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Ipotesi sul comunismo*

Note per una discussione / 1

Fabio Raimondi

Parlare di comunismo oggi potrebbe sembrare un gesto desueto, per non dire nostalgico, una postura estetizzante e provocatoria o, peggio, la progettazione astratta di un’utopia. Non è così. Nonostante il tema sia del tutto escluso dal dibattito pubblico, esso è presente in alcune delle riflessioni politiche più interessanti del nostro tempo e si presenta come un modo per provare a capire le trasformazioni che stanno segnando il periodo di crisi in cui viviamo. La decisione di proporre una serie di affondi sul comunismo risponde al bisogno di confrontarsi con un discorso esigente e strutturato, anche se rimosso dalla fine del socialismo reale, per capire se può darci strumenti utili a entrare nel futuro comprendendo il passato e aggredendo il presente della crisi della globalizzazione capitalistica, ma anche quello della falsa alternativa dei «beni comuni» e del «soggetto mite».

Cos’è (o cosa potrebbe essere) comunismo nell’era della globalizzazione capitalistica? Partendo da questa domanda cercherò di analizzare un libro recente1 , il cui fulcro è una conversazione tra Étienne Balibar e Antonio Negri (dei quali prenderò in esame anche altri testi), discutendo alcuni degli argomenti che mi sembrano in esso più rilevanti, senza pretese di completezza e senza la velleità di esaurirne la ricchezza e la complessità. Lo scopo è tracciare una mappa, di cui questo è solo un primo e provvisorio tassello: il prossimo riguarderà Alain Badiou e Slavoj Žižek, due filosofi che, soprattutto di recente, hanno ricollocato la questione al centro dei loro discorsi facendosi anche promotori di un dibattito a livello internazionale.



La prospettiva del «comune»

In questo paragrafo prendo in esame alcune posizioni dei sostenitori del «comune» che, nel volume citato, corrispondono a quelle di Antonio Negri, Michael Hardt, Gigi Roggero e Anna Curcio, riassumendone gli assunti principali in due blocchi.

1. La «forza-lavoro» sta tendenzialmente diventando «sempre più immateriale e cooperativa»2 , perché le competenze richieste nel lavoro contemporaneo sono sempre più legate a conoscenze astratte (anche di alto livello) e a capacità relazionali ed emotive, soprattutto di tipo comunicativo.

La nuova natura del lavoro instaura, volente o nolente, rapporti di produzione necessariamente cooperativi, dentro i quali si danno anche i classici processi conflittuali tra capitale e lavoro. Questa cooperazione è chiamata «comune».

Una tesi condivisa dagli attuali studiosi dell’organizzazione del lavoro e del management: «il lavoro è sempre più raramente lavoro materiale, uso della forza muscolare per trasformare fisicamente la materia prima in prodotto finito. È principalmente lavoro mentale (cognitivo), che usa le conoscenze per produrre altre conoscenze, portatrici di utilità. E questo non riguarda pochi ruoli “intellettuali” (professori, artisti, scienziati ecc.), ma tutti: anche il lavoro operaio si sviluppa guidando macchine (con la conoscenza) e usando il cervello prima dei muscoli»3 . Siamo in una fase di «transizione»: il lavoro manuale non è scomparso né sta scomparendo (anzi il settore manifatturiero è in crescita a livello mondiale), ma il valore si produce applicando conoscenze nuove all’organizzazione d’impresa e ai processi produttivi (anche il Mule-Jenny però lo faceva), come se non ci fossero più mani e cervelli che poi le fanno funzionare e contribuiscono a migliorarle4 . È ancora il capitale, per ora, che media i due piani del lavoro: manuale e cognitivo.


Mi pare che nei discorsi di chi sostiene la prospettiva del «comune» ci siano (anche di là dalla lettera) analogie non tematizzate con le teorie dell’emergence e della self-organization ossia con le cosiddette scienze della complessità, che studiano le capacità auto-organizzative della materia inorganica e organica, animale e sociale5 ; si leggano, ad esempio, i «sette principi del management della complessità: auto-organizzazione, disorganizzazione creativa, condivisione, flessibilità strategica, network organization, circoli virtuosi e viziosi, learning organization», e la definizione di auto-organizzazione: «risultato di un processo dinamico di emergenza dal basso, basato sulle interazioni locali tra le parti costituenti e privo di controllo centralizzato, attraverso cui un sistema complesso riorganizza le sue componenti di base per formare una nuova configurazione dotata di proprietà diverse rispetto alle sue componenti elementari». La nocività di un «direttore d’orchestra» e l’idea della «tela senza il ragno» sono principi condivisi da molte aziende, anche multinazionali. In conclusione, «i tumulti, l’incontro casuale, l’agitazione termica sono necessari all’organizzazione dell’universo», perché generano qualcosa che prima non c’era: un ordine6 .

Quest’impostazione si sbarazza del teorema di Paley7 , perché la materia produce ordine dal caos da sola, e dà vigore all’idea del «comune» come auto-organizzazione. Ci sono, però, alcune questioni.

A) Banalmente: conoscenza, affettività e produzione non sono associate dall’alba dei tempi? Perché mai la loro relazione è dirimente solo oggi?

B) Come negli ingegneri gestionali, che stanno cercando di capire come sfruttare al meglio le caratteristiche dell’auto-organizzazione, lo chiamerei il capitalismo del comune, anche in chi sostiene il «comune» il tono mi pare troppo spesso apologetico. Il problema del male (o quello dell’eterogenesi dei fini, tanto più se si fa riferimento all’aleatorio e alla surdeterminazione in senso althusseriano), del tutto assente negli aziendalisti, e posto, ad esempio, da Virno8 , è raccolto da Negri e Hardt, ma non risolto, se non dicendo, alla fin fine, che amor (scil. odio di classe) vincit omnia: ma il desiderio non è così trasparente. La posizione del «comune» soffre dell’assunzione di un’antropologia solo positiva, secondo la quale se l’uomo non è condannato al male, perché «in continua trasformazione»9 , non si capisce però cosa lo porti necessariamente (e come) verso il bene10 . Se nel «comune» c’è conflitto (il «comune negativo»: «famiglia, impresa, nazione»)11 e produzione, allora ci saranno rapporti di produzione, ma quali? Chiamare «comune» solo le forme buone della cooperazione autorganizzantesi non mi pare sufficiente12 . Il male sembra un residuo che non appartiene al «comune», anche se si sviluppa in esso, visto che «la prima conseguenza della globalizzazione è la creazione di un mondo comune, un mondo che, bene o male, condividiamo tutti (we all share), un mondo rispetto al quale non c’è alcun “fuori”»13 . Bisogna allora fare i conti almeno con una figura precisa del male: la guerra civile, il problema delle fazioni, che mirano a distruggersi reciprocamente (uno dei problemi che Lenin, ad esempio, cercò di risolvere, senza riuscirci, per tutta la vita). Tacere sul fatto che potrebbe essere necessario introdurre misure coercitive, se non autoritarie, per affrontarlo fa venire il sospetto di trovarsi di fronte a un’idea mistica della cooperazione e alla riproposizione delle «magnifiche sorti e progressive» del proletariato (di qui l’accusa di teleologia che Balibar rivolge a Negri)14 . Supponiamo che la «moltitudine» sia auto-organizzazione e condivisione di pratiche comuni15 : questo basta a dire che c’è comunismo, che va solo liberato dalle grinfie del capitale? E una volta liberato, come si riproduce e difende?

C) Si potrebbe dire: «da incubi di gerarchia a sogni di rete», perché si immagina che il movimento continuo, nel quale si produce il «comune» debba e possa essere conservato come tale, mentre è proprio il lavoro auto-organizzato in rete che produce strutture e necessita, in varia misura, di dinamiche top-down e non solo bottom-up16 . L’espressione “dal basso”, infine, non elimina la gerarchia, ma la mantiene invertendola. Forse una qualche forma di gerarchia (contrariamente a quanto dicono i sostenitori del «comune» e molti altri) è necessaria, ma dovrebbe essere il frutto di un movimento di continua rigerarchizzazione e non fissa come nel feudalesimo né mascherata da un’uguaglianza astratta come nel capitalismo.

