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Che fare? Un punto di partenza: una sinistra senza idee non serve a niente

Aldo Giannuli

Se vogliamo uscire dal disastro in cui siamo, dobbiamo capire cosa c’è che non funziona nel nostro modo di fare politica: dalla scelta dei gruppi dirigenti alla definizione della linea politica, dalle forme di comunicazione a quelle di lotta, dai modelli organizzativi alla cultura politica.

Ed iniziamo proprio dalla questione della cultura politica della sinistra che ormai è il fantasma di sè stessa. Per circa trenta anni la sinistra ha smesso di studiare, pensare, produrre idee: il panorama delle riviste di sinistra è semplicemente desolante, non si ricorda un solo convegno degno di nota da almeno tre decenni, i congressi sono delle fiere della banalità: la nostra capacità progettuale è a zero.

Il Pd è tutto interno alla cultura neo liberista, ormai prende la linea da Boeri che è l’avvocato difensore delle banche e da Giavazzi che ci spiega che “Il liberismo è di sinistra”: Come dire che è più di sinistra Tremonti che, almeno, qualche sparata contro le banche e sulla globalizzazione ogni tanto la fa, anche se si tratta di innocui sfoghi verbali.

Rifondazione si è sclerotizzata nella ripetizione degli slogan di sempre e vive in un tempo immobile. Quando ha tentato un discorso nuovo, tutto quello che ha escogitato è stata la non violenza (e sai che idea!).

I centri sociali sono sostanzialmente chiusi nel paradigma tardo “operaista” di Negri e si auto escludono dal gioco politico per una forma di anti istituzionalismo che si traduce nel fare come se le istituzioni non esistessero.

L’area grilliano-di pietrista, al contrario, è preda di un culto superstizioso della legalità, assunta senz’altro come sinonimo di giustizia. Beninteso: sono un convinto assertore della cultura delle regole e credo che la legalità sia un valore di primaria importanza. Ma la politica viene prima. E, d’altra parte, la rottura della legalità –quando ricorrano particolari circostanze che la giustifichino- è una opzione che non può essere pregiudizialmente esclusa. Occupare una facoltà o fare un blocco stradale per protesta non è cosa che possa essere messa sullo stesso piano del prendere tangenti o trafficare con la mafia. Qualche distinzione non è male farla.

Insomma fra il piatto economicismo del Pd, il ribellismo preter-istituzionale dei centri sociali, il giustizialismo di pietrista ed il moralismo dei pacifisti sembra che si sia persa la nozione stessa di politica, che non può essere ridotta nè ad economia, nè a morale, nè a diritto o a mera protesta sociale, pur partecipando di ciascuna di queste dimensioni.

Questa serie di derive è in parte il prodotto di quel “sonno della ragione” che è iniziato con la fine della stagione dei movimenti (nei primi anni ottanta), in parte di una prassi sempre più orientata alla frammentazione autoreferenziale: le grandi aree della sinistra (Pd, Rifondazione, Centri Sociali, Idv ecc.) sono incomunicabili fra loro. Non esistono occasioni (o sono assolutamente rare) in cui i militanti ed i simpatizzanti di un’area si incontrino e discutano con quelli di un’altra, come se uno stesse su Marte e l’altro su Venere.

Il risultato è che la sinistra esprime una pratica unitaria ridotta a pateracchi elettorali tenuti insieme con lo sputo ed in nome dell’antiberlusconismo. Poi, un secondo dopo le elezioni, si scioglie tutto ed ognuno va per i fatti suoi.

Non solo, ma anche all’interno delle singole aree non esiste praticamente comunicazione interna: il Pd è una confederazione di sultanati elettorali, che si incontrano solo per fare le liste e per insultarsi vicendevolmente in occasione di spartizioni congressuali; Rifondazione è un insieme di quattro o cinque partiti, quante sono le correnti, che si sentono di tanto in tanto negli organismi dirigenti e per il resto si riuniscono ognuno per proprio conto e non esiste più la prassi delle assemblee cittadine o di federazione dei militanti ed iscritti; i sindacati ormai non hanno nessuna prassi unitaria e non esistono più le assemblee sul posto di lavoro; anche fra gli studenti l’assemblea è frequentata solo dai simpatizzanti dell’organizzazione che l’ha indetta.

