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criticamarx

Il disagio della "totalità" e i marxismi italiani degli anni '70*

Roberto Finelli

La «rivoluzione passiva» dell’ultimo quarantennio e il mancato incontro tra comunismo del Novecento e cultura del  riconoscimento del Sé. I «marxismi senza Capitale» di Gramsci e Della Volpe. Dalla «dialettica» tedesca alla «differenza» francese. L’operaismo italiano tra Gentile e Heidegger

schiele127Alla fine degli anni ’70 del secolo scorso gli intellettuali italiani hanno abbandonato, in massa e in modo definitivo, il marxismo. Il fenomeno non è stato solo italiano, ma in Italia, per il radicamento e la lunga storia che il marxismo, nelle sue varie accezioni, aveva avuto, quel congedo significava la conclusione e la disgregazione di un mondo, di una comunanza di idee, di linguaggio, di confronti e di scontri. «Nell’arco di quattro o cinque anni, fra il 1976 e il 1981, sprofondarono in una rapida obsolescenza modelli di pensiero, criteri di valutazione morale e psicologica, forme della sensibilità. E con le “cose” cambiarono le “parole”. A sottolineare il carattere radicale di questo fenomeno di trasformazione dei modi di pensare di tutto un ceto sociale e delle sue propaggini immediate qualcuno impiegherà più tardi la metafora della mutazione antropologica e genetica»1.

 

Rivoluzione passiva

Da tale passaggio socio-culturale, che ha segnato profondamente l’intellettualità e l’ideologia italiana, è derivata insieme ad altri fattori, quella «rivoluzione passiva» che i ceti popolari e i gruppi sociali più radicali hanno vissuto e subìto durante l’ultimo quarantennio, e continuano tuttora dolorosamente e drammaticamente a subire.

Perché a me sembra che quanto sia venuto accadendo negli ultimi decenni, sul piano storico-sociale, nel mondo occidentale, e particolarmente in Italia, sia definibile appunto come una rivoluzione passiva nel senso più rigorosamente gramsciano di questa espressione, quale rivoluzione-restaurazione: cioè quale realizzazione reazionaria e regressiva di un programma di rivoluzione etico-politica originariamente avanzato dai ceti subalterni2. Non rientra, infatti, nel canone, appunto, di una rivoluzione passiva l’assunzione e la trasformazione/svuotamento dei valori più positivi e innovativi del ’68 nella realtà di un’«autorealizzazione amministrata»3, ossia di un’affermazione e di una valorizzazione del Sé ricondotte a funzione della tecnologia e delle macchine dell’informazione di cui s’è avvalsa l’ultima rivoluzione industriale?

Quello che di più significativo la generazione del ’68 aveva fatto avanzare sulla scena della storia contemporanea, al di là dei mille infantilismi ed estremismi, era stara – a mio avviso – la denuncia dei limiti di un’antropologia comunista troppo univocamente consegnata ai soli valori dell’eguaglianza e della solidarietà. La celebrazione e la diffusione della critica antiautoritaria significava infatti la messa in campo, accanto e oltre il tema tradizionale dell’eguaglianza, del diritto d’ognuno di accedere, coll’esposizione al minor grado possibile di repressione, alla realizzazione del più proprio e personale progetto di vita. Ma ciò che, poi, è venuta storicamente a mancare, a partire dal ’68 e per tutto il decennio degli anni ’70, è stata la mediazione e la fecondazione reciproca del vecchio paradigma di una socializzazione attraverso eguaglianza con il nuovo paradigma possibile di un’individuazione antiautoritaria. La cultura del comunismo della prima metà del Novecento, per diverse ragioni, non s’è incontrata con la cultura del desiderio e del riconoscimento del Sé della seconda metà del Novecento. Ma appunto tale fallimento storico è stato il principio della rivoluzione passiva che n’è conseguita e del processo paradossale per il quale, a muovere dagli anni ’80 e da quel dilagare dell’americanismo che in Italia ha coinciso con il craxismo-berlusconismo, gli ideali dell’individuazione emancipatrice e rivoluzionaria, sono divenuti, assunti e tradotti nel linguaggio delle classi dominanti, i valori della gestione imprenditoriale e quantitativo-concorrenziale del proprio Sé. Esito paradossale che connota strutturalmente una rivoluzione passiva e a cui, nella vicenda italiana, si aggiunge l’ulteriore paradosso storico di essere stato proprio il gruppo dirigente della tradizione comunista dell’eguaglianza a trasformarsi nel ceto politico, che entrato in concorrenza con il craxismo-berlusconismo, ha programmato e curato il transito alla pratica e alla cultura dell’amministrazione americano-calcolante del proprio Sé.

