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distopie

Monsters

Tracce per la decostruzione dell’immaginario distopico post-Charlie Hebdo

di Gaia Giuliani

john henry fuseli - the nightmareNelle righe che seguiranno proverò, in linea e in dialogo con quanto scritto da Gabriele, a comprendere quanto dietro all’utopia della (ri)fondazione della comunità immaginata (dei buoni, dell’occidente) stia il delinearsi di una codificazione del mostruoso che, sin dall’11 Settembre, vede nel maschio musulmano non-bianco l’altro che per contrasto definisce il Noi. La letteratura critica è, per fortuna, molto vivace e tocca tantissimi temi – quello dell’islamofobia come eredità coloniale, della nuova fondazione dello stato ‘morale’ e conservatore mediante omonazionalismo e femonazionalismo (ossia la strumentalizzazione ideologica da parte del discorso nazionalista dei discorsi emancipazionisti delle formazioni gay e femministe) contro il barbaro immorale, il razzismo multiculturalista, le nuove forme di razzismo culturalizzate. Non sto ora a darne una descrizione approfondita, ma delle fantasie di bianchezza e delle gerarchie patriarcali ed eterosessiste abbiamo scritto in ciascuno dei brevi saggi apparsi in Distopie.

Mi voglio invece soffermare sulla costruzione del Noi – bianco, borghese, cristiano, ‘moralista’ e conservatore – e dei suoi nuovi abietti, i nuovi mostri ‘alieni’ ad una supposta civiltà occidentale che viene ora descritta quanto mai omogenea e solidale al suo interno.

Ciò che vedo di solidale è solo il consenso dei potenti alle strategie neoliberiste di ristrutturazione economica, sociale e culturale, e a parte ciò, non molto altro, ‘nonostante i proclami’ – o forse sarebbe meglio dire ‘suffragate e sostenute dai proclami’ – su diritti, integrazione e uguaglianza di genere alla base dei finanziamenti europei alla ricerca e alle politiche nazionali e comunitarie.

Sulle bugie dell’omogeneità che regnerebbe all’interno della cosiddetta ‘civiltà occidentale’ si è scritto molto e a livello storiografico non si è mancato di raccontare come nei secoli passati, così come sotto la coltre della Pax Americana post-bellica, le diverse attitudini e i diversi approcci alle questioni religiose, culturali, politiche, economiche e sociali siano all’interno del cosiddetto occidente niente meno che conflittuali – basti pensare al lavorio dei servizi segreti e delle logge massoniche per tenere a bada le suddette differenze.

Senza richiamare la costellazione di massacri che ha caratterizzato la Modernità occidentale al suo interno e che sono stati veri e propri momenti ‘fondativi’ dell’istituzione moderna ‘Stato’, l’Occidente e l’Europa nello specifico, come ha sottolineato Gabriele, hanno sempre dovuto fare i conti con i propri abietti, mostri socialmente costruiti che nel corso dei secoli sono stati disciplinati con l’uso della forza (si pensi al Bava Beccaris e ai massacri di scioperanti nel biennio rosso), delle gabbie foucaultiane e con gli strumenti della marginalizzazione e dello sfruttamento.

È così che l’utopia di una nuova fondazione, come quella di cui i capi di stato solidali hanno dato sfoggio aprendo il corteo a Parigi nei giorni scorsi, diviene ai nostri occhi una narrazione dal sapore distopico, eugenetico, di purificazione dal mostruoso insediatosi – ‘essi vivono’ – dentro il cuore della democratica Europa.

L’islam, da sempre presente nel continente, diviene l’incubatore dell’alieno pronto ad uccidere, anzi a sterminare, come in una iperreale ‘guerra dei mondi’, contro cui diviene necessario il potenziamento delle forme di controllo sia a livello comunitario – la biometrica e la sicurezza internazionale sono tra le voci più finanziate dai bandi della Commissione europea – sia a livello nazionale. Non importa se gli attentatori erano francesi: essi restano non-assorbibili, abietti. Non importa se in quello che viene esternalizzato e definito come ‘il loro mondo’ – l’Altro dell’Occidente – il fondamentalismo armato miete assai più vittime che in Occidente: non ci interessa cosa fa nel suo pianeta [quello su cui noi peraltro investiamo miliardi] perché le vittime che uccide sono gli ‘uccidibili’ di Talal Asad (Sull’attentatoresuicida, 2009) , sono altre specie aliene, di importanza minore, meno umani degli umani (leggi bianchi).

