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one euro

Tutto quello che non vi hanno mai raccontato sul debito pubblico italiano

di Thomas Fazi

Qualche giorno fa, Carlo Cottarelli, ex direttore del dipartimento delle politiche fiscali del Fondo monetario internazionale (FMI) – e l’uomo scelto dal governo italiano per redigere l’ennesima spending review della spesa pubblica italiana – ha annunciato un ambizioso piano di tagli per il periodo 2014-6: la cifra ancora non è chiara, ma si va dai 10 ai 32 miliardi (pari all’incirca al 2% del PIL) in tre anni, il che triplicherebbe gli obiettivi di risparmio delineati nella Legge di Stabilità. Il ministro dell’economia Fabrizio Saccomanni ha parlato di «una piena condivisione del piano di lavoro» preparato dal commissario, anche in considerazione del fatto che è «cruciale» tagliare la spesa pubblica, tanto che la revisione della spesa è «un elemento cardine della politica economica del governo».

Non è ancora chiaro dove e come saranno effettuati i tagli. Come sempre in questi casi, Cottarelli si è affrettato a dire che intende colpire principalmente gli «sprechi» e le «inefficienze» dell’amministrazione pubblica (un argomento molto caro agli italiani, che pare non si stanchino mai di sentirlo) e che non ci saranno tagli lineari alla spesa. Ma il sospetto che non sia esattamente così, alla luce della storia recente (vedi la spending review dell’anno scorso), è lecito. E difatti, lo stesso giorno, il governo ha ammesso che intanto intende recuperare 2-3 miliardi di euro «immediatamente», a partire dalla sanità: la previsione è arrivare a 1-1,5 miliardi di tagli nel 2014, tanto per cominciare. Entro fine anno, poi, dovrebbe arrivare anche il piano sulle dismissioni-privatizzazioni del patrimonio pubblico, che a quanto pare interesserà non solo gli immobili ma anche le partecipazioni azionarie. L’obiettivo della manovra, dice Cottarelli, è duplice: ridurre le imposte sul lavoro e ridurre il debito pubblico.

Lo scopo di questo articolo non è entrare nel merito della distribuzione dei tagli (che peraltro è ancora poco chiara). Certo, la scelta del governo di effettuare ulteriori tagli alla sanità e di dismettere i beni pubblici mentre difende a spada tratta l’acquisto di novanta caccia F35, al costo di 14 miliardi di euro circa, ci pare se non altro eticamente dubbia. Sul fatto che la spesa pubblica si può benissimo tagliare, se proprio si deve, senza colpire i più deboli sono stati spesi fiumi di parole. Si veda, per esempio, la “controfinanziaria” redatta ogni anno da Sbilanciamoci!.

Piuttosto, quello che ci interessa capire – può sembrare una domanda banale, ma non lo è – è perché il governo ritenga che sia «cruciale» in questo momento tagliare la spesa pubblica, al punto da essere una priorità assoluta. La risposta può sembrare ovvia: l’Italia è un paese che spende troppo e male, ed è questo il motivo per cui abbiamo un debito pubblico così alto e delle tasse così gravose; dunque, una manovra che punta a tagliare i costi dello stato e a ridurre a contempo la pressione fiscale non può che essere accolta favorevolmente. Meno sprechi e meno tasse: perfetto, no?

Non proprio, come vedremo. Per capire perché, è necessario sfatare alcuni dei miti che riguardano lo “stato penoso” – a detta di molti – delle finanze pubbliche italiane. Partiamo dal più diffuso e duro a morire: l’idea che l’Italia sia una paese “spendaccione”.

Nel 2012 (l’anno più recente per il quale abbiamo dati certi), la spesa pubblica totale dell’Italia (comprensiva degli interessi sul debito pubblico, si badi bene) era equivalente al 50,6% del PIL, di poco superiore alla media dell’eurozona del 50% e nettamente inferiore al livello di paesi come Francia (56,6%), Finlandia (56,6%) e Belgio (54,9%). Inoltre come si può vedere nella figura 1, a partire dall’introduzione dell’euro l’andamento della spesa pubblica italiana ha seguito una traiettoria molto simile a quella della media dell’eurozona, registrando un incremento in seguito alla crisi del 2007-8 (questo è normale: la spesa pubblica aumenta sempre in tempo di crisi per via dei cosiddetti ammortizzatori sociali automatici), per poi calare nuovamente dal 2009 in poi (scendendo addirittura sotta la media dell’eurozona nel 2010), grazie alla lieve ripresa economica dovuta alle politiche di stimolo fiscale perseguite più o meno da tutti i governi dell’eurozona in seguito alla crisi (su questo punto si veda il post “Ma i tedeschi hanno mai capito Keynes?”).