Va dato atto ai sostenitori del «comune» di voler usare questi strumenti per uscire dalla teoria del valore, tuttavia sono i punti di rigidità biologici e sociali, che possono essere cambiati ma non ad libitum, a rendere possibile l’auto-organizzazione. Anche in Spinoza, ad esempio, ci sono vincoli, affinché non si cada in un volontarismo dal basso in cui permane il concetto moderno di libertà come autodeterminazione individuale.

2.Il nuovo modo di produrre, definito «lavoro cognitivo» o «biopolitico», richiede la messa al lavoro della «vita» nel suo complesso e, dunque, produce merci e «soggettività». Il capitale ha così la necessità di catturare non solo la forza-lavoro, ma il «lavoro vivo» nel suo complesso ossia le forme soggettive ma individuali, non organizzate in classe (moltitudine), che esso assume nel rapporto cooperativo/conflittuale col capitale. Questo avviene tramite la «rendita», resa possibile dalla crescente finanziarizzazione del capitale. Per appropriazione essa origina il «comunismo del capitale». Il comunismo presente nelle forme cooperative del «comune» va liberato dal giogo del capitale, affinché possa dispiegarsi liberamente costruendo istituzioni proprie, presenti per ora solo in parte o in nuce.

La società si sta riordinando sul modello della rete (che qualcuno però sta già cercando di superare)17 per addomesticare la capacità di cooperazione che la forza-lavoro aveva dimostrato di possedere in occasione delle lotte operaie della seconda metà del Novecento. L’adozione di nuove modalità produttive, connesse a un «soggetto caratterizzato da un intreccio di attività lavorative materiali e immateriali, collegate in reti sociali e produttive da una cooperazione lavorativa altamente sviluppata»18 – il cosiddetto “toyotismo” – serve per recuperare l’istanza del comando su un soggetto riottoso, l’«operaio sociale», attraverso la privatizzazione dei «prodotti del lavoro e della creatività umana, come le idee, i linguaggi, gli affetti e così via» per mezzo della «rendita», nella quale il capitalista è «relativamente esterno al processo di produzione del valore», e non più del «profitto», in cui il capitalista è pienamente coinvolto, col risultato che, oggi, «il capitale rimane generalmente esterno al processo di produzione del comune»19 . Questo accade perché il capitale deve riportare il «comune» dentro le forme della privatizzazione (brevetti, copyright, codici ecc.), ben sapendo che quest’appropriazione ne riduce la «produttività». Lo sviluppo delle forze produttive impone la modifica dei rapporti di produzione? Obietta Balibar: perché mai «la governance finanziaria e transnazionale dovrebbe essere se non […] meno violenta del potere imperialista dello Stato, almeno una condizione più favorevole per l’istituzione del comunismo»? E perché mai «una politica comunista» dovrebbe essere «diventata oggi più facile o più spontanea di quanto non sia sempre stata»?20 .

Se nella rendita il capitalista, cioè il «capitale personificato» (come lo definisce Marx in più punti del Capitale), è «relativamente esterno al processo di produzione del valore» mentre il capitale è «generalmente esterno», come detto sopra, bisognerebbe specificare i casi e i modi in cui ciò accade, tenuto conto che il capitale è anche il «presupposto» della produzione del «comune»21 . Ne segue, che in questa nuova forma di rendita il capitale o il capitalista non possono mai essere del tutto esterni al processo produttivo, configurando quindi un sistema misto tra profitto e rendita. Se è così, l’analisi economica su cui si fonda l’ipotesi del «comune» vacilla, e non tanto per l’accento sul «lavoro cognitivo», bensì per quello sull’autonomia del lavoro biopoli-tico e della cooperazione22 . È solo se il capitalista non partecipa per nulla al processo produttivo, ritagliandosi il ruolo di predatore del valore prodotto da altri tramite il lavoro, che può nascere l’idea che il lavoro vivo produca da sé il «comune», un’auto-organizzazione totalmente staccata dal capitale e per questo separabile da esso senza che la separazione la trasformi. È solo in questo caso che sarebbe sufficiente liberare il «comune» dalla sussunzione al capitale per avere il comunismo. Il punto è che il comando del capitale è sia interno sia esterno alla produzione biopolitica: non la dirige in ogni suo aspetto, ma le lascia margini d’autonomia utili alla produzione del valore. Hardt e Negri lo riconoscono quando scrivono che il comando è «interno»23 . L’auto-organizzazione, dunque, avviene sempre secondo poche e chiare regole: quelle del mercato o dell’azienda, ad esempio. Il discorso sul «comunismo del capitale»24 come rovescio del «comune» regge solo se: 1) l’assenza di comando capitalistico nella produzione biopolitica è totale (e non lo è); 2) il «comune» è un prodotto intenzionale dei soggetti (e non lo è). Dunque, come ci s’impadronisce di esso? Non credo sia sufficiente dire, come fa Hardt, che «è lo sviluppo stesso del capitale a fornire gli strumenti per liberarsi» da esso25 , poiché tale sviluppo è reso possibile dal «comune» ancora imbrigliato.


Qui si trova, a mio avviso, uno dei problemi maggiori della proposta dei fautori del «comune». Da un lato, infatti, essi devono mostrare una differenza, anche parziale, tra processo produttivo del capitale e processo produttivo del «comune», altrimenti il secondo non può essere alternativo al primo; dall’altro, devono dire che il «comune» è tutto sussunto dal capitale26 , altrimenti non si spiegherebbe perché non sia già in atto e, dunque, «fuori» dal capitale. La domanda, allora, è: poiché i comunisti costruiscono le proprie istituzioni dentro il capitale, basta, affinché emergano, togliere il rapporto sociale che le opprime, oppure, una volta tolto, esse non sono pi ù sufficienti o addirittura inadeguate giacché non devono più resistergli?27 . Non è forse questo il significato dell’abolizione delle classi, proletariato compreso, di cui hanno parlato Marx ed Engels nel Manifesto? E non è forse questa la differenza posta da Lenin, in forma forse inadeguata ma chiara, tra democrazia socialista o proletaria e comunismo? Che il capitale produca i propri “becchini” non significa che produca l’alternativa economica e politica a se stesso. L’anti-capitalismo (la resistenza del «comune» al capitale, anche organizzata in istituzioni proprie) è propedeutico, ma non è la forma del comunismo, che non può essere prodotto dal movimento (hegeliano) del negativo, che rovescia la posizione di partenza senza rompere con essa28 , come nel vortice che campeggia sulla copertina di Empire.

Se il comunismo è «la reale appropriazione dell’essenza dell’uomo mediante l’uomo e per l’uomo» ossia, secondo Hardt, «non più appropriazione dell’oggetto in forma di proprietà privata ma appropriazione della nostra soggettività, delle nostre relazioni sociali e umane» in un’«appropriazione senza proprietà» e, dunque, non la cattura di «qualcosa che già esiste», bensì la «creazione di qualcosa di nuovo», una «soggettività» e «sensibilità» nuove29 , in che cosa quest’appropriazione, che è «produzione» e trasformazione, si differenzia dall’immaginario della «nuova umanità»30 del Novecento? Qual è il «nuovo modo di vedere, ascoltare, pensare, amare»31 ? E, soprattutto, perché, se il «comune» non è qualcosa che già esiste (un residuo naturalistico), e quindi non abbiamo nulla in comune, questa «nuova umanità» dovrebbe esserlo? Cosa la rende «comune»? E a chi? Al lavoro vivo? Indipendentemente dal lavoro che fa?


Ricominciare dall’
égaliberté

Balibar fa da contraltare a questa posizione partendo da presupposti in parte simili, ma arrivando a conclusioni molto diverse. Anche in questo caso condenso in due blocchi gli assunti che mi paiono portanti.

1. L’esperienza storica dei socialismi realizzati impone di comprendere le ragioni di quei fallimenti per individuare e proporre «un’alternativa all’alternativa»: un comunismo che non sia socialismo. Il fallimento del lungo secolo comunista-marxista 1848-1989 impone di tornare verso forme di comunismo non marxiano e non marxista, anteriori cioè alla confluenza tra Marx e il socialismo scientifico, ripartendo dalla parola rivoluzionaria del 1789: égaliberté.

