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Si scrive sciopero, si pronuncia dignità

Guido Viale

Chi si batte per la difesa di beni comuni e cultura trova riscontri in un processo di riconoscimento collettivo figlio della «prepolitica» rivendicazione di rispetto dei no ai referendum Fiat. Un varco in cui la riluttante Cgil è dovuta entrare

Nel corso di numerosi incontri e dibattiti a cui mi è capitato di partecipare recentemente ho avuto questa impressione: che venga sottovalutata la rilevanza di temi prepolitici, che hanno avuto un enorme peso nelle mobilitazioni degli ultimi mesi e che possono averne uno ancora maggiore nella costruzione di un fronte di lotta unitario. Le manifestazioni delle donne del 13 febbraio sono state indette in nome della dignità del loro genere. Questo ha permesso a molti altri temi più politici di emergere e farsi strada dentro questo contenitore generale: la denuncia del precariato, della disoccupazione esplicita e implicita (il cosiddetto «lavoro scoraggiato»), della disparità retributiva, del «tetto di cristallo» nelle carriere, della mancanza di servizi sociali, della permanenza di un intollerabile squilibrio nella distribuzione dei carichi domestici, della coazione alla clausura domestica per evitare violenze e molestie per strada e nelle ore notturne (ne dimentico sicuramente molti altri). Nessuno di questi temi avrebbe avuto la forza - e infatti non l'ha avuta - d'imporsi all'attenzione pubblica e guadagnare la piazza da solo. La rivendicazione della dignità ha aperto a tutti un varco gigantesco.

I no nei referendum di Pomigliano e Mirafiori sono stati innanzitutto un'altra rivendicazione di dignità. Nessuno di coloro che hanno votato no si aspettava probabilmente di vincere e, tantomeno, di ottenere qualcosa di diverso da quello che era stato imposto se avessero vinto.

Tuttavia quei no hanno aperto un varco alla Fiom, che li ha sostenuti, e poi a un vasto schieramento di lavoratori precari, di comitati di lotta, di esponenti della «società civile» di schierarsi al loro fianco in un processo che ha costretto una riluttante Cgil alla proclamazione dello sciopero generale (che è solo un primo passo verso altre mete ancora tutte da definire).

Nella rivolta di studenti e ricercatori (e di uno ahimè sparuto gruppo di docenti) contro la legge Gelmini non c'è solo la denuncia della paralisi a cui viene ridotta l'università, ma c'è soprattutto la rivolta contro il degrado e il disprezzo a cui vengono relegati conoscenze, ricerca, sapere critico, desiderio degli studenti di appropriarsene, i loro sforzi, la loro dignità. Ancor più le mobilitazioni degli studenti medi, che già l'anno scorso avevano accompagnato le lotte di genitori e insegnanti contro i tagli alla scuola - dalle elementari alla secondaria - erano caratterizzati da una denuncia netta ed icastica, sintetizzata nella frase, mille volte ripetuta, «ci vogliono cretini e ignoranti» che è l'epitome di una rivendicazione di dignità. La lotta per la difesa della cultura (quella che per il ministro «non si mangia»; e quindi non merita rispetto. Ma lui mangia ben altro) in tutti gli ambiti nasce dallo stesso sentire.

Ma chiunque abbia avuto la ventura negli ultimi anni (o anche prima) di andare all'estero o entrare in contatto con qualche cittadino di un altro Stato europeo non può non essere rimasto umiliato dalla constatazione che «gli altri» ci guardano ormai come marziani e ci chiedono come facciamo a farci governare da un gangster, che è anche un clown, e un malato di satiriasi che compra le ragazze a vagonate. E c'è qualcosa dentro ciascuno di noi - tutti coloro che non passano le loro giornate davanti alla tv e che hanno perso ogni ancoraggio per un proprio percorso di individuazione - che alimenta un impulso irrefrenabile a liberarsi in qualsiasi modo da questa condanna.

La rivendicazione della propria dignità è una aspirazione che si radica nella individualità di ciascuno e ciascuna, ma che trova riscontri e punti di approdo solo in un processo collettivo di reciproco riconoscimento: del valore, delle capacità, delle potenzialità, ma anche delle difficoltà, delle sofferenze, delle debolezze reciproche. In una parola, in un contesto di solidarietà.