Dunque quello che s’ha veramente da comprendere è l’assenza d’incontro, a muovere dal ’68 e durante gli anni ’70, tra il marxismo della tradizione e le filosofie della liberazione individualizzante. Nella necessità d’intendere perché quegli anni che si sono voluti interpretare come egemonici della cultura della sinistra, tanto da essere suffragati in tal senso dai successi elettorali del maggior partito comunista d’Occidente, siano stati invece segnati e deformati da una radicale insufficienza, da un deficit teorico che ha impedito che si generasse una reale egemonia: tale da cedere poi la scena necessariamente e da rovesciarsi in una rivoluzione passiva. Perché come ha insegnato Gramsci, nel suo riflettere su egemonie e ideologie, non da supposto pensatore democratico come taluni ancora vorrebbero, ma da sistematico e persistente intellettuale rivoluzionario, una ideologia che aspira a esercitare egemonia deve essere «totalitaria»: cioè deve proporre una visione e un’interpretazione del mondo capaci di un elevato grado di universalizzazione e di coerenza. Di universalizzazione, in quanto l’ideologia egemonica deve implicare e riflettere dentro di sé la totalità della struttura economica con la sua logica contraddittoria. Di coerenza e di unitarietà in quanto l’ideologia che tende all’egemonia deve esser capace della «elaborazione unitaria di una coscienza collettiva omogenea», cioè in grado di superare, nel gruppo sociale in questione, la compresenza di forme disparate ed eteroclite di rappresentazione e di sapere, che testimoniano della presenza colonizzante e subordinante, in quella coscienza sociale, di visioni del mondo estranee e proprie di altre classi sociali.

Ed è proprio da qui, dal paradigma gramsciano dell’ideologia e dalla possibile mancanza di soddisfacimento del suo criterio totalitaristico di realizzazione, che è necessario partire, per spiegare il perché ’68 e anni ’70 hanno rappresentato un’occasione mancata di egemonia e di rivoluzione sociale. Con l’obbligo d’iniziare a tal fine con un rapido quanto indispensabile resumé della storia teorica e filosofica del marxismo italiano che precede il ’68 e che può essere sintetizzata, a mio avviso, sia nella versione del marxismo storicistico che nella versione del marxismo scientista, attraverso la formula sintetica di un marxismo senza capitale. Perché tali sono stati, a mio avviso, sia il marxismo gramsciano-togliattiano da un lato che il marxismo dellavolpiano-collettiano dall’altro: entrambi espressioni, proprio perché «senza capitale» – ovviamente secondo rilevanza storica e piani di gioco profondamente diversi – di una strutturale insufficienza quanto a un reale progetto di egemonia sociale e culturale.

 

Marxismi senza «Capitale»

Il marxismo di Antonio Gramsci, per quello che s’è appena detto, è stato attraversato da una potentissima passione per la totalità, che non ha esitato a coniugarsi come una pratica, che io definirei psicoanalitica, di formazione di una soggettività collettiva. La prassi per eccellenza della filosofia della prassi di Gramsci, della sua teoria della storia, com’è noto, non è infatti quella della produzione economica, secondo la lezione dei classici del marxismo, bensì quella etico-politica di conduzione all’egemonia di una soggettività collettiva4. La storia, prima che succedersi di modi di produzione, è per Gramsci alternarsi di egemonie e di soggettività collettive. E funzione fondamentale del darsi di un’egemonia è la produzione di una coscienza ideologica omogenea e «totalitaria»5 che possa diffondersi come un nuovo conformismo in tutto il complesso sociale. In tal senso l’ideologia deve essere formazione di coscienza adeguata e distruzione di falsa coscienza: deve cioè elaborare l’inconscio del proprio gruppo sociale, quale deposito di colonizzazione simbolica derivato dalle classi dominanti, trasformandolo da inconscio a coscienza autonoma e critica. E deve avere la funzione gnoseologico-conoscitiva e insieme etico-politica, di tradurre la necessità naturalistica e passiva della vita economica e del sistema dei bisogni materiali sotto la quale gli individui vengono atomisticamente sussunti, nella coscienza attiva e collettiva di una progettualità storico-sociale. Per Gramsci non esistono concezioni individuali del mondo. Si è sempre partecipi di coscienze collettive. Ma la questione è appunto quello del modo in cui una coscienza individuale vive e partecipa ad una coscienza collettiva. O in modo frammentato e autocontraddittorio6, dove spesso c’è scissione tra la coscienza implicita nell’operare e la coscienza verbale, o, al contrario, attraverso una consapevolezza unitaria ed omogenea? Fare questione di egemonia implica dunque che, contrastando l’acquisizione e l’assimilazione ideologica dall’esterno, ciò che venga messo a tema è l’esistenza di un inconscio ideologico e le pratiche della sua elaborazione.