Quanto ai centri sociali, l’unico modo per metterli a discutere nella stessa stanza è arrestarli e chiuderli in una camera di sicurezza dove, ovviamente, troveranno comunque modo di dividersi in almeno tre gruppetti.

Questa “normalità” è semplicemente demenziale e non fa altro che accentuare la delega ai “dirigenti”: cartelli elettorali, cortei, manifestazioni, campagne referendarie ecc. si fanno solo attraverso riunioni fra gruppi dirigenti; le correnti di partito dialogano fra loro solo negli organismi dirigenti dello stesso partito; i sindacati decidono gli scioperi con incontri fra le segreterie ecc.

In parte tutto questo è inevitabile, ma possibile che non ci siano mai occasioni in cui un semplice militante possa parlare a gente di altro partito o corrente senza passare attraverso il filtro dei suoi “rappresentanti”? Se vogliamo tornare a produrre idee è necessario che torniamo a confrontare fra loro tutte le correnti politiche, culturali, sindacali ecc. presenti nella sinistra, creando “luoghi di contaminazione”. D’altra parte, come si sa, i figli di affini nascono male: è solo incrociando patrimoni genetici diversi che si irrobustisce la specie. Vale anche per le idee politiche.

In secondo luogo, se vogliamo rimettere mano ad una progettualità di sinistra occorre ripartire dall’analisi dei processi sociali e politici in atto e questo significa prima di tutto discutere su dati concreti: poesie, slogan, astrazioni teoriche, mozioni degli affetti e prediche edificanti sono delle belle cose, però in politica servono a poco, meglio il nudo linguaggio delle cifre e dei fatti.

E questo si connette ad un’altro aspetto: trenta e passa anni di silenzio della cultura di sinistra hanno prodotto vittime di due sindromi opposte e speculari: i cultori dell’esistente e gli onirici.

I primi sono quelli che si arrendono alla dittatura dell’esistente e pensano che la politica al massimo debba accontentarsi di una modesta dimensione amministrativa, rinunciando a mettere in discussione gli assetti sociali dati. Sono gli “antiprogettuali” per definizione: si muovono nell’unico mondo che riescono a  concepire che è quello che vedono; non hanno memoria storica e non hanno prospezione futura. Conoscono un solo tempo verbale: il presente ed hanno un pensiero cortissimo.

All’opposto ci sono quelli convinti che il mondo si possa cambiare senza prendere il potere, che armati di sogni si è invincibili e che la storia sia il concorso per l’idea più figa. Per loro esiste solo la dimensione morale e sono convinti che basti indignarsi perchè tutto cambi. Anche loro ignorano la storia ma più che al presente, pensano al futuro. Un futuro che sta solo nella loro testa e che non è preparato da nessun processo reale del presente. Hanno un pensiero lunghissimo, ma non vedono  il lampione che gli sta davanti.

Ai primi va ricordato che la storia è un processo mai fermo che scavalca  e travolge rapidamente chi si attardi troppo nel suo presente: il loro “presentismo” è un atteggiamento assolutamente irrealistico, perchè quello che è vero oggi fa presto a tramontare. Peraltro nessun movimento politico ha vita lunga se non aspira a cambiare il mondo avvicinandolo alla propria utopia che non è una inutile esercitazione letteraria, ma l’unico modo realistico per misurarsi con i mutamenti in atto. Ma, va detto ai secondi, che l’utopia ha un valore solo se diventa progetto e si misura con i concreti processi reali, traendo da essi la forza per il cambiamento.

Qualcuno disse che una rivoluzione è una idea che ha trovato delle baionette. Magari speriamo di non avere ancora bisogno di usare le baionette, ma le idee non cambiano nulla se non trovano mezzi per essere realizzate.

Dunque potremmo ripartire da tre idee: contaminazione, prevalenza dell’analisi scientifica e realismo politico.

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