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Il cratere della politica                                

di Carlo Donolo

1. Per analogia e in continuità con l'analisi precedente (cfr. "Lo straniero" n. 108) esaminiamo la costruzione politica del post-terremoto, intendendo con ciò i comportamenti politici e istituzionali successivi a emergenze di varia natura, che numerose ci hanno accompagnato in questi mesi. Emergenze - cioè situazioni nelle quali sono richiesti interventi veloci ed efficaci - e catastrofi (naturali, ma abbiamo visto quanto vi pesino interessi più che umani) sono temi per politiche di un tipo particolare. Esse richiedono la mobilitazione immediata di risorse e una finalizzazione efficiente, per ottenere la riduzione del danno maggiore possibile, compresa la riduzione delle sofferenze umane, e per predisporre al meglio la fase ricostruttiva post-evento. In questi interventi appare naturale non guardare troppo per il sottile, ma andare diritti allo scopo. Quel che conta è il risultato atteso e promesso.

Poiché l'amministrazione corrente degli affari pubblici è afflitta da un eccesso di regole e procedure, da conflitti di competenza, da risorse non immediatamente mobilitabili, da mancanza d'esperienza nel trattare questioni urgenti e non procrastinabili, sembra opportuno provvedere con strutture d'agenzia dedicate, specializzate appunto nella velocizzazione, nella tempestività, nel coordinamento gerarchico, fuori da logiche di governance. Queste, infatti, in genere richiedono tempo, negoziazioni, accordi, consenso, e tutto ciò qui non serve o non è praticabile. La lista delle emergenze e catastrofi prevedibili e anche programmate si estende sempre più, quanto più progetti complessi e velocizzati urtano contro la routine amministrativa e l'ignavia politica. Così la Protezione civile, che ha avuto una lunga e problematica genesi, ma che ormai si è consolidata virtuosamente attraverso molteplici catastrofi, diventa un'agenzia dittatoriale pro tempore. L'autoinganno prospettico di chi la dirige è ben comprensibile. Pensa di fare il bene, sia pure sospendendo le garanzie dello stato di diritto e sostituendo l'eccezione alla regola. Una deriva autoritaria e tecnocratica è insita in questa modalità operativa, anche a prescindere dalle porte socchiuse al malgoverno del denaro pubblico che essa implica come rischio insito. Malgrado le intenzioni virtuose, che qui diamo per buone, è evidente che se le eccezioni si moltiplicano e se questo modello si replica in casi diversi (grandi eventi gestiti come catastrofi e viceversa) e se la lista di casi che richiedono questo tipo di intervento si allunga troppo, si finisce per scassare l'ordinamento, per sostituire decisionismi alle politiche strutturali, improvvisazione per quanto intelligente a interventi di sistema.