Il limite di Gramsci, a fronte di tale profondissima innovazione dei concetti di prassi e di ideologia, è consistito, a mio avviso in una simmetrica e speculare sottovalutazione della capacità della struttura di costruire di per sé storia e società, in una troppo rapida riduzione gentiliana dell’economico a mera sfera del «fatto» di contro alla dimensione propriamente ideologico-politica dell’«atto». Perché anche quando nelle pagine audacissime di Americanismo e fordismo il pensatore comunista raggiungeva il massimo della penetrazione conoscitiva del presente, riuscendo a vedere l’economico capitalistico come capace di generare da sé medesimo anche il simbolico e il culturale, la mancanza di una lettura del capitale come funzione più produttiva di valore astratto che non fattore di sviluppo di forze produttive e di valori d’uso l’obbligava a leggere la classe lavoratrice fordista, anche qui gentilianamente, come capace di automatizzare e di rendere mero corpo i meccanismi della fabbrica fordista e di liberare così la propria mente7. Ed è appunto questo deficit strutturale riguardo ad una teoria critica del processo di lavoro capitalistico in quanto contemporaneamente processo di valorizzazione della ricchezza astratta nonché di produzione delle forme della coscienza collettiva, questa mancanza di una sociologia critica del processo lavorativo – insomma un’appartenenza a un marxismo iscritto ancora nel mito positivistico del progresso come sviluppo delle forze produttive – che il gramscismo consegna al togliattismo. Di qui, si potrebbe aggiungere en passant, la genesi teorica, per contrapposizione e per riempimento di quel vuoto teorico, del marxismo dei Quaderni Rossi, volti, soprattutto con Panzieri, a ricostituire appunto una sociologia critica dei processi di lavoro adeguati all’industrializzazione e alle innovazioni produttive del nostro paese.

Ma s’iscrive nella cornice teorica di un marxismo senza Capitale quel cosiddetto marxismo della scienza, di Galvano della Volpe e, tra gli altri, Lucio Colletti, che s’è contrapposto per tutti gli anni ’50 e ’60 al cosiddetto marxismo della storia, e la cui considerazione non può essere evitata per una comprensione adeguata delle ideologie degli anni ’70. Marxismo senza Capitale anche qui, s’è detto, perché, a ben vedere, anche tale marxismo che ha preteso di opporre la concretezza dei fatti empirici e di un procedimento scientifico, purificato da ogni contraddizione, alle astruserie della tradizione dialettica, si è occupato assai poco del Capitale e della modernizzazione capitalistica. Ossessionato dallo scopo di espungere la dialettica dalla dignità del pensare, la sostanza di quel marxismo si è infatti risolta nella necessità costante di ricondurre il Marx del Capitale ai manoscritti del giovane Marx e al loro sedicente superamento critico della filosofia di Hegel. Gli studiosi dellavolpiani e Colletti in primis – inadeguati a comprendere quanto la vicenda del primo materialismo marxiano nascondessero implicazioni di comunitarismo essenzialistico e spiritualistico, e quanto l’intera vicenda dello Junghegelianismus si attestasse un livello teorico assai meno elevato della capacità hegeliana di porre problemi e soluzioni – hanno voluto leggere le strutture e le legalità del capitale alla luce di una categoria ancora pesantemente antropocentrica come quella di «lavoro alienato», senza riuscire anch’essi di mettere a tema un’analisi dei processi di astrazione capitalistica sottratta a presupposti antropomorfi e capaci di essere all’altezza dell’astrazione impersonale di ricchezza che si pone oggi al centro dell’accumulazione contemporanea. Salvo accorgersi solo alla fine che l’intero discorso di Marx si collocava, non all’interno di un orizzonte scientifico-empiristico bensì di totalizzazione dialettica: con la conseguenza, a quel punto, di dichiarare il pensiero di Marx e l’intero marxismo al di fuori di ogni possibile pretesa di legittimità scientifica e di verità. Senza alcuna possibilità d’intendere come la dialettica marxiana del Capitale, costruita sul dualismo ontologico di astratto e concreto, sia, sì prossima nell’analogia, ma lontanissima nella sostanza da una dialettica come quella hegeliana costruita invece sulle categorie arcaiche della metafisica come Essere e Nulla.

Ma ciò che qui preme maggiormente sottolineare non è tanto lo scarso controllo concettuale di quella apostasia che ebbe comunque l’effetto di espellere definitivamente il marxismo dall’ambito della tradizione e dei progetti di studio accademico-universitari. Quanto il fatto che per buona parte dei quadri intellettuali dell’estrema sinistra, critici del togliattismo gramsciano del Pci e già destinati a essere i futuri quadri del ’68, il dellavolpismo e sempre più il pensiero di Lucio Colletti abbia costituito l’interpretazione del marxismo, la disamina teoretica, più originale, da accogliere e da valorizzare, in senso radicale-rivoluzionario, di contro all’accettazione di fondo del modo capitalistico di produrre e di consumare.

In tal modo l’influenza culturale più significativa, nel senso negativo, che ebbe la scuola dellavolpiana e Colletti in particolare fu quella di scindere buona parte dell’intellettualità più attiva e impegnata nei movimenti di contestazione del ’68 e degli anni ’70 da una consuetudine di studio e di riflessione sulle tematizzazioni dialettiche della totalità e delle sue mediazioni – specificamente sul nesso dialettica-totalità nel verso hegelo-marxiano – e in tal modo di consegnare quella generazione, sul piano della filosofia e di una generale visione del mondo, verso altre ispirazioni e verso altre scuole. Si potrebbe dire, per semplificare, un’operazione di cultura antidialettica che, certo inconsapevolmente e senza intenzione, concorreva in modo determinante a spostare la sensibilità filosofica dall’area di cultura tedesca all’area di cultura francese.