Secondo Balibar nel «comune» c’è un’«equivocité», una «tensione permanente tra significati opposti […] mai completamente riducibili l’uno all’altro»: a) con riferimento alla «questione dell’“universalità” e dell’“universale”», che oscilla tra l’essere forma dei «diritti universali individuali universalizzabili – idea connessa a una certa omogeneità del mercato o a un sistema di equivalenze dominante nel mercato» – e l’essere forma di «rivendicazioni e tentativi di ripensarlo in modo differenziato e, dunque, dialettico», il «comune» dovrebbe essere il «tentativo di ripensare l’universale in termini di differenze antropologiche» non legate all’ambito del lavoro (e non lo è); b) «l’universale [è] essenzialmente un’idea regolativa o un’aporia permanente» e può difficilmente coincidere tanto col «progetto di costruire uno Stato o un sistema di istituzioni pubbliche» quanto col tentativo «di promuovere una dimensione comunitaria delle relazioni sociali»; anche se «nelle nostre società non ci sarebbero diritti se non fossero esistiti gli Stati e la dimensione comunitaria», bisogna essere consapevoli che «le comunità sono mutualmente incompatibili» e, dunque, che l’universale è pensabile solo in termini conflittuali; c) se non si vuole rinunciare alla prospettiva del «comunismo», bisogna riformularla, vista «la storia del XX secolo», sia come «alternativa allo sfruttamento, a varie forme d’oppressione e al capitalismo» sia come «alternativa all’alternativa». Per farlo, bisogna capire «le ragioni per cui il progetto comunista, basato sui concetti marxiani, benché distorti, si sia risolto nel suo assoluto opposto» e, soprattutto, non perché Lenin, Stalin o Mao siano stati «cattivi» leader, ma perché «le “moltitudini”» siano state incapaci di «riorientare […] la strada verso l’inferno» che era stata imboccata. Il modo migliore, secondo Balibar, è tornare a «una forma borghese radicale o civica di comunismo pre-marxista, il comunismo dell’égaliberté», quello «dei Levellers, di Blanqui e Babeuf»32 .

La rinuncia di Balibar alla prospettiva marxiana del comunismo non trova d’accordo Negri33 e significa la rinuncia a continuare lungo una via d’implementazione tra scienze e politica, il cui baricentro è la forza-lavoro. Per sottrarsi all’economicismo ancora presente, a suo avviso, in Negri (sebbene questi lo neghi)34 , Balibar recupera la domanda d’égaliberté35 (uguaglianza e libertà, identificate e dipendenti l’una dall’altra), cioè, dalla Rivoluzione francese in poi, la domanda di diritti (dell’uomo e del cittadino – identificati) sempre nuovi, perché rispondenti alle esigenze di epoche diverse, in grado di riaprire qualsiasi forma istituzionale e costituzionale (statale e non) essendo ciò che la produce e anche ciò che la mina al suo interno (avvicinandosi così al «potere costituente» di Negri), dato che non esiste (né potrà mai esistere) alcuna forma piena (totalmente realizzata) di comunità politica. L’égaliberté, «il principio “insurrezionale” che rivendica universalmente il diritto ai diritti», il «diritto universale alla partecipazione politica»36 , è un «universale storico», che produce e riapre incessantemente il campo politico.

2. L’égaliberté è un dispositivo concettuale e politico che dovrebbe consentire di riaprire continuamente il processo di «democratizzazione» della società e delle forme storiche in cui s’è realizzato, al fine di uscire dall’impianto lavoristico del marxismo e favorire una cittadinanza delle «differenze» (culturali, etniche ecc.), anziché delle attività (lavoro), che Balibar chiama «co-citoyenneté».

Per Balibar l’égaliberté converge con «l’idea del “potere costituente”»37 , perché «solo una natura conflittuale delle relazioni sociali […] può spiegare la trasformazione delle istituzioni […] e rappresentare il motore del cambiamento sociale», dato che «la materialità delle lotte emerge dove un certo discorso costituito, ufficiale, il discorso dello Stato e della classe dominante, il discorso egemonico ne negherà la presenza e farà di tutto per convincerci che in realtà [essa] non esiste»38 . La “divergenza” con Negri sta, secondo Balibar, nel «modo di pensare il lavoro e la potenza produttiva», perché Negri non ha «abbandonato il prerequisito ontologico […] rappresentato dal primato assoluto […] delle forze produttive come fondamento antropologico per il cambiamento politico e storico», mentre ci sono molte «altre dimensioni, che hanno a che fare con la cultura e la società, che non possono essere ridotte a un’analisi in termini di forza produttiva», sebbene definita in modo più ampio rispetto a Marx. Questa posizione ha reso possibile la ripresa della «narrazione del comunismo come telos della progressiva socializzazione del lavoro», sfociando in una metafisica del lavoro in cui «manca […] la politica: è il vecchio motivo althusseriano», perché «non può esserci politica dove ogni cosa è già anticipatamente determinata da uno sfondo ontologico» o dove è in balia di una contingenza assoluta, dato che politica è «incertezza», imprevedibilità «radicata nei fenomeni economici e nella dimensione ideologica»39 .

Balibar propone di pensare un «diritto alla differenza nell’uguaglianza» che si tradurrebbe in una «cittadinanza surdeterminata dalla differenza antropologica» capace di risolvere i problemi del diritto astratto oltrepassandone il piano e di tenersi lontano dall’ontologizzazione delle nature umane. La nuova «lotta di classe» dovrebbe darsi non più attorno al «lavoro», come nella «seconda modernità», di cui, secondo Balibar, fa parte Marx, al fine di «associare i diritti alle attività o alle azioni», ma attorno al conflitto tra le «differenze antropologiche» quali «fattori determinanti della cittadinanza»40 , come nell’isonomia greca. Precisato che non si tratta di riproporla, perché «le differenze antropologiche [della postmodernità] sono essenzial-mente ambigue, de-territorializzate» e, dunque, inutilizzabili «come differenze fisse»41 , il compito è trovare una forma di cittadinanza capace di riconoscere che le identità sono basate su differenze antropologiche irriducibili e in grado di utilizzarle «non come ostacoli interni all’universalizzazione dei diritti del cittadino e al “divenire cittadino” del soggetto, ma come punto d’appoggio per un “divenire-soggetto del cittadino”, nel senso attivo del termine», tramite pratiche di «trans individualità» che incorporino «differenze e singolarità nella costruzione stessa dell’universale»: «invenzione e istituzione di un sistema “di equivalenze senza equivalente generale” […] di traduzione e ritraduzione dell’umano all’infinito nell’insieme delle sue “varianti”»42 . Un’ipotesi che sembra lambire l’utopia di un mercato senza denaro esortando a non dimenticare l’errore dei comunardi, che si arrestarono in modo riverente di fronte alle porte della Banca di Francia43 . Tale prospettiva dovrebbe impegnare i comunisti, che «non stanno necessariamente dove il nome comunismo è evocato», a svolgere i due compiti cruciali di una politica comunista: «la critica della proprietà e l’atteggiamento internazionalista». A essi, benché insufficienti, l’égaliberté contribuisce inventando nuove forme di ridistribuzione dei «mezzi di sussistenza»44 .


Attraverso il rilievo dei limiti del modello repubblicano francese, la «democrazia esclusiva», Balibar evidenzia l’irrealizzabilità della
forma democratica. La democrazia è solo un processo «senza fine» di democratizzazione, in cui l’accesso di un numero sempre maggiore di persone alla partecipazione politica (al diritto di lottare per i propri diritti), che può essere «imposto [solo] dalla rivolta degli esclusi», procede in modo asintotico rispetto all’esclusione (suo correlato logico e politico) senza che questa possa essere sconfitta (o esclusa) definitivamente45 . In quest’incompletezza la continua democratizzazione può produrre forme di comunismo facendo saltare la forma giuridica dell’individualismo borghese attraverso l'a
mpliamento dei suoi limiti verso l’esterno. La continua democratizzazione non è la fase di transizione in cui, leninianamente, la democrazia (borghese prima e proletaria poi) si «estingue», ma è, spinozianamente, la potenza da cui possono sorgere, quando sono in grado di farlo e per il tempo che sono in grado di durare, forme di organizzazione sociale senza proprietà e senza frontiere. Il comunismo non è una forma raggiungibile  definitivamente, ma è sempre da produrre e organizzare tramite rottura dei confini imposti dall’irrigidimento delle forme, giuridiche e non, dell’esclusione.