Il maschio di non-bianco – e massimamente il corpo maschile nero – è sempre stato visto come portatore di violenza incontrollabile, di forza fisica smisurata, di differenza intrinseca rispetto al soggetto ‘normale’ (leggi bianco e di classe media) che viene offerto a paradigma di comportamenti pubblici e privati, e di conformazioni intellettive e morali (assenti nel suo ‘opposto negativo’ vista la sua bestializzazione nel discorso occidentale). Ad esso si sono affiancate, a partire dal XIX secolo, le rielaborazioni dei discorsi anti-islam precedenti tipiche del razzismo positivista, le quali assegnavano alle persone ‘brune’ – i semiti, per utilizzare la dicitura del tempo – un’irrazionalità barbara, una passione religiosa per la vendetta, una violenza crudele contro l’infedele. Tutta ciò ora precipita a identificare il pericolo pubblico, agente sterminatore, contro cui – come dice giustamente Gabriele – solidificare un Noi che fa sparire al suo interno le divisioni di classe, razza, provenienza territoriale, orientamento sessuale, identità di genere e così via.

Charlie diviene il nuovo soggetto sovrano, almeno temporaneamente, epigone di una nuova guerra, un nuovo eroe che è tale non solo perché vittima dello sterminatore, ma anche perché ha ‘sempre detto senza mezze parole dove stava l’abietto e che faccia aveva’. Ecco che allora la libertà di espressione sembra assomigliare alla difesa della versione vignettistica dell’antropologia lombrosiana, quella che diceva che le donne sono tutte puttane, che i neri (inclusi meridionali e colonizzati) sono tarati e atavici, che le classi subordinate sono folle incontrollabili e barbare. Lombroso per molto tempo e in molte nazioni è stato considerato un grande scienziato, capace di dare una metrica alle nozioni razziste fino ad allora – o fino a poco prima – rimaste solo speculative.

Io non sto con Lombroso. Tra i mostri di cui ci parlava, e di cui ancora si parla ad esempio in riferimento alle cooperanti recentemente liberate, ci sono anche io. Greta e Vanessa, liberate giorni fa dopo il sequestro da parte dello Stato Islamico (ISIS) in Siria sono descritte dalla vulgata maschilista e neocoloniale le nuove puttane vendutesi al nemico: secondo la nostra ottica, esse ribadiscono il ruolo liminale delle donne nei contesti coloniali descritto da Ann Laura Stoler, trattate come vettori di missione civilizzatrice e riproduzione della superiorità colonialista o, al contrario, come vettori di decadenza morale e di razza. Dal canto mio, in quanto donna promiscua e dall’orientamento labile, mezza meridionale e dalla forte attitudine a mescolarsi con la folla rabbiosa, sono uno dei target di un sistema semantico moralizzatore e (etero) sessista che non manca di avere effetti materiali, nel mercato del lavoro così come nelle aule dei tribunali. Gli abietti di Lombroso – da rinchiudere nelle carceri, nei sanatori, nei manicomi o da rieducare, semmai fosse possibile – hanno oggi altre caratteristiche sociali, ma spesso gli stessi fenotipi e gli stessi stereotipi appiccicati addosso. Qualcuno, tra i sommersi, si è salvato: è ciò che denunciano molte femministe rispetto alle posizioni di associazioni e personalità gay in Europa e nel resto dell’Occidente. Talvolta le posizioni di questi ultimi sono state sussunte dal discorso nazional-conservatore e xenofobo, contro i nuovi mostri uncivilised. Si sono salvati dal biasimo e dagli attacchi da parte del discorso istituzionale e politico (per quanto l’omofobia sia tutt’altro che sparita) perché stati sussunti in quel Noi che rivendica per sé la comunità ‘morale’, che non si sporca con le guerre di religione ma che a Ferguson, nelle banlieu parigine, a Rosarno, a Firenze uccide, segrega, vilipende. Non si macchia di guerre di religione: semplicemente risponde e previene la Guerra dei mondi (1897), continuando a fare – come notava H.E. Wells, autore del celebre romanzo di fantascienza – ciò per cui l’Occidente ha avuto un assoluto primato, la guerra coloniale.