2. L'idea che la vita sociale e pubblica sia costellata di emergenze ha una lunga storia in Italia. L'emergenza è l'occasione, il Kairós, per scegliere finalmente una qualche soluzione. Senza emergenza si resta a lungo nello stallo. Fenomeno certo da Prima Repubblica, ma sempre caratterizzante la nostra cosa pubblica. Insomma la politica vive di pretesti e dove manchino catastrofi vere si potrebbe sempre inventarne qualcuna, agendo su paure, risentimenti, illusioni e ignoranze. La sicurezza urbana e l'immigrazione, il malgoverno del territorio e dell'ambiente offrono esempi illuminanti. Il ricorso alla politica dell'emergenza mette in risalto un lato sempre più vistoso delle democrazie contemporanee, e addirittura topico in Italia. La politica-spettacolo si inscena meglio su rovine fumanti e montagne di spazzatura, tra frane, lacrime e sangue. In questi set si esalta la virtù salvifica del governante che incoraggia, protegge, tranquillizza e lenisce perfino il dolore. Chi governa diventa lo zio buono che ti dà una mano. Così nell'emergenza viene incrociato il paternalismo di tendenza populista e il potere tecnocratico, il carisma massmediatico con il decisionismo. Garanzie, tutele, controlli, valutazioni, si vedrà poi, non sono così importanti, anche i soldi per l'emergenza si trovano sempre, sottraendoli alle funzioni ordinarie. Moltiplicazione dei pani e dei pesci o gioco delle tre carte? Inoltre la democrazia dimidiata di cui godiamo i vantaggi aporetici (ti lascia in pace nel tuo infimo privato) sostituisce sempre più ai poteri rappresentativi - con il declino del parlamento e dei partiti di massa - non solo il carisma individuale del capo, in una società mediatizzata necessariamente fittizio, fasullo e posticcio. Ma anche la crescita dei poteri di fatto, a cominciare da quelli che sono legati a interessi forti, e inoltre anche - ma in Italia questo è comunque ancora un fatto marginale - poteri tecnocratici in senso stretto. Indubbiamente nel trattamento delle catastrofi vi sono technicalities che la Protezione civile (per parlare di essa, ma il discorso è più generale) ha progressivamente acquisito. Ma il vero potere non è quello dei tecnici, ma quello dei protagonisti che appaiono più come salvatori che come professionisti. Al salvatore si concedono attenuanti, e non conviene separare troppo il grano e il loglio nel suo sacco. Il governo tramite emergenze, e quindi il governo di emergenze che non mancano mai, diventa la supplenza decisiva per imporre scelte non mediate dalla rappresentanza, per scavalcare anche i poteri locali: povero federalismo, povera, misera sussidiarietà. Si agisce in prima persona come detentori di poteri a carattere personale. Non si tratta del carisma istituzionalizzato dei Vigili del fuoco, cari a tutti noi, ma dell'aureola del salvatore in elicottero. Si noti, perché i fatti sociali non sono mai univoci, che tutto viene fatto inizialmente in buona fede, cioè con recta intentione allo scopo di ridurre il danno e la sofferenza. Ma il metodo alla fine impone i suoi costi: in termini di legalità, democraticità, e anche di pertinenza delle soluzioni. Questo è il caso eclatante della "ricostruzione" in Abruzzo, ma probabilmente vale anche per i rifiuti in Campania.

3. E siamo al post-catastrofe. Che fare, come procedere? Non c'è tempo per discutere, si decide. Schmitt cala in Abruzzo, davvero "oltre la soglia". Ma lui pensava alla grande politica, qui invece siamo già agli affari. Ecco appunto che misteriosamente la gestione "dittatoriale" (alla romana a.C.) delle emergenze genera un contesto favorevole agli affari. Come si legano le due cose apparentemente così distanti? Non lo so, e gli interessati non si spiegano bene se non quando ricorrono al cellulare al loro linguaggio triviale. Ma possiamo fare qualche passo indietro, allontanandoci dal "cratere" delle emergenze e vedere se quei comportamenti politico-istituzionali in realtà non siano connessi a una più vasta ragnatela che avvolge la politica italiana. Si è parlato di gelatina. Ma tale sostanza chimicamente complessa, è socialmente banale, e non solo riguarda il mondo degli affari intorno al cratere. Riguarda invece il cratere della politica stessa. Come si è trasformata nelle sue impotenze e dipendenze, e come ha cercato con il governo delle emergenze nuovi spazi per esistere e trionfare sulla banalità democratica. Trasformando la politica stessa in un businnes.
La corruzione in relazione al malgoverno del denaro pubblico (e a connesse violazioni di norme ambientali, urbanistiche, e naturalmente fiscali) non è legata direttamente al governo delle emergenze, ma esso ne ha fatto emergere con forza un tipo puro, e tutt'altro che isolato. Se si estende l'ambito delle politiche emergenziali si amplia anche, si dovrebbe sospettare, l'ambito del malgoverno e della corruttibilità. Aumentano le occasioni, le finestre di opportunità, la quantità di denaro disponibile e spesso facile. Quindi se la politica emergenziale fornisce il modello della politica tout court vediamo che l'elemento corrosivo diventa pervasivo e certo non isolato o marginale. Intorno al denaro pubblico è sempre stato così, ma solo la democrazia e lo stato di diritto conservano alcune possibilità di controllo per evitare il peggio. Se queste si indeboliscono per intrinseca plebeizzazione istituzionale, come ora sta emergendo, allora il campo del corruttibile si estende a dismisura, diventa la sua propria regola. Ma appunto le emergenze sono solo il campo in cui si esercita un modo d'essere prototipico del politico contemporaneo, e perciò è errato legare la corruzione e lo spreco del denaro pubblico solo a questi ambiti.