Quest’«universalità impossibile da realizzare ma necessaria per fare una politica democratica e progressista» resta impigliata, secondo Negri, nelle «dimensioni economico-politiche dell’ordine capitalistico della società, brutalmente definite come salariali» e, dunque, nella «figura del cittadino storicamente inserito dentro l’ordine biopolitico del welfare» la cui misura è il «salario necessario». La lotta democratica per l’égaliberté resta intrappolata nel rapporto capitalistico di valore, perché non riesce a romperlo né lo vuole, dato che chiede o cerca d’inserirsi nell’ordine tendenzialmente democratico che esso produce. Il problema è che finché ci si mantiene nell’orizzonte «del soddisfacimento dei bisogni necessari», cioè a «un certo livello del salario necessario», è assai complicato, per non dire impossibile, «trasformare politicamente quella massa di bisogni». Negri ritiene che «la lotta economica per il sovvertimento delle regole del salario relativo si [debba trasformare] in lotta sociale-politica per il sovvertimento delle regole di distribuzione finanziaria del reddito». Siccome la figura giuridica del cittadino non ricompone più il divario tra salario e bisogni, l’égaliberté è ineffettuale, anzi, essendo inclusa nelle nuove forme di cooperazione del «lavoro produttivo», è già ottenuta. Il problema, per Negri, non è conquistare l’égaliberté, ma sovvertire il sistema (capitalismo) che ne impedisce una più ampia autonomia ed espansione. Il «comune», allora, è in grado di «tenere definitivamente aperta, ovvero rompere, la struttura tecnico-politica del capitale»? Ed è in grado di immaginare «la conversione dei valori (dallo scambio all’uso)» e «la conquista di un modo di produrre orientato alla “produzione dell’uomo per l’uomo”: salario sociale, reddito di cittadinanza»46 , cioè il «cambiamento radicale nella struttura del produrre»47 ?


Forse oggi il nesso tra democrazia e capitalismo si sta rompendo definitivamente, anche se da sempre il capitale usa la democrazia come maschera per il proprio dominio, assumendola e licenziandola secondo le convenienze. L’attacco allo stato sociale è un attacco alla democrazia e mette fuori gioco il problema dell’«inclusione differenziale» quale «gerarchizzazione e subordinazione interna al processo di accumulazione e valorizzazione»
48 . Si pone allora un dilemma: lasciare che il capitale distrugga la democrazia in quanto forma del dominio di classe, o difenderla, perché ciò che prospetta è peggiore: capitalismo autoritario, populismo, cesarismo, tecnocrazia ecc.? Dobbiamo lottare per difendere un sistema fallimentare? Dobbiamo, come propongono Balibar e Ranciére, pur con accenti diversi, lottare per modificare i confini della democrazia? Dobbiamo portare a compimento la democrazia (borghese e socialista), perché solo così si creano le condizioni per il comunismo, come credeva Lenin? Su questo piano, la proposta dell’égaliberté sconta alcuni limiti, nonostante il suo realismo. Perché porsi dentro un’ottica di ampliamento della democrazia, in uno dei tanti momenti in cui cessa d’essere riconosciuta dal capitale come forma politica con cui mediare, anche in modo asimmetrico, i conflitti tra capitale e lavoro? La democrazia non ha mai addomesticato il capitale né evitato la rivoluzione.


Secondo Balibar, infine, l’idea di Negri che «il processo produttivo non è più racchiuso nello spazio della “fabbrica” o del “posto di lavoro”», ma sta imponendo «un ampliamento considerevole della categoria di lavoro vivo», significa la «riduzione della “società” a un organismo produttivo», in cui «ogni relazione antropologica (e ogni differenza)» sono «funzioni del lavoro umano». Ciò porta Negri, da un lato, a criticare, «giustamente», «l’idea di una “transizione socialista”, [ma, dall’altro, a spingere] all’estremo l’idea che il comunismo, o l’emergere del comune, sia il risultato della “socializzazione delle forze produttive”, il cui stadio “finale” è raggiunto attraverso la primazia del lavoro immateriale sul lavoro materiale e la reintegrazione della dimensione affettiva nell’attività produttiva». Se così fosse, ci sarebbe un’«implicita “teleologia”», perché «supporre che tutte le differenze antropologiche […] siano riducibili (reducible) a differenze nel “lavoro” (o, in termini più etici, alla “produzione dell’uomo attraverso l’uomo”) [è] empiricamente sbagliato e teoricamente rischioso». Balibar ritiene, infatti, che «le differenze antropologiche rimangano eterogenee», perché «c’è un’essenziale pluralità di azioni soggettive o, nel gergo althusseriano, [c’è] surdeterminazione» tra le «stesse relazioni sociali». La politica, allora, ha a che fare con «la diversità delle lotte, dei valori emancipativi [e] delle azioni collettive». Tornare a «modelli di comunismo pre-marxista», come fanno molti «radicali contemporanei», incluso Negri col riferimento «all’ispirazione Cristiana (più precisamente francescana: […] il comunismo di povertà amore e fraternità»), infatti, è «un modo per districare la questione del comune dall’assolutismo onto-teleologico del lavoro». Per questo l’égaliberté non è «espressione della logica del valore di scambio»49, anche se non mi pare molto convincente asserire che la Dichiarazione dell’89 sia aliena da questioni riguardanti il lavoro e il valore: il fallimento della rivoluzione di Haiti insegna.


Immagini di “comunità”

Non mero corollario all’assetto logico e politico balibariano sono le posizioni espresse da S. Charusheela, Jack Amariglio, Yahya M. Madra e Ceren Özselçuk, i quali cercano di individuare forme di soggettivazione anticapitalistica alternative al marxismo e alla modernità.

Se, per Negri, le mutate condizioni del lavoro contemporaneo rendono necessario rivedere le forme e gli scopi dell’impegno politico dei comunisti, per Balibar, invece, è proprio la permanenza del riferimento al lavoro l’indice di un’insufficienza, che Charusheela, Amariglio e Madra-Özselçuk colgono ponendo, con riferimento alle forme precapitalistiche di produzione o al discorso lacaniano sul «godimento», il problema del rapporto col comunismo di miliardi di persone che non hanno (e forse non avranno mai) un lavoro salariato. Se il tentativo di Negri è riassorbire il divario tra lavoro salariato e non salariato facendo interagire le categorie di «lavoro cognitivo» e «povertà»50 , il tentativo di Balibar, Charusheela e Amariglio, invece, è rompere l’equazione fordista tra cittadinanza e lavoro per pensare un nuovo universale basato sulle differenze e «una sfera pubblica oltre lo Stato ma non necessariamente oltre la cittadinanza o i diritti»51 .