Il nuovo abietto è, dunque, in ottima compagnia – i massacri all’iprite dell’esercito coloniale italiano in Etiopia o la Guerra di Libia ne sono un esempio, fino a giungere al più temporalmente vicino Vietnam sotto assedio americano o Abu Graib – sia nella storia della modernità occidentale, sia in quella del suo presente postmoderno. Anche in Europa, come si diceva, e anche fra i bianchi, si trovano altri abietti. Le persone transgender in Europa hanno un altissimo tasso di mortalità violenta, le prostitute anche. Non dimentichiamoci però che qui come altrove il colore e la classe fanno la differenza. Se l’abiezione internazionale aveva colpito negli anni ottanta le persone sieropositive e con AIDS, ora l’accesso alle medicine antiretrovirali e il privilegio di classe – e di razza (si veda ciò che ha scritto l’intellettuale americano Theo Goldberg in proposito) – ha spostato la fama di untore sui malati di ebola e i sieropositivi che vengono dal sud del mondo e in massimo modo dall’Africa subsahariana. Motivo in più per erigere il muro contro l’alieno. La miscegenation da cui ci si teneva ben lontani – per paura di perdere il privilegio, appunto (vedi ciò che ha scritto Tatiana Petrovich Njegosh in Parlare di razza, 2012) – nel passato schiavista, segregazionista e colonialista (la moretta coloniale presa come divertissement da negare in madrepatria non fa eccezione) torna nella sua foggia post-apocalittica come epidemia zombizzante: non toccare l’altro che il solo contatto uccide. Mi viene in mente il film, da me affrontato in più luoghi, World War Z (2013) dove gli infettati sono mostrificati da un virus senza confini: i vettori di questo virus sono le popolazioni colonizzate, post-coloniali o neo-colonizzate del Sud del mondo – proprio i dannati della Terra (1961) di Frantz Fanon.

Gli effetti intrinseci e inscindibili dell’abiezione, lo sappiamo, contano da un lato lo sfruttamento massiccio, e fondato sul consenso pubblico e istituzionale, della forza lavoro migrante, dall’altro una ricodificazione del privilegio bianco che si fonda sullo spettro della crisi e dell’erosione di questo stesso privilegio.

Ecco che allora la nuova fondazione della comunità immaginata europea rischiara, invece che offuscare, la sua storia precedente, mettendo in luce il proprio trait d’union con la sua storia – A History of Violence. Mantiene, oggi come all’epoca delle colonie e delle piantagioni, la capacità egemonica di stabilire dove si posizionano – su quali corpi – le linee del colore, naturalizzando le forme di esclusione, accesso e accesso differenziale ai privilegi di una cittadinanza che è sempre, e necessariamente, definita da indici di razza, classe, genere e sessualità. Queste stesse linee stabiliscono anche il quantum di violenza differenziale che l’occidente investe nel disciplinamento dei corpi. In Iraq, in Afganistan, in Siria si userà un certo tipo di violenza, mentre dentro i propri confini, a seconda del posizionamento di ciascun soggetto, se ne useranno altri. La costruzione di un Noi e dei suoi abietti non è altro che la legittimazione discorsiva all’uso di tale violenza differenziale.