4. Vorrei argomentare quasi in modo cancrizzante, cioè andando a ritroso: l'emergenza ci mostra un volto inquietante della politica e anche dell'amministrazione; tale volto ci fa riflettere sul grado di generalità di certi comportamenti "scorretti". Infine ci induce a riflettere se per caso la corruzione non stia alla radice stessa dell'attività politica, quando questa indebolisca i contro-poteri, i controlli, le verifiche informate, e anche la possibile repressione. Il fatto in sé è elementare, e neppure nuovo: la politica dipende dal denaro. Possiamo precisare: dipende sempre più da denaro pubblico e dagli affari che con tale denaro essa riesce a fare con interessi privati. Se uno legge la storia del regime parlamentare nella Francia o nella Germania dell'Ottocento non si scopre che l'acqua calda. Più o meno, questa è l'unica differenza, sebbene di grandissimo peso sia la proporzione, come in generale nel diritto: se la maggioranza segue le regole, non è catastrofico se una minoranza non le segue, ma non vale il contrario. Questo però potrebbe essere il caso nostro. Oggi la politica è un'attività professionale che richiede molto denaro. Tale denaro non può più essere fornito direttamente dal partito come organizzazione d'iscritti o da altre fonti illecite, ma per così dire generalizzate e tacitamente condivise. Ora il denaro deve essere procurato direttamente dall'attività professionale di intermediazione del politico di professione. Oggi si sente dire: ma quelli rubavano per il partito, questi rubano per sé. È una menzogna ipocrita: è noto che c'era anche allora arricchimento privato e che il finanziamento del partito forniva l'alibi; oggi è cambiata la prospettiva: senza partito il singolo politico guadagna per sé come individuo e come microorganizzazione politica che deve affrontare campagne elettorali, finanziarie un seguito di satelliti, tacitare, far parlare di sé, "comparire". Quindi si ruba per fare politica. A livello più organizzato si fanno transazioni con interessi forti, che possono essere in sostanza o finanziari o immobiliari. In generale la politica si mette nelle mani dei rentiers. Il politico stesso aspira a diventarne uno. Anche da piccolo apprende l'arte del darsi delle arie, la supponenza, il distacco dal popolo, l'auto blu, i piccoli privilegi che lo distinguono. La massa di questi inetti e corruttori copre con le sue magagne la minoranza virtuosa del ceto politico, forse oggi sparuta, ma comunque ancora esistente e vitale (quando riesce ad amministrare bene qualcosa). Questa si vergogna della categoria di appartenenza, così come me che faccio il professore universitario e mi vergogno per tutto il familismo, clientelismo e lassismo dell'istituzione. Ma a che serve? È solo un sentimento privato. Nel politico buono tale sentimento può servire a mantenere le distinzioni, a perseverare nel fare bene, a dirsi ripetutamente "almeno ci ho provato!" in stile weberiano (alla fine della Politica come professione).

