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I segni del comando

UNA POLITICA NEL LABORATORIO DELLA RETE

di Sergio Bellucci, Marcello Cini

 L'attuale capitalismo è un'immensa produzione di segni ridotti a merce. Per traformare la realtà, non basta però invocare il rispetto delle regole o, all'opposto, la loro violazione per restituire la libertà alla cooperazione produttiva. Occorre invece lo sviluppo di un welfare delle relazioni che favorisca le diversità senza che queste si traducano in forti diseguaglianze sociali

«Quando le immagini - scrive Franco Berardi nel suo articolo La misura dell'illegalità pubblicato il 27 marzo sul Manifesto - non più semplici rappresentazioni della realtà, divengono simulazione e stimolazione psico-fisica i segni divengono la merce universale, oggetto principale della valorizzazione del capitale... Questa è la ragione per cui possiamo parlare di semiocapitalismo: perché le merci che circolano nel mondo economico - informazione, finanza immaginario - sono segni, immagini, numeri, proiezioni, aspettative, il linguaggio non è più uno strumento di rappresentazione del processo economico e vitale, ma diviene fonte principale di accumulazione che continuamente deterritorializza il campo dello scambio».

Sono parole che salutiamo con grande soddisfazione perchè sono in perfetta sintonia con la tesi di fondo della nostra analisi sulla svolta che il capitalismo ha vissuto nel passaggio dal XX al XXI secolo, esposta nel recente libro Lo spettro del capitale (il manifesto del 18/10/2009). «Sempre più il processo di accumulazione del capitale - abbiamo scritto infatti - si fonda oggi sulla produzione di segni dotati di senso sotto forma di merce di beni non tangibili: non solo conoscenza, informazione ma anche comunicazione intrattenimento e addirittura modelli di vita».

 

La legge dell'illegalità

Di conseguenza, «il lavoro nella produzione capitalistica di merci immateriali non è riducibile a pura quantità. In ogni forma, anche la più semplice, di produzione di segni c'è una componente individuale qualitativamente essenziale e non quantificabile in termini di tempo». Mentre infatti nella fabbrica di oggetti il lavoratore deve annullare la propria individualità per eseguire automaticamente e sempre più in fretta lo stesso gesto prestabilito e programmato, nella fabbrica di segni il singolo lavoratore deve sfruttare la propria individualità per inventarsi il modo più efficace per conquistare il gradimento dell' utente per la merce che gli viene direttamente o indirettamente offerta. Nel primo caso il lavoratore manipola un pezzo di materia nel secondo deve interagire con un essere umano.

Il discorso di Bifo procede ancora, all'inizio, con argomentazioni che concordano con quelle nostre. A sua volta infatti egli afferma: «il lavoro cognitivo non può più essere ridotto, come era per il lavoro nell'industria novecentesca della produzione di oggetti materiali, alla misura del tempo necessario». Entrambi dunque osserviamo che alla deterritorializzazione, resa possibile dalle nuove tecnologie digitali, è seguita una deregulation del mercato del lavoro. Le nostre strade tuttavia cominciano a questo punto a separarsi.

Per Bifo infatti - ed è questo il punto centrale del suo discorso - segue che «il mercato del lavoro diviene il luogo della pura legge della violenza, della sopraffazione. Non si tratta - prosegue - più di semplice sfruttamento ma di schiavismo di violenza pura contro la nuda vita, contro il corpo indifeso dei lavoratori di tutto il mondo». E ancora: «La violenza è la forza regolatrice dell'economia semiocapitalistica perciò non è contrastabile con i richiami alla legalità e alla moralità».

A questo punto tuttavia, i nostri cammini prendono direzioni diverse. Intendiamoci bene. Non è che noi trascuriamo questo aspetto della svolta compiuta dal capitalismo nel passaggio dal fordismo e dal welfare socialdemocratico del XX secolo al supercapitalismo neoliberista che, aprendo anticipatamente il XXI, ha avuto in Milton Friedmann il suo teorizzatore e in Reagan e nella Thatcher i suoi realizzatori politici. La denuncia della violenza economica sociale e politica esercitata sui lavoratori e su popoli interi, documentata nei minimi dettagli da Naomi Klein nel bestseller mondiale Shock Economy, dovrebbe ormai far parte della cultura della sinistra, se ancora esistesse al di fuori dei meri termini di rappresentanza istituzionale. Noi stessi abbiamo dedicato a questo aspetto un capitolo del nostro libro e non è questa la sede per ribadirne il peso.

Il punto è che noi riteniamo insufficiente, per costruire dal basso una cultura in grado di «affermare un altro modo di vita e una nuova solidarietà del lavoro», l'esortazione di Bifo a «non rispettare le regole non scritte che il capitalismo ha imposto». Detto in termini più concreti, non è che violare «le regole» sia di per sé garanzia di successo. Soprattutto se non si ha chiaro con che cosa sostituirle.

Noi pensiamo infatti che le «regole del semiocapitale», che sovvertono quelle del capitalismo novecentesco, operino su una molteplice varietà di fronti. Per contrastarle bisogna conoscerle bene. Vediamone un breve elenco.

Il primo fronte riguarda l'interesse a sostenere la domanda sullo stesso territorio ove si effettua la produzione. Chi produce (l'azienda) perde l'interesse che le merci prodotte siano acquistabili dagli stessi produttori (i suoi lavoratori o quelli che vivono nel territorio) come accadeva nella fase novecentesca. I compratori possono ormai trovarsi in ogni luogo del pianeta. Questa novità ha separato i destini delle aziende da quelle dei lavoratori. La seconda rottura riguarda la smaterializzazione del denaro e la produzione della finanza informatizzata. Si rompono i legami che impedivano la circolazione dei capitali e si crea la moltiplicazione del capitale per strutture finanziarie che possono operare in tempo reale nell'intero mondo.