Se l’attenzione alle forme «non europee» del comunismo è fondamentale, mi pare però erroneo, una volta sottolineata l’insufficienza del «comunismo di Marx», proporre il riferimento alla «comunità» come una novità52 , soprattutto se, come fa Charusheela, la «critica al capitalocentrismo», nel suo intento di valorizzare la formazione di soggettività antagonistiche partendo da forme di lavoro non salariato senza volerle riportare dentro «le categorie del valore del lavoro astratto capitalistico», ha l’esito di gettare il Marx precapitalistico (e premoderno) oltre il Marx capitalocentrico (e moderno) verso un marxismo postcapitalistico e, dunque, postmoderno, col risultato di recuperare il «feudalesimo» (sic!) come «spazio differenziale della formazione del soggetto dello sfruttamento». Un soggetto che si genera accettando la «propria posizione subordinata», perché la «società [è] costruita su ordini gerarchici», che generano «armonia sociale»: «gli sfruttati», infatti, «si sottomettono agli sfruttatori» solo se «a questa deferenza [corrisponde] l’amore sollecito da parte di chi sfrutta», perché «l’accettazione della gerarchia e della subordinazione scaturisce dalla percezione etica della giustezza con cui i componenti della gerarchia agiscono i loro ruoli», come accade, ad esempio, nella «casa» o nella «piantagione»!53

Allo stesso modo, mi par discutibile affermare, come fa Amariglio, che il superamento del «primato del valore di scambio», in cui resta impigliato il discorso sulla classe, si possa trovare nelle «comunità “primitive”, germaniche e asiatiche», dove, sia il «produttore diretto» sia chi «si appropria del surplus labour», non hanno la forma dell’individuo moderno ma, come dimostrano il «capofamiglia» germanico o il «despota» asiatico, quella di «rappresentanti» della comunità54 in un «processo di classe “comunitario”», in cui è «la comunità che tramite il despota si sta appropriando del surplus» ed è sempre «la comunità che ricopre la posizione di produttore diretto e di colui che si appropria del pluslavoro»55 .

Madra e Özselçuk, infine, ritengono che l’«antagonismo di classe» renda impossibile «un’armonica e pienamente riconciliata organizzazione della produzione del plusvalore attraverso la sua distribuzione»: né il «comune» né il comunismo, dunque, riusciranno mai a originare una forma di vita stabile. Non credo però che la soluzione sia assumere la modalità, definita «femminile», secondo la quale «non c’è forma di jouissance che non sia parziale» – la logica lacaniana del «non ogni (pas tous)» – contro il godimento maschile, che, nostalgico di una «jouissance, piena, non castrata», produce un’«ingiunzione superegoica [a] lottare per conseguire uno stato ideale», originando un «movimento infinito di desiderio»56 . Il limite della jouissance femminile così definita rischia, infatti, di essere speculare a quello della jouissance maschile: se questa si compie sacrificandosi all’inseguimento di una trascendenza, quella resta impantanata in un’immanenza di singolarità incomponibili. Da un lato abbiamo l’utopia, dall’altro la disseminazione delle pratiche quotidiane. La vera sfida, se le cose stessero così, sarebbe praticare un equilibrio conflittuale tra le due.

 

Comando capitalistico e lavoro contemporaneo

Vorrei terminare quest’analisi molto parziale soffermandomi su due aspetti che, tra i molti passibili d’approfondimento, mi paiono essere presenti in tutte e tre le prospettive sopra esposte. Il primo riguarda il problema della relazione tra interno ed esterno nel rapporto di capitale; il secondo le caratteristiche del lavoro contemporaneo.

1. Nel comando del capitale sul lavoro c’è un gioco costante tra interno ed esterno. Secondo Negri il «comune» è tutto ciò che eccede il comando capitalistico. Come si concilia quest’idea con la sussunzione totale, che dev’essere ammessa, altrimenti c’è un «fuori»? Per non dire che tutto è sottoposto al comando del capitale, la risposta consiste nell’immaginare un interno che è esterno: forme di soggettivazione che sfuggono al comando e sono intraducibili nella teoria del valore. Questo però non garantisce che il «comune» sia autonomo anziché eterodiretto. Diciamo che l’«eccedenza» è un’emergenza: dalla cooperazione del lavoro vivo emerge, come risultato dell’auto-organizzazione, il «comune» che, dunque, è interno al capitale ed esterno a esso: interno, perché si produce dentro i rapporti capitalistici di produzione; esterno, perché ne è parzialmente indipendente e li travalica, costringendo il capitale a una continua rincorsa per catturarli. Il concetto di «eccedenza» è così sottoposto a un’oscillazione. Da un lato, indica il «plusvalore», dall’altro, l’insieme di relazioni e soggettività che sfuggono al comando (e al mercato?), anche se, come dimostrano i prosumer, possono essere ricatturate tramite la rete. Il «comune», dunque, deve eccedere la teoria del valore, altrimenti non c’è.

Per risolvere il problema si dice che il «comune» è condizione, e non solo esito, del processo produttivo biopolitico. Questo però risponde a un’esigenza logica: se tutto è sussunto dal capitale nell’unico mondo formato dalla globalizzazione capitalistica, «sussunzione reale […] di tutte le società nei circuiti dell’accumulazione capitalistica»57 , non ci può essere un «fuori». Se tutto non fosse sussunto, invece, un «fuori» ci sarebbe già. Se si scarta la presenza di un esterno, l’alternativa o è impossibile o deve venire da «dentro»: ecco il «comune» ed ecco l’oscillazione tra sussunzione parziale e totale. Il «comune» deve esserci, altrimenti, dati i presupposti, l’alternativa sarebbe impossibile o trascendente (epifania): ma se è interno «ogni attività diviene produttiva di valore e il capitale, produttore di precarietà e di profitti, si configura come una totalità, orizzonte intrascendibile che può essere, tutt’al più, regolato in parte»58 .


Se non esiste esterno rispetto alla sussunzione del lavoro nel capitale e se il piano è solo quello del lavoro, bisogna allora chiedersi: esiste un «fuori» dal lavoro? Potremmo dire così: a) un «fuori» esiste (contro i sostenitori del «comune» che lo negano), ma non è precapitalistico (contro i fautori della «comunità» e Balibar); b) il «fuori» si dà in modi non economici: i sostenitori del «comune» hanno ragione nel presupporre la sussunzione totale della produzione al capitale, ma sbagliano nel guardare solo all’economia; i sostenitori della «comunità», invece, sbagliano nel vedere l’esterno nelle forme di produzione precapitalistiche, che sopravvivono nel capitalismo e che sono pur sempre economiche; c) il «fuori» non sono nemmeno le «differenze» (Balibar), che non sono economiche, ma sono sussunte, tanto che, come il «comune», possono rovesciare il capitalismo solo con un movimento di negazione della negazione59 ; d) detto che l’esterno è tale sempre rispetto a un sistema artificiale (chiuso o aperto: se chiuso è chiuso rispetto a un fuori, se aperto è aperto rispetto a un fuori) e, dunque, sempre inerente al rapporto tra sistema e ambiente, possiamo dire che l’esterno si dà, oggi, almeno in due modi fondamentali: d.1) nel rapporto tra economia e ambiente, il cosiddetto problema ecologico, che in realtà è politico (mette in discussione, come e più della finanziarizzazione, la sovranità nazionale) e antropologico (evidenzia i limiti dell’idea di uomo moderno come macchina da calcolo); d.2) nella forma dell’ignoto e del suo complemento: la ricerca non applicata. Contro la «società della conoscenza», che merita il nome di «società delle incognite»60 , e contro l’ideologia e il mito, che fanno sembrare pieno (completo) ciò che in realtà è vuoto, va usata la dotta ignoranza per mantenere spalancato il luogo in cuinon manca nientepur non essendoci tutto.

2. La questione del lavoro resta fondamentale per ripensare e magari praticare il comunismo oggi e domani. Non credo, dunque, che si tratti né di ritenerla risolta o sorpassata né di riportarla a forme precapitalistiche. Al contempo, penso che non si tratti di assolutizzarla né di contrapporle le “differenze” (pur importanti) che ne sono parte integrante. Piuttosto, si tratterebbe di farla interagire con le scienze da un lato e con i problemi geoambientali dall’altro.

