il dibattito si svolge in America nella minoranza democratica che si colloca alla sinistra di Obama. In Europa emerge, invece, più o meno confusamente all’interno degli schieramenti di governo di centro destra, come dimostra lo scontro fra Angela Merkel e i partner liberali sui temi sociali e fiscali.  Ma è un dibattito che difficilmente sfiora la sinistra europea, per non citare quella italiana. I grandi partiti della sinistra o del centrosinistra, non importa se al governo o all’opposizione, tacciono o si muovono al margine del grande scempio che la deregolazione ha portato nel mondo del lavoro. La tutela del lavoro è considerata un’utopia novecentesca. I sindacati sono guardati con sospetto e considerati responsabili del dualismo del mercato del lavoro. L’intervento pubblico, dopo l’ubriacatura delle privatizzazioni, è considerato un ritorno al passato.

La crisi, in questo non diversamente dagli anni Trenta, è il fallimento del modello economico neoliberista. Questa cultura si era profondamente insinuata nella sinistra, appena mascherata dalla retorica della “Terza via”. La crisi era l’occasione per un profondo riesame culturale e politico. Ma poco o nulla si è visto in questa direzione. Un lungo silenzio ha dominato i grandi partiti della sinistra europea. Il timore di uscire dall’ortodossia ha finora prevalso sulla voglia di indagare nelle origini sociali della crisi, sul fallimento delle teorie neo-conservatrici e sulla possibilità  di aprire nuovi percorsi ideologici e politici.

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