Non perché i marxismi degli anni ’70 non abbiano guardato e tratto alimento, com’è ben noto, anche dagli autori della Scuola di Francoforte, soprattutto per il rilievo che trovavano alla tematiche dell’antiautoritarismo: basti pensare in tal senso alla diffusione di un pensatore come il Marcuse di Eros e civiltà. Ma anche qui, va aggiunto, frequentando pensatori che certo non avevano rinunziato a pensare secondo l’orizzonte della totalità e della dialettica, ma tra i quali pure stentava a darsi, per non dire che di fondo era assente, la definizione di un vettore di totalizzazione e integrazione che valesse ad esplicare organicamente la complessità della vita sociale all’altezza dei termini richiesti dalla contemporaneità capitalistica. Giacché i vari autori francofortesi hanno messo a tema la dialettica della merce e del denaro, i rovesciamenti del feticismo, la totalizzazione pubblicitaria e mass-mediatica, il dominio di una società pervasiva e totalmente amministrata fin nelle scelte e nelle psicologie individuali. Ma sono rimasti nel loro complesso sempre limitati alla rappresentazione di una società più monetaria e mercantile che non propriamente capitalistica, rinunciando anche loro in tal modo ad un’analisi del variare delle composizioni organiche e delle trasformazioni tecnologiche che ne derivano, ossia ogni volta a quello studio, propriamente marxiano, delle innovazioni di quel sistema inscindibile costituito dal nesso sistematico macchina-forza-lavoro, che potesse valere come principio direttivo e primario di un’analisi sociale estensibile dal piano delle strutture a quello delle sovrastrutture.

 

Dalla «dialettica» tedesca alla «differenza» francese

È stata dunque l’estenuazione progressiva del marxismo teorico, sia di tradizione storicistica che di tradizione scientistico-empirica, a muovere dal suo originario vulnus di non pensare il Capitale come soggetto sistemico della modernità e di non porre, di conseguenza, all’ordine del giorno la totalizzazione dell’essere sociale che il capitalismo, anche in Italia, veniva gradualmente realizzando - a dissodare il campo perché la cultura dell’emancipazione radicale degli anni ’70 si volgesse dall’area d’ispirazione tedesca a quella d’ispirazione francese. La conseguenza fu che il marxismo filosofico, abbandonati sia i paradigmi storicistici che quelli dell’empirismo scientifico dell’alienazione, non potesse che cedere all’accoglimento dell’althusserismo: a un teorizzare cioè che, senza mezze misure, dislocava il pensiero di Marx dalla cornice dialettica nella quale era nato, e nella quale anche se polemicamente s’era sempre trattenuto, ad una cornice concettuale profondamente diversa- vera e propria μετάβασις εις άλλο γένος – quale quella costituita dallo strutturalismo (con condimento lacaniano), quale visione del mondo istituita non più sulla filosofia ma sulla linguistica. Con la conseguenza primaria, per quel che ci riguarda, che lo strutturalismo althusseriano segnava, malgrado le dichiarazioni in contrario, una radicale e definitiva rinuncia alla prospettiva della «totalità» quale chiave di volta di ogni prospettiva di ontologia ed epistemologia storica.

Se totalità nella prospettiva del marxismo di frequentazione dialettica aveva significato la possibilità di pensare la molteplicità dei piani del reale nel loro rimando strutturale a un dominante vettore di sintesi e di unificazione, se cioè la migliore tradizione dialettica aveva significato poter pensare la «differenza» e il «divenire» senza rinunziare al valore irrinunciabile dell’«identità» e della «permanenza», in Althusser la teoria della molteplicità delle pratiche, ciascuna con uno statuto proprio, apriva a una dissoluzione di qualsivoglia configurazione sociale unitaria, cui la categoria della «surdeterminazione», presa in prestito dalla psicoanalisi, non bastava a garantire un grado sufficiente di sintesi e sistematicità. Trasportata di sana pianta dai giochi dell’inconscio freudiano, per i quali un sintomo o un sogno rimanderebbero a più catene ideative e causali, nell’ambito del gioco sociale la categoria della surdeterminazione rimandava infatti in Althusser solo a una genericissima teoria della correlazione dei diversi ambiti, al ritrovar cioè in ciascuno degli spazi del reale l’effetto della causalità dei molti altri: insomma all’annacquamento delle problematiche dialettiche dell’uno e dei molti, del nesso dei distinti e degli opposti, della connessione e dissimulazione di essenza ed apparenza, in una generalizzata e semplificata teoria della compresenza e della reciprocità.