Figura 1: spesa pubblica totale (inclusiva degli interessi sul debito pubblico) dell’Italia e dell’eurozona in percentuale al PIL, 2000-2012

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Fonte: Eurostat

Dal 2011 in poi, con l’inaugurazione del “regime di austerità”, l’andamento della spesa pubblica italiana comincia lievemente a divergere da quello del resto della zona euro. Il motivo è che nella maggior parte dei paesi dell’unione monetaria (soprattutto quelli della periferia) l’austerità ha comportato tagli piuttosto drastici alla spesa pubblica (con conseguente stabilizzazione della media dell’eurozona sui livelli del 2011). In Italia, invece, il “consolidamento fiscale” si è portato avanti perlopiù a colpi di aumenti della tasse, mentre la spesa pubblica italiana ha subìto un lieve incremento, perlopiù a causa dell’aumento della spesa pensionistica (vedi la figura 2), non della spesa corrente (beni e servizi).

Figura 2: spesa pensionistica dell’Italia in percentuale al PIL, 2001-2011

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Fonte: Istat

Ma questo, come spiega l’economista Gustavo Piga, è solo «solo l’inevitabile conseguenza di un patto intergenerazionale da rispettare». Nonostante ciò, come abbiamo detto, la spesa pubblica italiana resta comunque molto vicina, e solo lievemente superiore, alla media dell’eurozona. Insomma, dal punto di vista della spesa pubblica totale risulta difficile definire l’Italia un paese “spendaccione”, a meno che non sia voglia definire tale l’eurozona nel suo insieme.

Allora forse il problema dell’Italia non è l’ammontare della spesa totale, ma la sua composizione? Forse il problema è un eccessivo costo del welfare? Forse lo stato italiano, rispetto ai suoi partner europei, spende troppo in assistenza sociale e sanità? Questo spiegherebbe i tagli alla sanità annunciati dal governo. I numeri, però, smentiscono anche questa ipotesi. Come si può vedere nella figura 3, in quasi tutti i settori – difesa, ordine pubblico, sanità, protezione sociale – la percentuale di spesa sul totale delle spese del governo italiano è in linea con la media europea.

Figura 3: spesa pubblica per funzione sul totale della spesa nei paesi della UE, 2011

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Fonte: Eurostat

In alcuni settori (cultura, investimenti pubblici, istruzione), poi, la spesa pubblica italiana è drasticamente inferiore alla media: il caso più clamoroso è quello dell’istruzione, per cui l’Italia spende l’1,6% in meno (sempre sul totale delle spese) rispetto alla media dei suoi partner dell’eurozona, e il 2,4% in meno rispetto a quelli della UE. L’unico capitolo di spesa in cui l’Italia supera quasi tutti è quello dei “servizi pubblici generali”, che infatti include gli interessi sul debito pubblico. Insomma, da quasi tutti i punti i vista l’Italia non risulta un paese particolarmente “generoso”. Soprattutto, non si capisce quale sia la logica che spinge il governo a tagliare i costi della sanità quando questa risultano già lievemente inferiori alla media europea. Il buon senso farebbe supporre che i tagli, se proprio si vogliono fare, andrebbero fatti laddove l’Italia spende più dei suoi partner (a voi la scelta se sia meglio tagliare i costi della sicurezza o della difesa).

Finora abbiamo visto come la spesa pubblica italiana sia perfettamente allineata alla media europea, e come in molti comparti la spesa sia persino inferiore alla media. In base ai parametri ufficiali europei, insomma, l’Italia non risulta essere un paese particolarmente “scialacquatore”. Attenzione: non stiamo dicendo che non ci siano molti sprechi nell’amministrazione pubblica (a partire dai famigerati “costi della casta”). C’è molto che potremmo – e che dovremmo – fare per migliorare la maniera in cui spendiamo i nostri soldi. Quello che non ci è chiaro è perché, in questo momento di crisi gravissima per il paese, il nostro ministro dell’economia ritenga che la priorità dell’Italia sia tagliare la spesa pubblica.

