Print Friendly, PDF & Email

Precarietà, flessibilità, creatività

intervista di Cesare Del Frate ad Enzo Rullani

copertina iNei suoi saggi, lei sostiene che la new economy adotta come principio la valorizzazione della complessità, piuttosto che il suo controllo. Che cosa si deve intendere per complessità in campo economico?

Il termine new economy oggi non va più di moda, dopo i fasti degli anni Novanta. Ma di quella stagione, passata la bolla speculativa che l’ha “bruciata”, rimangono due cose. La prima è la fabbrica flessibile, primo nucleo di intelligenza artificiale insediato nei processi produttivi, che può fornire una produzione “a lotto uno” (pezzi singoli), o in piccole serie, senza eccessiva crescita dei costi. La seconda è la rete globale e al tempo stesso capillare di Internet, che fornisce una formidabile base tecnologica per la divisione del lavoro cognitivo a scala molto estesa, tale da esaltare le chances del networking intellettuale e di business.

La complessità, intesa come varietà, variabilità e indeterminazione, costa oggi molto meno di una volta. L’impresa automobilistica che introduce nuovi modelli ogni mese, o il produttore di abbigliamento che pratica il “riassortimento continuo” in funzione delle vendite realizzate, giorno per giorno, nei negozi di tutto il mondo non sono più rare eccezioni.

Non c’è più il produttore che fa tutto da sé, secondo la regola fordista della massima integrazione verticale del ciclo produttivo. Oggi il tipico produttore manifatturiero lavora in filiera (dividendosi il lavoro con altri, a monte e a valle), si specializza in un particolare core business e ricorre estesamente all’outsourcing per tutto il resto, acquistando dai fornitori materiali, energia, componenti, semilavorati, lavorazioni conto terzi, servizi e conoscenze.

O facendo queste cose in joint venture con alleati di vario genere.

Questo processo di divisione del lavoro in filiere sempre più popolate di specialisti e di connessioni a rete è andato molto avanti in tutto il mondo. Ma in Italia ha assunto una dimensione strabiliante. Pochi sanno, ad esempio, che le 4000 medie imprese portanti del capitalismo italiano comprano da fornitori esterni l’81%, in valore di ciò che vendono ai loro clienti. Significa che le loro decisioni di produzione mettono in movimento molta più gente “fuori dai cancelli” dell’azienda che dentro. La loro “fabbrica estesa” comprende non solo i 19 lavoratori che operano alle dirette dipendenze ma anche gli 81 che, nel circuito della rete di fornitura, dipendono da altri. Il modello emergente di produzione è quello del Lego, in cui gli stessi moduli possono essere facilmente inseriti in architetture differenti, in risposta a bisogni differenziati e variabili degli users.


L’impresa incorpora la conoscenza nelle procedure produttive. E la produzione di massa richiede la standardizzazione dei processi di produzione: la catena di montaggio. Eppure, oggi sembra importante un utilizzo non standardizzabile della conoscenza, una sua messa all’opera “creativa”. Ma in che modo la conoscenza può essere sfruttata creativamente?

La conoscenza moderna è costruita in modo da essere replicabile e il contesto del suo uso viene artificialmente reso conforme allo standard in modo che questa replicazione possa avvenire a costo zero, in condizioni sicure e con pochissimi adattamenti. I vantaggi in termini di efficienza sono stati notevoli e si sono materializzati nella crescita storica della produttività per più di due secoli. Ma la replicazione dello stesso standard, che abbatte i costi, riduce in modo significativo il valore che quel prodotto o quel servizio hanno per lo user.

Le cosiddette commodities non suscitano passioni o desideri: sono beni considerati (spesso a torto) banali e il loro scarso valore unitario conferma questa idea. Lo spazio di libertà aperto dall’espansione della complessità non governata non può essere colmato acquistando più commodities: deve essere riempito dallo sviluppo di attività che portano alla scoperta di qualcosa di nuovo che possa appassionare, divertire e differenziare. Ecco lo spazio in cui rinasce l’economia della creatività, che costruisce desideri, simboli, linguaggi non precostituiti. E li sperimenta insieme agli users della moda, dell’arredamento, del gioco, della gara sportiva.

Il problema è che la creatività non può “uccidere” le altre due caratteristiche portanti del valore fornito all’user: l’efficienza e la flessibilità. Dunque bisogna imparare a essere creativi in modo efficiente. Può sembrare un ossimoro che mette insieme cose antagoniste, ma la scommessa imprenditoriale è invece il contrario: ci sono modi di essere creativi che non contraddicono l’efficienza (il ri-uso replicativo della conoscenza) e la flessibilità (l’adattamento alla domanda e alle contingenze del momento).

Nella filiera, il rapporto tra i diversi livelli diventa sempre di più interattivo, nel senso che i diversi specialisti sono incentivati a collaborare per esplorare soluzioni nuove, mettendo a rete il sapere disponibile. E questo coinvolge non solo i saperi tecnici, ma anche quelli del marketing, del design, della comunicazione, del racconto.