Del resto non a caso tale strutturale insensibilità del pensiero di Althusser verso il valore della sintesi, e di ogni vertice teorico prominente e determinante, si riproponeva quando aveva da riflettere sulla natura e la funzione della soggettività individuale. Perché anche qui il soggetto, con il meccanismo dello specchio preso a prestito da Lacan, veniva teorizzato come impossibilità strutturale di ogni riconoscimento autonomo ed identitario, in quanto in effetti solo relazione all’altro ed esteriorità a se stesso: ossia dipendenza dall’Altro che lo riconosce solo in quanto lo pervade e lo assoggetta con la sua legge e il suo dispositivo simbolico. Cosicché gli «Apparati Ideologici di Stato», che tanta prossimità si è detto mostrassero con il funzionamento dell’ideologia in Gramsci, rimandano in effetti a una funzione antropologica e sociale profondamente diversa da quella assegnata dal comunista sardo alle sovrastrutture ideologiche. Perché mentre in questi l’ideologico, nel verso positivo, è ciò che sottrae una classe o un gruppo sociale all’ideologico in senso negativo, ossia all’identificazione-introiezione con l’altro da sé costituito da un’altra classe o gruppo sociale, in una conquista terapeutica e progressiva del proprio, in Althusser mi sembra che non sia affatto questione di «proprio». Giacché nel pensatore francese interviene l’Altro in quanto tale, nella sua assolutezza di funzione antropogenetica, a dar vita all’essere umano in quanto tale. Per cui non è questione di colonizzazione di classe ma di genesi alla vita sociale in quanto tale. Ed è a muovere da tale scelta iniziale a favore del composito strutturalistico e del multiversum che Althusser ha poi concluso coerentemente il percorso del suo pensare con l’esaltazione del cosiddetto «materialismo aleatorio».

L’althusserismo, coniugando l’ispirazione di fondo di tutto lo strutturalismo, radicalizza dunque in Italia il convincimento di coloro che ormai pensano che la dialettica sia sinonimo solo di mediazione e sintesi: sia insomma solo strumento di conservazione e di legittimazione dell’esistente, sia sul piano filosofico che su quello politico. Cosicché l’althusserismo, con una lettura incredibilmente miope e semplificatrice della filosofia di Hegel, diventa la testa di ponte dell’accoglimento di un pensiero francese della differenza, o come si dirà più tardi della differance, nel quale ogni concezione di fondamenti primi della realtà, come di una possibile tassonomia gerarchica dei suoi diversi ambiti, viene criticata e data per superata.

 

Dal Desiderio come legge a sé stesso al sapere-potere

In tale prospettiva sono Deleuze e Foucault a essere accolti come i più seduttivi protagonisti di una rivoluzione del desiderio che possa affermarsi contro la norma repressiva di ogni principio di realtà e di ogni sistema istituzionale. Perché se Nietzsche era stato l’eroe eponimo del differenzialismo moderno – avendo posto a principio della sua decostruzione dei valori dell’Occidente la valorizzazione estremistica del corpo, come unica fonte del senso, quale luogo di confronto e di polemos, costantemente nuovo, di pulsioni e desideri – Deleuze, raccogliendone l’eredità, insieme a quella del creazionismo vitale di Bergson, si era fatto massimo protagonista di una cultura rizomatica che vedeva nelle strutture e nelle legalità della permanenza il massimo del disvalore e della inautenticità. Né a caso accadeva che la vittima più celebre di tale estenuazione della differenza fosse proprio, con l’Antiedipo di Deleuze e Guattari, la psicoanalisi di Freud. Perché anch’essa criticata e denunciata come affetta dall’esigenza della «mediazione»: della mediazione tra ordine degli affetti e ordine simbolico, tra pulsione e linguaggio, tra i tre ordini del rappresentare, emozionale, di cosa e di parola, tra lo spazio intrapsichico e intrasoggettivo e quello sociale e intersoggettivo. Laddove appunto la pretesa deleuziana che il desiderio fosse, di per sé, legge a se stesso e fattore totale di senso denunciava l’intera impresa freudiana di essere, sia come teoria che come clinica, parte di un generale impianto repressivo e conformista. Aprendo in tal modo la strada a quella svalutazione della psicoanalisi freudiana, o meglio a quel passaggio di vertice teorico da Vienna a Parigi, che non poco ha contribuito poi a fare di quel dandy8 surrealista della psicoanalisi e impareggiabile sofista, che è stato Jacques Lacan, l’unico supposto teorico in grado di coniugare psicoanalisi e innovazione teorica, inconscio e apparati sociali e simbolici.