Per farlo, però, bisogna mettersi d’accordo sulla natura del lavoro contemporaneo tenendo conto dell’eterogeneità delle sue condizioni materiali. Il discorso sulla forza-lavoro migrante61 credo offra ancora delle potenzialità per uscire dal cortocircuito pre-capitalismo/post-fordismo, pre-/post-modernità. Il migrante, infatti, non è solo precario, senza diritti, etnicizzato, sessificato ecc., ma è qualcosa di più e di diverso, perché è espellibile. Ritengo che proprio gli elementi (apparentemente) non comuni – i diritti legati al contratto di lavoro e l’espulsione – facciano della forza-lavoro migrante il paradigma del lavoro contemporaneo, perché indicano il futuro che toccherà a molti se il finanzcapitalismo continuerà a spadroneggiare, in coerenza con l’idea che le pratiche coloniali sono il laboratorio delle politiche riservate poi al lavoro sans phrase. Non sono solo gli operai Fiat a dover cedere diritti in cambio di lavoro o le operaie morte a Barletta che a 4 euro l’ora non potevano pagare i contributi previdenziali, perché non sarebbe rimasto loro nulla; che dire, infatti, della possibile abolizione dell’art. 18 dello Statuto dei lavoratori o della licenziabilità dei dipendenti pubblici? Le condizioni del «lavoro cognitivo» sono sempre più simili a quelle della forza-lavoro migrante, che sgobba, spesso, in modo fordista scivolando verso il lavoro a ritmi vincolati o, addirittura, verso la schiavitù62 . «Migrante» qualifica il tipo di precarietà che si sta sviluppando e affermando nel mondo. Ciò non significa che la forza-lavoro migrante sia la forma più diffusa, ma neanche che sia solo una tendenza, perché è lo scopo verso cui si dirigono le politiche del lavoro. La volontà di collegare il godimento o la perdita dei diritti all’andamento del (sedicente) mercato del lavoro è evidente: questo non è un ritorno al passato né qualcosa di cui essere contenti perché il mercato valorizza le differenze (come se fossero naturali)63 . La forza-lavoro migrante è ciò che oggi può perdere tutto: non solo i pochi o molti diritti che possiede, ma anche il mito dello stile di vita occidentale, che va tenuto in vita per disciplinarla. Dove si finisce, infatti, se si è espulsi da quest’orizzonte? Non nella «nuda vita», che è sempre «vestita»64 , ma in una forclusione, un essere chiusi fuori, che rischia di essere definitivo, perché non tornerà come rimosso e dove non c’è neanche il valore d’uso.

Solo affrontando questi due temi almeno, credo sia possibile reimpostare le questioni della modernità, del soggetto, dello Stato e i problemi filosofici che vi stanno alla base. La strada che non si riesce ancora a costruire è davanti a noi e, dunque, né dietro né dentro qualcos’altro, ma fuori dalla nostra attuale identità e dalla sua ontologizzazione, senza che questo apra al bazar post-moderno della continua reinvenzione di sé. Nemmeno solo le lotte (del lavoro e per i diritti) credo bastino a indicarcela, anche se senza di esse il fallimento è assicurato. Il compito è sperimentare, non riesumare: costruire un futuro senza destino.


*Da «Scienza&Politica», 2011, n. 45.

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1
Cfr. A.CURCIO (ed), Comune, comunità, comunismo. Teorie e pratiche dentro e oltre la crisi, Verona 2011, che raccoglie alcuni dei materiali, tradotti o riveduti, presentati al dibattito The Common and the Forms of the Commune: Alternative Social Imaginaries (Duke University, 9-10 aprile 2009) e poi pubblicati in «Rethinking Marxism», 22,/2010. Il testo sarà citato con la sigla C.

2 Il concetto di «tendenza» come «campo di possibilità non oggettivamente determinato» (cfr. G.ROGGERO, Cinque tesi sul comune, in C 77) porta con sé alcuni rischi: 1) scambiare la potenza con l’atto o dare l’idea di una teleologia, dare cioè per scontato (e alla lunga acquisito) un fine possibile che balugina in una congiuntura determinata e che non è ancora stato raggiunto; 2) non applicare il concetto di tendenza alla tendenza stessa ossia non vedere che, nel suo sviluppo, essa può produrre altre tendenze; 3) dimenticare che esistono le controtendenze. Inoltre, qual è la differenza tra lavoro immateriale e cooperativo e «lavoro sociale»? Cfr. Z.RODRIGUES VIEIRA, Lavoro immateriale o lavoro sociale?, in M.CINGOLI -V.MORFINO (edd), Aspetti del pensiero di Marx e delle interpretazioni successive, Milano 2011, pp. 141-148.

3 A.DE TONI -L.COMELLO -L.IOAN, Auto-organizzazioni. Il mistero dell’emergenza nei sistemi fisici, biologici e sociali, Venezia 2011, p. 173.

4 Cfr. K.MARX, Storia delle teorie economiche, 3 voll., Torino 1954-1958, vol. III, p. 319.

5 Cfr. M.HARDT -A.NEGRI, Comune. Oltre il pubblico e il privato [2009], Milano 2010, pp. 32, 119, 122, 127 (le ultime due con riferimento al testo originale, Commonwealth, Cambridge (Mass.), 2009, pp. 117, 121) per emergence, e pp. 181, 302 per self-organization.

6 Cfr. A.DE TONI -L.COMELLO -L.IOAN, Auto-organizzazioni, cit., pp. 12, 37, 43, 50-51, 34. Perché quest’impostazione germoglia alla fine degli anni Settanta e si diffonde dagli Ottanta in poi? Un’ipotesi è che essa introduca un’antropologia particolare, che tende a sostituire l’homo œconomicus con l’homo socialis o neuroeconomicus, in cui l’emotivit{ è altrettanto importante della razionalit{ anche se in modo non-lineare (cfr. C.S.BERTUGLIA -F.VAIO, Complessità e modelli. Un nuovo quadro interpretativo per la modellizzazione nelle scienze della natura e della società, Torino 2011, pp. 464-585).

7 L’arcidiacono William Paley (1743-1805) è noto per la tesi del «disegno intelligente», basata sulla cosiddetta «analogia dell’orologiaio», secondo la quale, poiché nella natura c’è ordine, come in un orologio, e questo non può essersi prodotto da solo, ci dev’essere un ordinatore (orologiaio), cioè Dio (cfr. Natural Theology, or Evidences of the Existence and Attributes of the Deity, Collected from the Appearances of Nature, 1802). Questa tesi fu combattuta da Charles Darwin, che vi oppose la sua teoria della «natural selection» (cfr. CH.DARWIN, On the Origin of Species by Means of Natural Selection or the Preservation of Favored Races in the Struggle for Life, 1859), dando così avvio al dibattito tra creazionismo e darwinismo che continua ancor oggi.

8 Cfr. Il cosiddetto “male” e la critica dello Stato [2005], ora in E così via all’infinito. Logica e antropologia, Torino 2010, pp. 149-94.

9 Cfr. Hardt-Negri, Comune, cit., pp. 193-203.

10 Madra e Özselçuk, ad esempio, ritengono che la critica di Foucault alla «figura dell’homo œconomicus», paradigma del «soggetto come monade razionale e calcolatrice fornito dalle scienze economiche neoclassiche», sia insufficiente perché cade in «un’ontologizzazione frettolosa delle [loro] enunciazioni» cioè nella «tendenza a far derivare la situazione effettiva della soggettività sotto il neoliberismo dalla nozione neoliberale di homoœconomicus» che, invece, è «una domanda di soggettivazione aperta». Foucault, dunque, non s’interroga «a sufficienza sui modi in cui il neoliberalismo fallisce, o riesce a far presa, sulla soggettività sociale»: i performativi riescono o falliscono in base a condizioni, che vanno chiarite. Lo stesso accade a Hardt e Negri, nonostante «riconoscano la soggettività come spazio di trasformazione» e ne «storicizzino la costituzione soggettiva», perché non forniscono alcuna «spiegazione sulla “presa”» dei «regimi affettivi» che rendono possibile la resistenza (e molti non resistono) o il «godimento» che molti ricavano «dal gioco di ‘incentivi economici’ e dall’inseguimento dei propri interessi». Presupposto comune è il «comportamentismo», l’idea che «gli individui in carne e ossa [rispondano] in modi prevedibili (e quindi governabili) [alle] manipolazioni sistematiche dell’ambiente istituzionale» in cui vivono, senza tener conto dell’«interpellazione ideologica» o di come «l’economizzazione neoliberale della ‘”vita in comune”» ottenga «dalla soggettività sociale un tipo particolare di lavoro immateriale […] che “necessita fortemente” di una soggettivit{ sempre più somigliante all’homo œconomicus in quanto imprenditore» di se stesso. La distinzione tra homo œconomicus e homo socialis, forse, non è così netta (cfr. Y.M. MADRA - C. ÖZSELÇUK, Per una critica della soggettività biopolitica. Jouissance e antagonismo nelle forme di rapporto tra i membri della comunità, in C 134-143).