Forse il problema è semplicemente che l’Italia, pur stando nella media, non può permettersi di pagare quello che pagano gli altri, il che spiegherebbe il famoso deficit dell’Italia di cui sentiamo sempre parlare. E qui arriviamo a un altro dei grandi miti sulle finanze pubbliche italiane, ovvero l’idea che da anni l’Italia viva “al di sopra delle sue possibilità”, spendendo più di quanto si possa permettere (e che questo sia il motivo per cui abbiamo un debito pubblico così alto). Di recente ho sentito con le mie orecchie Yoram Gutgeld, consigliere economico di Renzi, dire che «da decenni l’Italia cresce solo grazie alla spesa in deficit». Ma è veramente così?

Molti, sentendo parlare del “deficit” dell’Italia, pensano che voglia dire che l’Italia spende più di quanto incassi con le tasse. Quando si parla di deficit, però, è importante distinguere tra il “saldo primario” e il “saldo totale”. Il saldo primario è, appunto, la differenza tra le entrate delle amministrazioni pubbliche e le loro spese, al netto delle degli interessi sul debito pubblico. Il saldo totale, invece – a cui ci si riferisce quando si parla di deficit – include anche gli interessi sul debito pubblico. Ragionando sulla “virtuosità” o meno dell’Italia, allora, è giusto partire dal saldo primario, poiché il saldo totale dipende pesantemente dal debito pregresso, e dunque dalle scelte fatte dai governi passati, spesso vari decenni fa. Molti forse saranno sorpresi di scoprire che in base a questo parametro l’Italia – lungi dall’essere un paese che «cresce solo grazie alla spesa in deficit» – risulta anzi essere il paese più virtuoso d’Europa (e uno dei più virtuosi al mondo), con un saldo primario superiore al 2% del PIL, come si può vedere nella figura 4.

Figura 4: saldo primario dei governi europei, 2013

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Fonte: Economist

Non solo: l’Italia registra un avanzo primario sin dal 1990 (vedi la figura 5) ed è da quasi vent’anni la nazione europea più virtuosa sul fronte del saldo primario (vedi la figura 6).

Figura 5: saldo primario dell’Italia, 1950-2011

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Fonte: Fondo monetario internazionale

Figura 6: saldo primario di Germania, Spagna, Francia, Italia e Regno Unito: 1995-2010

grafico6Fonte: Fondo monetario internazionale

Cosa vuol dire questo? Che l’unico motivo per cui l’Italia registra un deficit nel saldo totale dei conti pubblici – che è comunque inferiore alla media europea sin dal 2009 (vedi la figura 6) – è che da circa vent’anni paghiamo una montagna di interessi sul debito pubblico.

Figura 7: saldo totale (comunemente chiamato “deficit”) dell’Italia e dell’eurozona, 2000-2012

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Fonte: Eurostat

Ovviamente, i soldi in avanzo che entrano nelle casse dello stato non vengono presi e messi da parte un caveau del Tesoro per essere spesi in futuro; servono piuttosto a ripagare gli interessi sul debito pregresso. È piuttosto noto – e ne abbiamo parlato varie volte anche sulle pagine di questo blog – che a causa della mancanza di una “vera” banca centrale e dei difetti strutturali nell’architettura dell’eurozona, i paesi dell’eurozona (ad eccezione della Germania) pagano dei tassi di interesse sul debito pubblico molto più alti di paesi con rapporti deficit-PIL e debito-PIL di gran lunga peggiori (vedi Stati Uniti e Giappone, per esempio). Questo vuol dire che destinano una percentuale molto maggior del PIL alla spesa per gli interessi sul debito, detto anche “servizio del debito”. La media dell’eurozona è del 3% del PIL totale dell’area valutaria, pari all’incirca a 400 miliardi l’anno.

Sotto il profilo degli interessi sul debito, però, l’Italia batte tutti: incredibilmente, per buona parte degli anni novanta abbiamo speso per pagare gli interessi sul debito pregresso (accumulato perlopiù nel corso degli anni settanta e ottanta, quando la spesa pubblica era effettivamente eccessiva) una percentuale del PIL superiore al 10% (vedi le figure 7 e 8).