In quanto tale, la rivendicazione della propria dignità è l'esatto opposto della competitività, della volontà e della ricerca di un'affermazione a spese degli altri, che è stata ed è il fondamento, più o meno occulto, che sta alla base dello Zeitgeist, dello spirito del tempo, che ha dominato gli ultimi trent'anni e che si è concretizzato nel cosiddetto «pensiero unico». Una visione del mondo che nella sua dimensione strutturale è il liberismo, una dottrina che giustifica, più che praticare, la competizione universale - una versione totalizzante di «darwinismo sociale» - come soluzione «naturale» di tutti i problemi, sistema ottimale per «allocare le risorse» e promuovere il benessere di tutti. Ma che a livello personale ha comportato la promozione e la legittimazione universale del servilismo. Perché il modo più efficace, rapido e facile di farsi strada a spese degli altri è sottomettersi e asservirsi totalmente a chi sta più in alto nella gerarchia sociale. Il mercimonio di corpi, pensieri, azioni, scritti, voti, trasmissioni, dichiarazioni, affiliazioni politiche a cui il berlusconismo ci ha assuefatto da vent'anni non è che la punta di un iceberg, o la parte più grottescamente visibile, di un sentire che permea tutto l'universo dominato dal pensiero unico. Non si tratta di una questione di «valori», è un fatto strutturale che si radica nei comportamenti quotidiani di una moltitudine di soggetti e nei condizionamenti a cui ciascuno di noi è sottoposto da una precarietà sempre più diffusa che investe tutti gli aspetti del vivere associato: non solo il lavoro, ma anche tutto il resto, reddito, abitazione, scuola, assistenza, relazioni, traffico, salute, futuro.

È sbagliato secondo me, vedere in questi fattori prepolitici, di cui l'antiberlusconismo è stato indubbiamente un catalizzatore, ma che ha coinvolto anche tanti - donne, studenti, lavoratori, intellettuali, studiosi e uomini e donne di cultura - che di Berlusconi sono stati e forse saranno ancora elettori, o che non l'hanno mai concepita come una discriminante, un elemento «sviante», che rischia di indirizzare il movimento verso falsi obiettivi, predisponendo il terreno a una alternativa a Berlusconi che salvaguarda e perpetua i tratti più significativi e «strutturali» della sua politica. È sbagliato per due motivi: il primo è che siamo entrati in un'epoca di grandi sconvolgimenti: nessun economista - o quasi - aveva previsto la crisi in corso; e nessuno sa veramente se e come se ne uscirà. Ma nessun politologo aveva previsto l'esplosione di rivolte in Medio Oriente; e nessuno si azzarda a prevedere se e come se ne uscirà, e come ne uscirà l'Italia di Berlusconi. Certo è che un'uscita dalla crisi fondata sul petrolio a basso costo (per continuare a far marciare milioni e milioni di automobili; e tutto il resto) e sul «patto di stabilità» che l'Europa sta mettendo a punto per inchiodare i governi al saccheggio dei redditi e delle condizioni di vita dei lavoratori non ha molte chance di resistere alle turbolenze in corso. Secondo motivo, l'inventario dei danni prodotti da 17 anni di dominio di Berlusconi (al governo come all'opposizione) non è ancora stato fatto; e non potrà essere fatto finché Berlusconi resterà al governo. Ma quando si farà verrà alla luce un mondo di macerie: nell'occupazione, nel tessuto produttivo, nell'ambiente, nella Pubblica amministrazione, nella cultura, nella politica, nello «spirito pubblico».

Nessuno lo sa meglio di chi vorrebbe o potrebbe prenderne il posto. Se Berlusconi continua a governare, non è perché si è comprato venti o trenta deputati come si è comprato ottanta o cento escort per le sue notti brave. È perché nessun «potere forte» ha interesse a metterlo in crisi; altrimenti lo potrebbe fare nel giro di una settimana. E non perché non senta il peso di un governo inconcludente, che però, finché dura, consente a tutti - Confindustria, Fiat, Chiesa, Mafia, Forze Armate, Massoneria, Finmeccanica (l'unica grande industria rimasta in Italia dopo la dissoluzione di Fiat Group: cioè produzione e vendita di armi - di seguire la propria strada. Che (vedi Fiat; vedi Chiesa) non ha comunque mai un respiro strategico. Ma perché, fatto fuori Berlusconi, e azzerato il suo potere affabulatorio - di cui la sua capacità di risorgere dalle proprie ceneri come l'araba fenice, o dalla propria bara come Nosferatu, è una componente essenziale, a cui la cosiddetta sinistra ha dato tutto il contributo che poteva dare - ai nuovi padroni toccherebbe il compito di prendere in carico quel mondo di macerie. E nessuno, per ora, ha trovato il coraggio di farlo.

Dobbiamo prepararci a farlo noi. Non noi «di sinistra» (cosa sarà mai?). Ma noi che vogliamo riappropriarci della nostra dignità. Come? Nessuno lo sa. Ma molti di noi sanno che cosa vorrebbero fare e con chi. Si tratta di ricreare uno, mille spazi pubblici, dove del che fare, senza sentirsi condizionati dall'impotenza dei partiti d'opposizione, si torni a parlare in un libero confronto. Il mondo cambia, e molto in fretta. Se in meglio o in peggio dipende anche da ciascuno di noi.

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