11 Cfr. M.HARDT -A.NEGRI, Comune, cit., pp. 164-169.

12 Cfr. ivi, p. 182. Se con «comune» s’intende sia «la ricchezza comune (common wealth) del mondo materiale – l’aria, l’acqua, i frutti della terra e tutti i doni della natura – che nei testi classici del pensiero politico occidentale è sovente caratterizzata come l’eredit{ di tutta l’umanit{ da condividere insieme» sia «tutto ciò che si ricava dalla produzione sociale, che è necessario per l’interazione sociale e per la prosecuzione della produzione, come le conoscenze, i linguaggi, i codici, l’informazione, gli affetti e così via» (ivi, pp. 7-8; cors. miei), allora, precisato che i «commons del XVII secolo» non comprendono «il pianeta, le materie prime ecc.» (M.HARDT, Il comune nel comunismo, in C 51), ma, ad esempio, il diritto al pascolo, al legnatico, alla pesca ecc., secondo norme feudali precise, si tratta di capire che differenza c’è tra il «comune» e i «beni comuni», dato che questi ultimi servono, forse, a contrastare le privatizzazioni, ma non certo a uscire dal ciclo del capitale; se poi ci si rifà alla comunione apostolica (cfr. M. HARDT - A. NEGRI, Comune, cit., p. 46 ed. inglese), c’è di mezzo la fede, se, invece, si riprende una tesi più recente (cfr. E. OSTROM, Governing the Commons. The Evolutions of Institutions for Collective Action, Cambridge 1990) allora non c’è comunismo  - più articolato, mi pare, il discorso in W.BONEFELD (ed), Subverting the Present, Imagining Future: Insurrection, Movement, Commons, Autonomedia 2008. Dire, inoltre, che la «cooperazione in buona parte prende corpo senza la sua diretta organizzazione» (G.ROGGERO, Cinque tesi sul comune, in C 63) significa sì che sorge spontaneamente, ma dentrocondizioni (cfr.A.DE TONI -L.COMELLO -L.IOAN, Auto-organizzazioni, cit., p. 240) fornite dalla gerarchia dei vincoli, talvolta assai rigidi, che strutturano il modo di produzione. Le nuove modalit{ di cooperazione sociale sono il segno dei margini d’autonomia di un nuovo soggetto e del suo assoggettamento (cfr. K.MARX, Il Capitale, Roma 19895, vol. 1, pp. 374-375). La scommessa di Hardt e Negri (cfr. Comune, cit., p. 156) è che quest’imposizione (come accadeva nella fabbrica fordista) possa essere rovesciata nel suo opposto, anche se l’esito dialettico dovrebbe avvenire con modalità non dialettiche («il caso, il clinamen, le produzioni alternative di soggettivit{, l’aleatoriet{ delle connessioni modali ecc.»). Ai tempi del fordismo, le condizioni del lavoro industriale erano le gabbie che dominavano il lavoro vivo e gli strumenti della sua liberazione, ora sono le reti del «lavoro cognitivo» che, controllando la produzione biopolitica, ne rendono possibile la «liberazione» (su questo termine, cfr. ivi, p. 329).

13 Ivi, p. 7 (cors. mio); cfr. anche A.NEGRI, Comunismo: qualche riflessione sul concetto e la pratica, in L’idea di comunismo, Roma 2011, pp. 180, 189-190, dove il «fuori» è identificato col «valore d’uso», che in realt{ è «dentro» e coincide col «comune».

14 Cfr. A. NEGRI - E. BALIBAR, Comune, universalità e comunismo. Una conversazione tra Étienne Balibar e Antonio Negri, in C. 24

15 Cfr. M.HARDT -A.NEGRI, Comune, cit., p. 178.

16 Cfr.A.DE TONI -L.COMELLO -L.IOAN, Auto-organizzazioni, cit., pp. 138 ss.

Cfr. ivi, pp. 234-242. L’entusiasmo per la rete è sorretto da un’ideologia dell’immanenza che, speculare a quella della trascendenza, fa dello spontaneismo della cooperazione l’alternativa alla gerarchia e all’autorit{, che «ostacolano e corrompono i processi di autorganizzazione» (M.HARDT -A.NEGRI, Comune, cit., p. 302). Il discorso sul «comune», insomma, vorrebbe bypassare il problema dell’organizzazione che, invece, i comunisti devono risolvere nella pratica, cioè nel loro essere contro qualcuno, perché in questo caso non basta aver prodotto qualcosa di comune. Sul “lato oscuro” della rete cfr. E.MOROZOV, L’ingenuità della rete (2010), Torino 2011.

18 M.HARDT -A.NEGRI, Il lavoro di Dioniso. Per la critica dello Stato postmoderno (1994), Roma 1995, p. 98.

19 M.HARDT, Il comune nel comunismo, in C 52, 48, 53; cors. miei.

20 Ivi, p. 49

21 Cfr. A. NEGRI, Comune, universalità e comunismo. Una conversazione tra Étienne Balibar e Antonio Negri, in C 24.

22 Cfr. M.HARDT -A.NEGRI, Comune, cit., pp. 143-148, 156-158, 170-183, 252, 260, 269, 271-272, 350-351.

23 Ivi, p. 246.

24 Cfr. C.MARAZZI, Il comunismo del capitale. Finanziarizzazione, biopolitiche del lavoro e crisi globale, Verona 2010.

25 M.HARDT, Il comune nel comunismo, in C 54.

26 Cfr. A.NEGRI, La construction du commun: un nouveau communisme, in A.BADIOU -S.ŽIŽEK, L’idée du communisme, Paris 2011, vol. 2, p. 212.

 

27 Il riferimento al problema delle istituzioni sembra rimuovere il problema dell’autorit{ e della societ{ con le sue gerarchie, e lascia trasparire il tentativo di bypassare il problema della rivoluzione, quasi si puntasse a una forma di socialismo che, frutto della gestione della transizione (cfr. M.HARDT -A.NEGRI, La sinistra come potenza costituente, in «Micromega», 8/2011, pp. 16-27), sia in grado di non identificarsi con lo Stato o col pubblico (che invece è il riferimento del discorso sui «beni comuni»), ma con la cooperazione sociale (cfr. V.I.LENIN, Sulla cooperazione (1923), in V.I.LENIN, Opere Complete, Roma 1967, vol. 33, pp. 428-435), la quale, però, o presuppone un fine (valore) comune o richiede un comando. Ritenere che si possa evitare quest’ultimo usando modelli d’auto-organizzazione, che possono essere orizzontali al loro interno solo perché i vincoli che generano la gerarchia da seguire sono già in rebus, mi pare un eccesso di ottimismo.

28 Al contrario, si afferma che l’«egemonia» del «comune» deve tradursi in «nuove istituzioni» che dovrebbero rovesciare l’impalcatura dello «spirito oggettivo» hegeliano, fino ad arrivare a «costruire […] una nuova figura del diritto – non più privato né pubblico ma comune», di cui nulla si dice (cfr. A. NEGRI, Comune, universalità e comunismo. Una conversazione tra Étienne Balibar e Antonio Negri, in C 37-38). E come si conciliano l’idea di un’egemonia e l’assenza di uno Stato, che per Gramsci sono indisgiungibili, se il «comune» è contro ogni forma di proprietà, privata e pubblica? Ci può essere egemonia senza Stato?

29 M.HARDT, Il comune nel comunismo, in C 54.

30 Cfr. M.HARDT -A.NEGRI, Comune, cit., p. 123.

31 M.HARDT, Il comune nel comunismo, in C 57.

32 Cfr. E. BALIBAR, Comune, universalità e comunismo. Una conversazione tra Étienne Balibar e Antonio Ne-gri, in C 34-6.

33 Cfr. E.BALIBAR, Quel communisme après le communisme?, in E. Kouvelakis (ed), Marx 2000, Paris 2000, p. 82; A.NEGRI, È possibile essere comunisti senza Marx? e Perché Marx, entrambi scaricabili da http://uninomade.org.