Con Michael Foucault, alla valorizzazione deleuziana del moltiplicarsi vitale dei rizomi di contro ad ogni autoritarismo unitario, si è assommata la messa in scena di una microfisica del potere che, attraverso uno studio originale e inedito di universi disciplinari mai sufficientemente considerati, ha ulteriormente radicalizzato un paradigma dissolutorio di ogni cornice di sintesi e di logica sistemica. Nel solco della svolta linguistica che ha connotato larga parte del pensiero del Novecento e nell’orizzonte immediatamente futuro di un postmoderno pronto a risolvere ogni livello dell’Essere nel linguaggio, Foucault ha rifiutato infatti ogni referente extralinguistico dei logoi, teorizzando che i discorsi né partono dalle intenzioni di esseri umani né rimandano a piani del significato altri dal segno linguistico: perché i logoi sono invece pratiche autosufficienti che producono esse medesime i propri oggetti e i propri significati, senza far ricorso ad alcuna causalità esterna, presuntivamente mossa o da un supposto soggetto umano, mai realmente esistito, o da presunti fattori economici e storico-sociali, assunti come fonte primarie. Perché muovendo dal principio che, come scrive in Le parole e le cose, «solamente entro il vuoto dell’uomo scomparso» si possa oggi realmente pensare che «chi parla non è propriamente l’uomo, ma è la parola stessa», Foucault assolutizzava l’unico paradigma della relazione oppositiva, secondo la quale ogni pratica discorsiva, ogni forma del sapere, è attraversata e costituita da rapporti di potere, di affermazione del vero contro il falso, del superiore contro l’inferiore, di forze dominanti le contrarie. Concludendo che sapere e potere sono intrinsecamente connessi e che le relazioni di forza che generano il sapere-potere sono distribuite localmente, secondo una microfisica che non è mai riducibile ad una logica unitaria.

 

Tecnica heideggeriana e tecnologia marxiana

È dunque il pensiero francese, da Althusser a Foucault, a spostare il vertice del pensare dalla dialettica alla differenza, sottraendo centralità al concetto marxiano di prassi e moltiplicandone il senso in una congerie di pratiche eterogenee. Ed è in tale radicalizzarsi di una concettualizzazione antidialettica che si svolge l’ultimo episodio del marxismo italiano teorico-politico che qui vogliamo considerare, qual è il traghettamento di buona parte dell’intellettualità italiana di massa alla metafisica della differenza ontologica di Martin Heidegger, compiuta dagli enfantes terribles dell’operaismo italiano.

A me sembra che l’ispirazione dell’operaismo italiano, fin dalla prima versione di Mario Tronti e Antonio Negri, sia sempre stata assai più prossima alla filosofia dell’atto e della primazia del soggetto sull’oggetto di Giovanni Gentile che non alla dialettica hegelo-marxiana della totalizzazione e del nesso essenza-apparenza. Tanto da concepire la modernità capitalistica come inaugurata e scandita, di volta in volta, dall’iniziativa della soggettività operaia, cui il capitale avrebbe fatto sempre seguito, adattandovisi e rispondendo con le diverse fasi di razionalizzazione tecnologica e burocratico-politica: in una anticipazione di prassi sovversiva e rivoluzionaria che esprimerebbe il primato strutturale della composizione politica di classe sulla composizione organica del capitale. Ora quello che qui preme più sottolineare, riguardo al nostro tema, è che da tale esaltazione ed estremizzazione fichtiana dell’Io sul Non-Io, lontana dalla lezione hegeliana della ragione dialettica come mediazione di opposti, da tale irrazionalismo volto a valorizzare in modo univoco un estremo contro l’altro, da tale retorica e assolutizzazione della negazione, era quasi obbligato che derivasse, in un proposito più o meno inconscio di abbandonare qualsiasi dialogo con il marxismo delle tradizioni, una glorificazione del pensiero maledetto e negativo: cioè di quei pensatori, primi fra tutti Heidegger, che il Lukács ortodosso e in obbligo di obbedienza al materialismo di Stato, il Lukács della Distruzione della ragione aveva condannato, come pensatori dell’oscurantismo e dell’irrazionale. Così molti degli operaisti – Massimo Cacciari in primis come filosofo di spicco – e poi, tra gli altri, Agamben e altri – non hanno avuto troppe perplessità nel lasciare un Marx, forse mai troppo profondamente frequentato, per assumere il pensatore della Foresta Nera come massimo interprete della modernità e come nuovo vertice teorico a cui fedelmente ispirarsi per interpretare e trasformare autenticamente la realtà. Qui non è certamente il luogo per aprire un discorso su Heidegger e sull’arcaismo criptoreligioso del suo filosofare legato alla riproposizione di una categoria vieta e superata come quella di «Essere»: per altro, va detto, genialmente riutilizzata dal pensatore di Messkirch per una critica reazionaria e misteriosofica della modernità. È solo da sottolineare che con il traghettamento da Marx ad Heidegger ciò che s’è venuto perdendo è stata sopratutto la serietà e la complessità della lezione marxiana sulla «tecnologia» e sul processo capitalistico di produzione a favore di una leggendaria e mitologica teoria della «tecnica», che il filosofo dell’Essere, del tutto estraneo ad una teoria del Capitale, ha avuto l’abilità di dedurre dall’estremizzazione etimologica dei suoi filosofemi. Giacché proprio in questo transito dal paradigma marxiano della critica dell’economia politica al paradigma heideggeriano della critica della tecnica s’è consumato, io credo, il passaggio decisivo dell’intellighenzia radicale degli anni ’70 ad una discontinuità, non più componibile, con l’orizzonte del marxismo novecentesco. In Marx la tecnologia non è riducibile a tecnica, nel significato di un complesso di strumenti e dispositivi a disposizione dell’essere umano, perché l’Altro del processo produttivo è il processo di valorizzazione del Capitale, con l’obbligo da parte della ricchezza astratta in accumulazione di esercitare comando e dominio sulla forza-lavoro in un sistema macchina-forza lavoro che produce lavoro astratto9. Ed è appunto quel nesso, di volta in volta tecnologicamente diverso, tra macchina e forza lavoro ad articolare con le sue esigenze specifiche le diverse età della società moderna.