E ovviamente i centri di ricerca e le università che si attrezzano per essere parte attiva di questi circuiti emergenti. Tuttavia non basta seguire la domanda e i suoi capricci: la complessità non è turbolenza fuori controllo, ma anche esercizio libero di scoperta. Dunque essa cresce anche per le iniziative di esplorazione congiunta intraprese da produttori e consumatori, che costruiscono codici estetici e linguaggi tecnici adatti alla mappatura del desiderabile. La maggior parte del valore nelle economie di oggi deriva da questa seconda attività, in cui non contano soltanto efficienza e flessibilità, ma diventa fondamentale la creatività delle persone e delle imprese che sono presenti nella filiera. La produzione di senso, allora, diventa la vera fonte di valore economico. E i prezzi rispecchiano questa nuova esigenza.

I frequenti richiami a Internet come simbolo dell’economia della complessità sono suggestivi ma vaghi. Che cosa si intende quando si propone la metafora dell’intelligenza in rete per descrivere la società dell’innovazione?

Una rete non è altro che un sistema di supporto alla divisione del lavoro, alla comunicazione e all’impegno reciproco che lega i membri tra loro. La rete costituisce il frame più efficace per valorizzare la conoscenza, facilitando così la specializzazione delle competenze e la moltiplicazione dei ri-usi.

In questo senso la rete non è definita dagli eventuali contratti giuridici (consorzi, joint ventures, cooperative, associazioni) che legano tra loro alcune imprese o persone. Ma è definita dall’esistenza di investimenti specifici fatti da un certo numero di imprese o di persone in risorse connettive che le legano, rendendo più facile la divisione del lavoro tra loro rispetto all’esterno. La rete sostituisce, nella storia degli ultimi trent’anni, le grandi piramidi auto-referenti e chiuse della storica esperienza fordista.
Le reti sono usate ormai anche dalle grandi imprese, per divenire meno rigide e “pesanti” tramite l’outsourcing, ma hanno soprattutto una funzione abilitante nei confronti delle piccole imprese perché consentono loro varie cose. Di essere efficienti, se si specializzano in un campo specifico e comprano tutto il resto da altri specialisti. D’essere flessibili, perché hanno accesso alle competenze, alle lavorazioni, agli investimenti fatti da altri. D’essere creative, perché nella rete possono collegarsi “creativi” che stanno in altri contesti e che entrano in contatto con gli users a distanza.
L’esistenza di reti consistenti che associano decine di imprese manifatturiere, fornitori di servizi, banche, università, centri di ricerca e società di servizi mobilita l’intelligenza creativa delle persone e delle imprese anche di piccola scala, perchè fornisce loro non solo un terreno di possibile divisione del lavoro ma anche un potenziale pubblico di clienti interessati allo sviluppo di nuove idee che partono da un punto del network e mobilitano gli altri intorno a un progetto comune.


Rispetto agli altri Paesi occidentali, ma anche rispetto a nuovi protagonisti come la Cina, l’India e il Brasile, come si colloca l’Italia nell’economia dell’immateriale e nella creazione di una società della conoscenza?

I Paesi low cost sono una sfida per l’Italia perché noi, in passato, abbiamo fatto i “cinesi d’Europa”: un Paese a basso costo del lavoro (rispetto a Germania, Francia e Gran Bretagna) dove era possibile importare macchine e conoscenze dall’esterno in condizioni vantaggiose. Oggi che in Europa sono arrivati altri Paesi, con costi del lavoro inferiori ai nostri, e che il mercato europeo si è aperto all’economia globale, questo posizionamento è diventato indifendibile. Essendo arrivati i “cinesi titolari”, ci troviamo a fare la parte dei “tedeschi”: ossia a dover organizzare la produzione in un Paese high cost.

Come si fa? C’è un’unica via (i dazi e altre misure difensive non fermeranno l’alluvione): compensare con un differenziale di conoscenza a nostro vantaggio il differenziale negativo che abbiamo dal lato dei costi. Ovviamente si deve trattare di conoscenza originale, veicolata agli users attraverso reti esclusive, che gli altri non possono facilmente usare.
Se l’Italia vuole superare i limiti attuali di cui soffre il made in Italy, deve puntare a qualificarne i significati, in modo da rimarcare le differenze qualitative e semantiche rispetto ai molti prodotti commodities che lo insidiano dal lato dei costi. Altri Paesi hanno già imparato come trarre vantaggio dallo sviluppo dei Paesi emergenti, comprando prodotti low cost e vendendo i loro prodotti tecnologici o di qualità di cui avranno sempre di più bisogno.

 

Una delle caratteristiche dell’economia dell’immateriale è il progressivo sfumarsi della distinzione fra produttore e consumatore. A tale proposito, lei ha paragonato la merce a ciò che Umberto Eco chiama “opera aperta”. Ci potrebbe spiegare questa dinamica?

Un lettore, come bene spiega Umberto Eco, non si limita a replicare nella sua mente le idee a cui pensava lo scrittore mentre scriveva. Traducendo nei propri termini i significati e le situazioni riprese dal libro, in pratica il lettore “riscrive” il libro.

Lo stesso fa il consumatore intelligente, che elabora significati e pone domande nel contesto di uso del prodotto. Il produttore spesso non immagina nemmeno in che modo il consumatore “rileggerà” il suo prodotto, al momento dell’uso. Ma, se si tratta di un produttore flessibile e creativo, è sicuramente molto interessato a saperlo, perché è solo aumentando il valore generato per il cliente che potrà imparare a migliorare la qualità del suo prodotto e ottenere un prezzo superiore.

Add comment

Submit