34 Cfr. M.HARDT -A.NEGRI, Comune, cit., p. 46.

35 Cfr. E.BALIBAR, La proposition de l’égaliberté. Essais politiques 1989-2009, Paris 2010, pp. 15-21, 55-89, 127-

36 Cfr. ivi, pp. 155 e 134.

37 Per alcuni problemi del concetto di «potere costituente», cfr. G.RAMETTA, Le “difficoltà” del potere costituente, in «Filosofia politica», 3/2006, pp. 391-402.

38 In una prospettiva simile, Anna Curcio analizza «il comune […] come processo di soggettivazione politica collettiva» attraverso la «razializzazione» e il «genderizing», i «punti di blocco» che il capitale oppone allo sviluppo autonomo del lavoro vivo (cfr. Le differenze nel comune, in C 83-99).

39 Ivi, pp. 30-32.

40 Cfr. E.BALIBAR, La proposition de l’égaliberté, cit., pp. 82, 86, 142, 160 e E.BALIBAR, Quel communisme, cit., pp. 86-87.

41 Cfr. E.BALIBAR, La proposition de l’égaliberté, cit., p. 162.

42 Ivi, pp. 163-164. Questa è la «cittadinanza diasporica» o «co-cittadinanza» (cfr. ivi, pp. 317-337).

43 Cfr. F.ENGELS, Introduzione (1891) a K.MARX, La guerra civile in Francia (1870-1871), Roma 1947, p. 19.

44 Cfr. E. BALIBAR, Comune, universalità e comunismo. Una conversazione tra Étienne Balibar e Antonio Negri, in C 43). Cfr. inoltre: E.BALIBAR, Quel communisme, cit., pp. 83-85 e E.BALIBAR, Remarques de circonstance sur le communisme, in «Actuel Marx», 48/2010, pp. 36, 38.

45 Cfr. E.BALIBAR, La proposition de l’égaliberté, cit., p. 51 n. 1, 250-251.

46 Non si tratta d’ignorare l’importanza di una garanzia alla sussistenza slegata dal lavoro, ma di comprendere la necessit{ che le lotte per il reddito e il salario s’intreccino. La richiesta di una ridistribuzione che pesasse tutta sulla fiscalità generale, senza incidere, se non molto indirettamente, sui profitti, non è in grado di attraversare la contraddizione tra capitale e lavoro e non incide sulla materialità dei rapporti di produzione e riproduzione, risultando pienamente adeguata a una forma produttiva fondata sulla precarizzazione del lavoro. Bisogna, dunque, affrontare tutte le contraddizioni del lavoro. Sottrarsi alla coazione del salario non è possibile facendo del reddito l’unica alternativa, perché ogni merce comprata con esso è sempre e comunque prodotta pagando un salario.Un reddito minimo non può compensare la precariet{, sia perché porterebbe a un’ulteriore contrazione del valore del lavoro, sia perché non fuoriesce dalla questione del salario come un problema di potere che riguarda tutti a livello globale.

47Comune, universalità e comunismo. Una conversazione tra Étienne Balibar e Antonio Negri, in C 26-29.

G. ROGGERO, Cinque tesi sul comune, in C 71.

49 Cfr. E. BALIBAR, Comune, universalità e comunismo. Una conversazione tra Étienne Balibar e Antonio Ne-gri, in C 36, 40-41.

50 La categoria di «povertà» usata da Negri (cfr. almeno A.NEGRI, Kairòs, Alma Venus, Multitudo, Roma 2000, pp. 83-102 e M.HARDT -A.NEGRI, Comune, cit., almeno pp. 50-65) mi pare avere forti assonanze con quella di E.DUSSEL (cfr. almeno Lavoro vivo e filosofia della liberazione latinoamericana (1994), in Un Marx sconosciuto, Roma 1999, pp. 63-75) e, dunque, con forme classiche di proletarizzazione del lavoratore “libero”.

51 Cfr. E. BALIBAR, Comune, universalità e comunismo. Una conversazione tra Étienne Balibar e Antonio Ne-gri, in C 36.

52 Cfr. E.BALIBAR, Remarques, cit., pp. 36-40, 42-44.

53 Cfr. S. CHARUSHEELA, Ri/generare il feudalesimo. Riconsiderare i modi di produzione, in C 100-1, 105-109.

54 La nozione di «rappresentante dell’unit{ clanica», attribuita al «capofamiglia maschio» germanico o al «despota asiatico» (cfr. J. AMARIGLIO, Soggettività, classe e “forme di rapporto dei membri della comunità”, in C 117-121) sa di modernit{ essendo l’effetto tipico della sovranità (cfr. TH.HOBBES, Leviatano, XVI). Di essa non c’è traccia in Marx, che, al contrario, dice che «presso i Germani […] la comunit{ […] esiste unicamente attraverso la riunione periodica dei suoi membri, sebbene la sua unità a sé stante sia posta nella discendenza, nella lingua, nel passato e nella storia comuni ecc. La comunità si presenta dunque come riunione, non come unione, come unificazione i cui soggetti autonomi sono i proprietari fondiari, non come unità. La comunità, pertanto, non esiste, in fact, come Stato, [poiché, affinché] acquisti un’esistenza reale, i liberi proprietari fondiari devono tenere un’assemblea» (K.MARX, Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica 1857-1858, 2 voll., Firenze 1968-70, vol. II, p. 106, ma si leggano tutte le pp. 106-108). Amariglio non coglie il tratto davvero pre-moderno della comunità germanica (e lo stesso vale per il «despota» asiatico, cfr. ivi, pp. 97-8) messo invece in risalto da Marx, e vede in un’inesistente «rappresentazione dell’unit{ clanica» l’alternativa (falsa) alla modernit{. Sulla differenza tra “surplus labour” e “surplus value”, inoltre, cfr. K.MARX, Il Capitale, cit., p. 250. Come possono le comunità primitive appropriarsi del plusvalore se esso «presuppone la produzione capitalistica»? (cfr. ivi, p. 777).

55 Cfr. J. AMARIGLIO, Soggettività, classe e “forme di rapporto dei membri della comunità”, in C 113-21.

56 Cfr. Y.M. MADRA - C. ÖZSELÇUK, Per una critica della soggettività biopolitica. Jouissance e antagonismo nelle forme di rapporto tra i membri della comunità, in C 146-151

57 M.HARDT -A.NEGRI, Comune, cit., pp. 233-234.

58 F.GAMBINO -F.RAIMONDI, Se «tutto» produce valore, il vero orizzonte è il capitale, in «il manifesto», 23 luglio 2006, p. 10.

59 Cfr. E.BALIBAR, La proposition de l’égaliberté, cit., p. 163.

60 Cfr. V.ROMITELLI, Fuori dalla società della conoscenza. Ricerche di etnografia del pensiero, Roma 2009, pp. 9-101.

61 Cfr. F.RAIMONDI -M.RICCIARDI (edd), Lavoro migrante. Esperienza e prospettiva, Roma 2004; F.MOMETTI -M.RICCIARDI (edd), La normale eccezione. Lotte migranti in Italia, Roma 2011.

62 Se: 1) la sovranità moderna è innervata dal potere pastorale (governamentalità, che non è governo) e 2) ciò configura un «fuori» dalla sovranità liberale, ma non dalla modernità (cfr. B.KARSENTI, La politica del “fuori”. Una lettura dei corsi di Foucault al Collège de France 1977-1979, in «Filosofia politica», 2/2005, pp. 185-97), allora: i sostenitori del «comune» devono ammettere l’esistenza di un «fuori» rispetto al rapporto di capitale ma non alla modernità e i fautori della «comunità» devono ammettere che il feudalesimo non è per forza esterno al capitale e alla modernità.

63 È per questo che bisogna concentrarsi sul lavoro con le sue modalità in parte vecchie e in parte nuove, e non sulla categoria di «vita», che rischia di rendere indistinte le differenze di classe. E poi, il concetto di vita che hanno Spinoza, Marx e Foucault è identico?

64 Cfr. M. HARDT - A. NEGRI, Comune, cit., p. 63.

 

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