La violenza è legittima contro il mostro. La violenza del mostro, invece, non è legittima per definizione. Né quando si difende da quella legittima (come nel caso dei palestinesi a Gaza), né quando l’attacca in modo più o meno organizzato. La sua violenza è descritta utilizzando le stesse metafore coloniali: è irrazionale, è collettiva (perché ‘gli inferiori’ non sanno cos’è la soggettività individuale), è cieca, è crudele. A differenza di ciò che ha affermato sugli attentatori parigini il filosofo sloveno Slavoj Žižek – e che io ho trovato di un sapore coloniale inaccettabile [ – secondo cui essi hanno interiorizzato la propria inferiorità al ‘modo occidentale’ di gestire le questioni religiose e di libertà di parola ed espressione, io credo che a ciascun criminale vada restituito il suo. Fanon, nel suo Pellenera maschere bianche (1952) disse, attaccando le affermazioni dello psicologo francese Octave Mannoni secondo cui i malgasci erano subalterni coloniali perché sapevano di essere inferiori – avevano cercato e meritavano il colonialismo, in poche parole – che il colmo del pensiero normativo e colonizzatore occidentale è non solo affermare la propria benevolenza, ma anche la necessità fisico-morale, per i colonizzati, di una guida destinandoli ad una infantilizzazione perenne. Ancora una volta, non sono individui, non hanno una soggettività propria, non sanno che cos’è la responsabilità individuale. Ebbene, io non credo che gli attentatori vadano inferiorizzati, né privati della loro voce. Essi hanno agito come hanno agito – come i militanti di Casa Pound che hanno bastonato fino al coma un ragazzo di sinistra a Cremona pochi giorni dopo i fatti di Parigi: con l’aggrevante ideologica. Non c’è nessuno scontro di civiltà, nessun arruolamento di massa alla guerra religiosa contro l’Occidente. È la foglia di fico dietro cui si vuole nascondere il fatto che la violenza nasce da violenza. Oltre a condannare i criminali come tali, e dunque come individui che hanno scelto di armarsi e uccidere delle persone disarmate, riferirei questi fatti a ciò che Fanon definisce la ‘picopatologia del colonizzato’: per poter cogliere le origini della violenza, la sua genealogia, è necessario dare uno sguardo alla cornice di violenza strutturale in cui essa prende vita. Parigi nel 2015, come Londra e Barcellona nel 2005 e le Torri Gemelle nel 2001 non sono, dunque, disastri naturali, cagionati da entità indistinte, agenti metastorici senza radici nella storia umana passata e recente: sono il risultato di equilibri internazionali in cui noi tutti siamo immersi – in modo più o meno passivo – e che si realizzano per mano di persone, che per questo vanno punite.

Dire apertamente che la violenza del mostro è ‘sempre illegittima’ come ha già scritto Talal Asad, non vuol dire, ovviamente, invitare al capovolgimento di questa logica. Al contrario, significa togliere la foglia di fico, e delineare quali sono i campi semantici all’interno dei quali ‘Io sono Charlie’ sta prendendo vita.

Io non sono Charlie. E questa non è una questione di libertà di espressione. Mi spiego meglio.

Nei primi anni Novanta facevo parte, giovanissima, di un centro di documentazione libertario nella cittadina dei miei, nelle Marche. Un bel gruppetto di compagne e compagni con cui ho imparato a non tralasciare mai uno sguardo d’insieme, ad individuare immediatamente dove si insinua l’autorità, a non rinunciare mai a nessuna delle prospettive intersezionali per una sana radiografia del potere (vedi G. Giuliani e C. Martucci, The L(ove) Word, in Giuliani, Martucci, Galetto, L’amore al tempo dello tsunami 2014). In quegli anni due di noi vennero accusati di vilipendio al papa, e queste accuse li hanno travolti minacciando il loro posto di lavoro, la loro capacità di parola nella società e di negoziazione con le istituzioni del luogo. Mi sono sempre chiesta che cosa sia veramente la libertà di espressione quando le relazioni di potere sono così sbilanciate. Come ha scritto Corey Oakley, in uno articolo apparso sull’australiano Red Flag la vignetta che ritrae supposti attentatori fondamentalisti in procinto di essere colpiti da una raffica di matite e le stesse matite di cartone portate in piazza dai manifestanti in giro per l’Europa in solidarietà con i vignettisti parigini, sintetizzano la spocchia suprematista dell’Europa ex-potenza coloniale: solo noi sappiamo cos’è la cultura, solo noi possiamo vantare la libertà di stampa, solo da noi le persone si sentono libere etc. etc. Noi non usiamo le bombe, noi non usiamo i droni, non non spariamo sui bambini. Come ci ricorda American Sniper di Clint Eastwood (2014), è esattamente così.

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