Laddove in Heidegger l’Altro che alberga nella tecnica, e che non consente di ridurla a una definizione antropologica e strumentale, è l’Essere, quale principio ontologico che si sottrae ad ogni identità, e che si manifesta, di epoca in epoca, secondo i modi diversi del disvelamento, dell’alétheia. Per cui l’essere umano sarebbe governato nella storia, di volta in volta, non dalle configurazioni dei rapporti di classe, ma dalle diverse modalità e destini del disvelamento. Riguardo alla disvelatezza, entro cui l’Essere di volta in volta si mostra sottraendosi, l’uomo infatti non ha alcun potere. Così la tecnica moderna non «è un operare puramente umano», perché la sua caratteristica è quella di un «disvelare impiegante», che risponde alla modalità specifica del disvelamento come provocazione: cioè come un continuo pretendere dalla natura che essa, come fondo, fornisca energia da accumulare e da impiegare. E la tecnica moderna come Gestell, come imposizione, è la risposta attraverso la quale l’essere umano risponde alla provocazione di mettere allo scoperto le energie della natura. La differenza dei due paradigmi, quello marxiano e quello heideggeriano, non potrebbe essere stata più radicale, con la ben diversa identità assegnata nelle due diverse visioni al Grande Altro che governa e comanda l’umano – la categoria metafisica dell’Essere nel pensatore della Foresta Nera e il Capitale con la sua accumulazione nella concettualizzazione del Moro – ed è stato, a mio avviso, appunto lo slittamento dal paradigma della critica marxiana della tecnologia capitalistica al paradigma heideggeriano sulla tecnica come invio destinale dell’Essere a valere come porta girevole, come commutatore teorico di maggior effetto nel produrre l’abbandono definitivo della visione di Marx del moderno come società del Capitale strutturata su relazioni di classi e vederla invece come conseguenza ultima di un abissale oblio dell’Essere che avrebbe investito l’umanità europea a partire dalla Grecia classica di Socrate e Platone.

Ma era anche una nuova teorizzazione della totalità che ora subentrava nella mente dell’intellettualità radicale tra la fine degli anni ’70 e gli inizi degli anni ’80 con la sovrapposizione e sostituzione della tecnica di Martin Heidegger alla critica della tecnologia capitalistica di Karl Marx. Era infatti l’adozione di un nuovo vertice teorico alla luce del quale ridisegnare una nuova metafisica, una nuova e integrale concezione della realtà: con l’esito paradossale di aprire l’accesso alle nuove ideologie del postmoderno attraverso la riproposizione anacronistica di una categoria vieta ed arcaica come quella di Essere. Una totalizzazione del reale cioè, definitivamente lontana dalle categorie e dalle opposizioni della dialettica, e fondata invece sulla differenza, sulla differenza abissale ed ontologica tra Essere ed Esserci, e sulla fondazione sfondata, senza fondamento dell’Essere, il cui sottrarsi ad ogni definizione identificante, consegna il reale al pensiero debole, a proporsi cioè come un mondo di epifanie e segni da interpretare, in un’ermeneutica semiologica infinita, attraverso segni.

La metafisica heideggeriana della tecnica appare così configurare l’atto finale dell’autoestenuazione dei marxismi durante gli anni ’70. A partire dalla tecnica come Gestell infatti non si potrà più comprendere adeguatamente la nuova era tecnologica del capitalismo fondata sulla macchina informatica nel suo nesso con il lavoro mentale, né il passaggio epocale dalla tipologia rigida e fordista dell’accumulazione all’accumulazione flessibile e globalizzata. Ma in particolare non si potrà per nulla mettere a tema e comprendere la dialettica di essenza ed apparenza che costituirà il cuore di questa nuova fase del capitalismo per la quale la subordinazione del lavoro mentale alla macchina dell’informazione, con la riduzione delle prestazioni lavorative a competenze solo linguistico-combinatorie, apparirà alla superficie della vita sociale come esaltazione, invece, e valorizzazione di una presunta autonomia e creatività di un’umanità intellettiva e comunicativa, ormai affrancata dalla servitù del lavoro manuale e capace, per tale affrancamento, di essere imprenditrice flessibile di se medesima.