 

Un mondo fuori linea

Il terzo fronte è invece costituito dall'intreccio sempre più pervasivo del sistema dei media, sostenuto dalla pubblicità, nell'incentivare il consumo e nella produzione di senso sociale della vita e delle relazioni. Il quarto è lo spezzettamento del ciclo produttivo con modalità diverse da come aveva pensato Ford lungo una stessa «linea», infatti oggi i pezzi del ciclo possono risiedere in un qualunque punto del mondo. La struttura informativa della azienda, informatizzata e messa in rete, può integrare i processi con una efficacia incredibile. Il quinto, infine, è l'avvento della rete Internet come mezzo per connettere imprese e clienti, produrre solo ciò che viene ordinato e con le caratteristiche richieste, facendo svolgere un pezzo del ciclo produttivo direttamente al cliente e a sue spese. La produzione diviene connessa sempre più.

Questa trasformazione ci ha fatto fuoriuscire dalle società di stampo tradizionale e inserito nelle società del mutamento. Ma questo non significa impossibilità di «governo», società del «caos», assenza di regole o di forme di conflitto che segnino un avanzamento stabile del grado di libertà. Significa solo la necessità di forme della politica e dell'organizzazione che assumano come base la cultura della complessità utilizzando fattori che poggiano sull'azione, sempre più consapevole, di un numero sterminato di persone e non sulle élites.

Non possiamo pensare, a sinistra, di restaurare forme di potere conosciute e contro le quali ci illudiamo di saper combattere. Né basta proporci di cambiare la società. La società sta già cambiando e ad una velocità che le analisi tendono a non saper anticipare. Possiamo però cercare di produrre quei piccoli cambiamenti che in un sistema complesso e instabile come quello in cui viviamo, possono instradarlo su un cammino virtuoso piuttosto che su uno catastrofico tra quelli che le possibili biforcazioni ci presentano.

Ci sono oggi pratiche, esperienze, forme organizzative già presenti nelle pieghe del tessuto sociale che, sia pure minoritarie, coinvolgono milioni di uomini e donne di buona volontà in tutto il mondo, ma potrebbero diventare dominanti. Per esempio lo sviluppo di relazioni tra individui mutuamente vantaggiose ma non dirette alla realizzazione di profitto; la pratica di forme di lavoro in cooperazione finalizzate al raggiungimento di obiettivi comuni; la formazione del consenso sulle decisioni che comportano vantaggi e svantaggi tra soggetti diversi; la composizione dei conflitti tra portatori di interessi differenti; la gestione di beni comuni nell'interesse degli appartenenti a una stessa collettività.

Negli ultimi due capitoli del nostro libro - Economie non mercantili e Per un welfare delle relazioni - cerchiamo di fornire qualche esempio di iniziative già avviate, di esperienze fruttuose e di imprese promettenti, tutte fondate sul principio base della demercificazione della produzione dei beni immateriali e della gestione delle risorse non tangibili nella forma della cooperazione e della condivisione. Questi esempi mostrano che non si tratta di utopia, ma di realizzazioni concrete. Il punto essenziale che vogliamo sottolineare è piuttosto che il loro valore esemplare sta nella loro diversità. È l'invenzione delle forme di relazioni produttive e sociali di cooperazione e di condivisione, adatte a realizzare, nelle diverse situazioni locali, i modi di vita, le aspirazioni, i gusti, le abilità, le passioni, le abilità dei singoli individui e delle loro culture, che può riuscire a costruire un mondo pacificato di donne e uomini liberi, nel quale le diversità non si traducano in una scala quantitativa di disuguaglianze di reddito, di potere, di diritti e di qualità della vita.

 

In nome della condivisione

Non potremmo tuttavia concludere queste sommarie indicazioni senza accennare al tema, che per noi è centrale, del ruolo che le reti devono avere nel processo di demercificazione della produzione dei beni. Citiamo a questo proposito la sociologa Mariella Berra quando prospetta la possibilità che «il dono e la cooperazione possano idealmente porsi come il presupposto naturale per la crescita di una nuova economia che utilizzi Internet e più in generale il sistema socio-tecnico delle reti come luogo di diffusione e di scambio». «Nella rete - prosegue infatti questa autrice - il soggetto non solo agisce come un attore razionale che massimizza le sue utilità individuali, ma, grazie alle estese e reversibili relazioni di scambio a cui partecipa, si trova a cooperare nella produzione di beni pubblici».

Quella della rete come un territorio-laboratorio per sperimentare la nuova forma dei beni pubblici sembra una realtà che sfugge alla politica. Il bene pubblico novecentesco, infatti, era rappresentato dall'intervento dello Stato e dalle sue articolazioni. Quello che emerge dal laboratorio-rete, invece, è una forma di autorganizzazione dal basso, che tende ad autoregolarsi e a fissare i propri obiettivi in maniera condivisa per target di interessi. Una forma che la politica, per come l'abbiamo sperimentata finora, tende a non comprendere né ricomprendere. Una forma che, probabilmente, saprà costruire un proprio modello di rappresentanza in grado di colmare la distanza percepita oggi tra la politica e la persone. Quella che ha fatto tanto parlare in questi mesi e che non è risolvibile solo sul piano quantitativo del numero dei deputati o della riduzione del loro stipendio.

Forse, per far ciò si infrangerà anche qualche «regola» esistente, ma perché si ha già in mente la sua sostituzione con una che emerge da altri comportamenti socialmente già condivisi.

 

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