Figura 8: spesa per interessi sul debito pubblico in percentuale al PIL nei paesi della UE, 1993-2014

grafico8Fonte: Commissione Europea

Figura 9: spesa per interessi sul debito pubblico dell’Italia in percentuale al PIL, 1950-2011

grafico9Fonte: Fondo monetario internazionale

In quegli anni, degli attuali paesi della UE, solo la Bulgaria pagava degli interessi più alti dei nostri. Questo è uno dei motivi principali per cui, nel corso degli anni novanta, il nostro debito pubblico è continuato a salire – sia in relazione al PIL (vedi la figura 9) che in termini assoluti (vedi la figura 10) – nonostante i nostri conti pubblici fossero in avanzo.

Figura 10: debito pubblico dell’Italia in percentuale al PIL, 1950-2011

Grafico 10Fonte: Fondo monetario internazionale

Figura 11: debito pubblico dell’Italia in termini assoluti, 1995-2012

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Fonte: Eurostat

In parole povere, le entrate erano sì superiori alle uscite, ma erano comunque insufficienti a tenere il passo con una spesa per interessi da capogiro, costringendoci ad indebitarci ulteriormente solo per ripagare il debito pregresso. Verso la fine degli novanta, e in seguito all’introduzione dell’euro, la nostra spesa per interessi è scesa significativamente, ma è comunque rimasta di gran lunga la più alta d’Europa (vedi la figura 7), e oggi ammonta all’incirca al 5% del PIL, pari a poco meno di 90 miliardi l’anno (quella della Bulgaria, a titolo informativo, ammonta a meno dell’1%; quella della Grecia al 4,5%).

Eccolo qua il motivo del famigerato deficit dell’Italia: +2% di avanzo primario, -5% di spesa per interessi uguale -3% di saldo totale. Nulla a che fare con un’eccessiva spesa pubblica o un welfare troppo generoso, con buona pace dei fanatici anti-spesa. A fronte di una spesa per interessi così onerosa, però, anche uno degli avanzi primari più alti del mondo – equivalente a un colossale trasferimento di ricchezza di 90 miliardi l’anno dalle tasche della collettività direttamente a quelle dei creditori, sia italiani che stranieri – risulta insufficiente. Questo è il anche il motivo per cui il debito pubblico italiano continua a crescere non solo in relazione al PIL (a causa della recessione) ma anche in termini assoluti (arrivando di recente alla quota record di 2,000 miliardi di euro): come in passato, dobbiamo continuare a indebitarci semplicemente per ripagare i debiti pregressi.

È ovvio che a fronte di una tale spesa per interessi, non ci sono molte alternative: escludendo soluzioni estreme (default, ecc.), o si risolve alla radice e una volta per tutte il problema degli interessi pagati sul debito (e, possibilmente, anche dello stock del debito), per mezzo di un intervento radicale da parte della BCE – come abbiamo detto varie volte, la soluzione migliore a nostro avviso sarebbe una parziale monetizzazione del debito pubblico di alcuni o di tutti gli stati dell’eurozona –, o si aumenta ulteriormente l’avanzo primario per mezzo di una riduzione della spesa pubblica (visto che un ulteriore aumento delle tasse, a torto o a ragione, sarebbe politicamente difficile da sostenere), incrementando la porzione del reddito nazionale che viene trasferito nelle tasche dei creditori. Che sia questo quello che ha in mente il ministro dell’economia quando dice che è «cruciale» tagliare la spesa pubblica? Il sospetto è lecito, visto che questa è stata la politica più o meno ufficiale imposta a tutti i paesi della periferia dal 2010 in poi.

Il problema è che questa soluzione non rappresenta una reale alternativa. Lo dimostra il caso degli altri paesi della periferia – Grecia, Portogallo, Spagna e Irlanda – a cui sono stati imposti drastici tagli della spesa con l’obiettivo di aumentare il loro saldo primario, che difatti è cresciuto significativamente in tutti i paesi in questione (la Grecia ha addirittura “conquistato” un avanzo) e in base alle stime ufficiali dovrebbe continuare a crescere negli anni a venire (vedi la figura 11). Tutto questo con l’obiettivo ufficiale di rendere più “sostenibili” i loro debiti pubblici.