Per concludere, io vorrei dire che al totalitarismo della vita sociale promossa e unificata dal capitalismo globalizzato dei nostri giorni può opporsi solo un’ideologia parimenti “totalitaria”, nel senso gramsciano di cui si diceva all’inizio. Aver disatteso quell’imperativo è stata la mancanza più grave delle generazioni, pure generose e radicali, degli anni ’70 e in particolare dei loro maîtres à penser. Ma la lezione della storia non concede mai remissioni o perdoni.

Così, se è vero che alla fine degli anni ’80 gli intellettuali italiani hanno preso definitivamente congedo dal marxismo, la mutazione genetica che ne è seguita è andata assai più verso un’antropologia dell’anaffettività culturale e del vuoto esistenziale che non verso una rinnovata stagione delle passioni e delle idee.

La rivoluzione passiva di cui quegli intellettuali sono stati, prima per affetto suicidario e poi per ilare e trasformistica compensazione, paradossalmente e insieme oggetto e soggetto, attende – ormai per estenuazione di fronte alla forza dell’Universale Economico che da ogni luogo ci pervade –o di produrre, a mio avviso, una nuova frequentazione degli universali dell’emancipazione, e, con essi, una rinnovata ideologia totalitaria.

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* Comunicazione al seminario promosso dalla Fondazione Istituto Gramsci e dalla Scuola Normale di Pisa su La crisi del soggetto. Marxismo e filosofia negli anni Settanta e Ottanta, Roma 26-28 novembre 2014.
1) D. Ferreri, L’ideologia italiana, in La ragione possibile, 1990, n. 1, p. 11.
2) Cfr. P. Voza, Rivoluzionepassiva, inDizionariogramsciano 1926-1937, a cura di G. Liguori e P. Voza, Roma, Carocci, 2009, pp. 724-728.
3) Cfr. A. Honneth,A utorealizzazioneorganizzata.Paradossi dell’individuazione, trad. it. di V. Santoro, in post filosofie, 2005, n. 1, pp. 27-44.
4) Mi permetto di rinviare ai miei due saggi, AntonioLabriola e Antonio Gramsci: variazioni sul tema della «prassi», in A. Burgio (a cura di), Antonio Labriola nella storia e nella cultura della nuova Italia, Macerata, Quodlibet, 2005, pp. 329-341; Antonio Gramsci. La rifondazione di un marxismo «senza corpo», in P. P. Poggio (a cura di), L’altronovecento. Comunismo eretico e pensiero critico, Milano, Jaca Book, 2010, vol. 1, pp. 321-334.
5) «Solo un sistema di ideologie totalitario riflette razionalmente la contraddizione della struttura e rappresenta l’esistenza delle condizioni oggettive per il rovesciamento della prassi. Se si forma un gruppo sociale omogeneo al 100% per l’ideologia, ciò significa che esistono al 100% le premesse per questo rovesciamento, cioè che il “razionale” è reale attuosamente e attualmente» (A. Gramsci, Quaderni del carcere, edizione critica a cura di V. Gerratana, Torino, Einaudi, 2007, Quaderno 8, p. 1051).
6) «È preferibile “pensare” senza averne consapevolezza critica, in modo disgregato e occasionale […] o è preferibile elaborare la propria concezione del mondo consapevolmente e criticamente? […] Si è conformisti di un qualche conformismo, si è sempre uomini-massa […] Criticare la propria concezione del mondo significa dunque renderla unitaria e coerente e innalzarla fino al punto in cui è giunto il pensiero mondiale più progredito pensare coerentemente e in modo unitario» (Ivi, Quaderno 11, pp. 1375-1376).
7) A proposito della meccanizzazione fordista Gramsci può scrivere: «Quando il processo di adattamento è avvenuto si verifica in realtà che il cervello dell’operaio, invece di mummificarsi, ha raggiunto uno stato di completa libertà» (Ivi, Quaderno 22, p. 2170).
8) Cfr. S. Benvenuto, A. Leucci, Lacan, oggi, Milano, Mimesis, 2014, p. 28.
9) Anche qui mi permetto di rinviare al mio Un parricidio compiuto. Il confronto finale di Marx con Hegel, Milano, Jaca Book, 2014, pp. 173-200. Sulla distinzione, concettuale e storico-filologica, tra tecnica e tecnologia, è imprescindibile tener conto della riflessione che ormai da molti anni svolge su questa tematica G. Frison. Della sua ampia produzione qui basti citare Linnaeus, Beckmann, Marx and the foundation of Technology. Between natural and social sciences: a hypothesis of an ideal type. First Part: Linnaeus and Beckmann, Cameralism, Oeconomia and Technologie, in History and Technology, 1993, vol. 10, pp. 139-160, Second and Third Parts, Beckmann, Marx, Technology and Classical Economics, in History and Technology, 1993, vol. 10, pp. 161-173. Ma si guardi dello stesso autore anche Technical and technological innovation in Marx, in History and Technology, 1988, vol. 6, pp. 299-324.

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