Figura 12: saldo primario di Grecia, Portogallo, Irlanda e Spagna in percentuale al PIL, 2007-2014

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Fonte: Eurostat

Il risultato, però, è che in tutti e quattro i paesi il debito pubblico sta salendo vertiginosamente, sia in relazione al PIL che in termini assoluti (vedi le figure 12 e 13). Fa eccezione la Grecia per quel che riguarda il debito in termini assoluti per via della “sforbiciata” al debito contenuta nel secondo “pacchetto di aiuti” del 2011.

Figura 13: debito pubblico di Grecia, Portogallo, Irlanda e Spagna in percentuale al PIL, 2007-2014

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Fonte: Eurostat

Figura 14: debito pubblico di Grecia, Portogallo, Irlanda e Spagna in termini assoluti, 2007-2012

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Fonte: Eurostat

Il motivo è semplice: come abbiamo spiegato varie volte sulle pagine di questo blog, l’austerità è intrinsecamente recessiva (soprattutto se praticata nel bel mezzo di una recessione!), poiché toglie risorse all’economia nel momento in cui questa ne ha più bisogno. E ovviamente, se il PIL scende, ripagare il proprio debito pubblico diventa sempre più difficile (soprattutto se la spesa per interessi è particolarmente alta, come lo è nell’eurozona), non solo perché questo è misurato in rapporto proprio al PIL, e dunque una riduzione del denominatore determina automaticamente un aumento del numeratore; ma perché lo stock del debito tende a salire anche in termini assoluti, poiché i paesi sono costretti a indebitarsi solo per ripagare gli interessi sul debito, come sta avvenendo in tutti i paesi della periferia (come per l’Italia, a fronte di una spesa per interessi che nei quattro paesi sopracitati si aggira intorno al 4% del PIL, non c’è avanzo primario che tenga). Ovviamente, in quei paesi, una buona parte dell’incremento del debito è rappresentato dai “pacchetti di aiuto” (se così si possono chiamare) della troika.

Figurarsi se poi a praticare l’austerità è un paese come l’Italia, che ha già un avanzo primario; in cui, insomma, lo stato già toglie ogni anno all’economia più soldi di quanti ve ne immetta. Cottarelli dovrebbe saperlo meglio di chiunque altro: proprio l’FMI, in una serie di studi in cui ha analizzato gli effetti di centinaia di piani di austerità prescritti dal Fondo nel corso dei decenni, è giunto alla conclusione che in tutti i casi l’austerità ha avuto effetti recessivi sulle economie dei paesi interessati, incidendo negativamente sulla crescita, la disoccupazione, la coesione sociale, il grado di fiducia dei mercati e la sostenibilità del debito pubblico (vedi quie qui, per esempio). Lo stato comatoso dell’economia europea, comunque, ne è la prova vivente.

Certo, il governo si è affrettato a dire che i tagli alla spesa pubblica non serviranno solo ad “aggredire” il debito – in altre parole, ad incrementare il saldo primario –, ma anche a «ridurre le tasse sul lavoro». Ora, sul fatto che in Italia ridurre le tasse sul lavoro sia una priorità direi che siamo tutti d’accordo. Ma siamo sicuri che tagliare la spesa pubblica sia la maniera migliore per farlo? Ci auguriamo tutti che Cottarelli tenga fede alla sua promessa di ridurre «sprechi» e «inefficienze», ma la storia recente insegna che tutte le spending review iniziano con roboanti dichiarazioni sulla necessità di tagliare gli sprechi ma poi finiscono inevitabilmente per ridursi a tagli lineari alla sanità, all’educazione, alla cultura e alla ricerca. Se così fosse, vorrebbe dire che il governo – se anche tenesse fede alla sua promessa di tagliare le tasse (e comunque bisognerebbe vedere di quanto, poiché in questo caso la quantità è tutto) – con una mano darebbe e con l’altra prenderebbe. E non è affatto detto che il gioco valga la candela. Certo, una riduzione delle tasse offrirebbe sicuramente una boccata d’ossigeno a un’economia sempre più strangolata. Ma è una strategia che rischia di essere controproducente nel lungo periodo, soprattutto dal punto di vista della riduzione del debito.

Prima di tutto c’è la questione del cosiddetto moltiplicatore fiscale: sarebbe a dire, l’impatto delle politiche fiscali (riduzione/aumento della spesa pubblica e riduzione/aumento delle tasse) sul PIL. Quasi tutti gli studi sul tema (vedi qui, per esempio) sono concordi nel ritenere che nel contesto di un’economia depressa che soffre di un deficit prolungato di domanda aggregata – ed è indubbio che l’Italia risponda a questi criteri, tipici di una “trappola della liquidità” – l’impatto negativo sul PIL dovuto a una diminuzione della spesa pubblica (soprattutto se ottenuta per mezzo di tagli lineari, come quasi sempre accade) tende a essere maggiore dell’impatto positivo dovuto a una riduzione delle tasse, perché in un tale contesto è tutt’altro che certo che la gente correrebbe subito a spendere quei quattrini in più che si ritroverebbe in tasca. Insomma, un 1% di tagli lineari alla spesa pubblica usato per ridurre le tasse dell’1%, in percentuale al PIL, rischierebbe comunque di avere un effetto recessivo sull’economia (ma ovviamente in Italia si parla di ridurre le tasse in percentuale minore ai tagli alla spesa, poiché una parte dei soldi risparmiati saranno destinati al pagamento degli interessi). La conclusione, secondo molti esperti, è che sarebbe più opportuno ridurre la pressione fiscale sul lavoro – soprattutto se l’obiettivo è ottenere al contempo un incremento dell’avanzo primario – aumentando la pressione sui grandi patrimoni e le grandi società di capitali piuttosto che tagliando la spesa pubblica (a tal proposito, sarebbe utile uscire dal dibattito tasse sì/tasse no e iniziare a parlare di quali tasse, una questione di cui torneremo a parlare presto).

E questo senza prendere in considerazione il problema del debito pubblico. Anche ammettendo che la spending review di Cottarelli riesca a effettuare un taglio alla spesa pubblica semplicemente riducendo sprechi e inefficienze, senza ricorrere a tagli lineari, e che il governo destini una buona parte dei soldi risparmiati alla riduzione delle tasse sul lavoro – il che avrebbe senz’altro un impatto positivo, seppure limitato, sull’economia – rimane una questione fondamentale: ossia che è del tutto irrealistico pensare che il paese possa «crescere fuori dal debito», come sostiene il consigliere economico di Renzi. A fronte di una spesa per interessi come quella che paghiamo attualmente, ci vorrebbero tassi di crescita “cinesi” per poter realmente “aggredire” il debito. Il risultato è che il debito pubblico continuerà a crescere inesorabilmente, gravando sempre più sulle generazioni presenti (la mia) e future. Non a caso Robert Shiller, a cui di recente è stato assegnato il premio Nobel per l’economia, sostiene che in un contesto come il nostro abbassare le tasse senza intervenire sul problema della sostenibilità del debito pubblico equivale a prendere i cittadini per i fondelli. Una ripresa che punta unicamente al taglio delle tasse, dice Shiller, si basa su un inganno di fondo: il fatto che i cittadini ripagheranno domani, sotto forma di interessi sul debito pubblico, quello che risparmiano oggi per mezzo del taglio delle tasse (per contro, Shiller propone una strategia basata su maggiori tasse e maggiore spesa pubblica). Insomma, si tratterebbe, secondo il premio Nobel, dell’ennesimo gioco dello scarica barile ai danni delle generazioni future.

E qui arriviamo al nodo cruciale del discorso: come abbiamo detto più volte sulle pagine di questo blog, l’unica speranza per l’Italia è risolvere il problema del debito pubblico alla radice, “aggredendo” i tassi di interesse da usura che paghiamo al momento, e possibilmente anche lo stock del debito. Qualunque piano che non tenga conto della questione degli interessi rischia di essere semplicemente l’ennesima presa in giro ai danni dei cittadini, di oggi e di domani. A nostro avviso, la soluzione migliore sarebbe una monetizzazione parziale di tutti o alcuni gli stati dell’eurozona. Su come potrebbe essere fatta concretamente la monetizzazione del debito e in che quantità, e come potrebbe essere suddivisa tra i vari paesi dell’eurozona, torneremo a parlare presto.

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