5. Di veramente nuovo in queste cose che sembrano ricorrenti c'è poco. Forse il dato di contesto: che mentre ai tempi di Giolitti o anche di Fanfani o anche di Craxi la nostra democrazia era gracile ma stava ancora e a più riprese costruendosi, oggi il governo di una società complessa inserita nel globale non può più tollerare una così vasta assenza di etica della responsabilità. E infatti la paghiamo non solo con lo spreco di denaro pubblico, con la totale inaffidabilità delle istituzioni, la gracilità delle politiche pubbliche (si pensi all'ambiente, al territorio, all'immigrazione, alle politiche del lavoro che gridano vendetta), la sfiducia diffusa dei cittadini tra loro e verso le istituzioni, il contesto di degrado rissoso e pressappochista di gran parte dello spazio pubblico. Diventa difficile restare in Europa, non a caso all'estero sogghignano su di noi, diventa difficilissimo pensare a progetti per uscire dall'entropia socioistituzionale che la politica dipendente dal denaro è costretta a generare sempre di più. Sebbene ci siano palesi differenze nel grado e nel modo di coinvolgimento della politica nell'economia delle rendite, è evidente che il discorso riguarda e tocca in modo sensibilissimo anche le forze progressiste (di sinistra non è più il caso di parlare). Neppure esse sono munite di adeguati anticorpi e il ceto politico è omogeneizzato in modo iperbolico. Inoltre non ha sviluppato nessuna cultura critica circa questo rapporto tra politica e affari, sia a livello di sistema sia a livello di comportamenti individuali. Da rimpiangere i paglietta meridionali! La democrazia inclina alla plutocrazia. Va sottolineato che il singolo politico è in un sistema che lo spinge a queste intermediazioni se vuole sopravvivere nella competizione. La moralità individuale è un debole baluardo di fronte alla necessità. La necessità poi rende facile quello che all'inizio sembrava diffìcile, ma in nessun caso è possibile ridurre la questione a corruzione individuale (individuali possono essere solo le responsabilità penali). La questione è di sistema, come si usa dire quando la faccenda diventa troppo complicata.
Ma la cosa non finisce qui: non si tratta solo di denaro pubblico, di corruzione o di violazione di leggi sul finanziamento dei partiti. La questione, in prospettiva la più grave, è che la politica - seguendo le sue dipendenze - incontra fatalmente la zona grigia dell'economia criminale e del denaro sporco. Vi è una grande massa di denaro alla ricerca di "collocazione". Lo scudo fiscale ne ha fatto emergere una parte. Tale tipo di denaro si presta bene a operazioni immobiliari in grande stile o a speculazioni finanziarie, a progetti in cui far cascare qualche autorità pubblica. Il politico di professione inciampa subito in due contesti rilevanti che richiedono il suo intervento: il progetto pubblico che deve assorbire tale denaro, e la massa dei mediatori professionali (in pratica esponenti di tutte le possibili professioni) che sono necessari nell'operazione. Si tratta di un ceto potente e molto affine a quello politico per stile di vita, "cultura", e spiriti animali. E mancanza di scrupoli. La politica così mette i piedi nella zona grigia e vi affonda sempre più, quanto più poteri e denari criminali si diffondono nel corpo sociale. Ma su ciò Saviano ci ha già edotto. In questa prospettiva però il malgoverno del denaro pubblico, reso possibile dalla politica emergenziale (compresi i grandi eventi come emergenze), si intreccia in modo imperscrutabile con le logiche della zona grigia. A questo punto sì che conviene preoccuparsi, soprattutto per le deboli resistenze e difese oggi disponibili di fronte a tale deriva. Altro che corruzione individuale, si tratta della logica perversa (dal punto di vista della Costituzione democratica) di un sistema politico allo sbando. E che per continuare la sua corsa all'inferno ha bisogno indubbiamente di erodere tutti i contropoteri, i controlli, i freni e i contrappesi possibili: dalla pubblica opinione manipolata mediaticamente agli organi di garanzia. Questo è il paesaggio devastato che abbiamo di fronte: questa l'emergenza. Si noti ancora una volta il predominio dell'economia delle rendite su ogni forma di capitalismo del profitto guadagnato su mercati competitivi. Perciò c'è da chiedersi se anche per Confindustria non sia venuto il momento di parlare più chiaramente ai propri associati; la deriva infatti corrode anche la parte vitale della nostra economia, mettendola nell'angolo (modello Parmalat).

6. E allora viva la Protezione civile da stato di eccezione. Essa è diventata parte dell'intreccio perverso di democrazia disossata, amministrazione incapace, emergenza surrettizia, fantasmagoria spettacolare, autoinganno permanente in cui siamo tutti immersi. Ciò ci rende non solo impotenti, ma anche incapaci di riflettere fino in fondo alle premesse e alle implicazioni di ciò che avviene. È appunto la crisi cognitiva - che colpisce anche chi cerca di riflettere, perché non sta collocato fuori in un punto archimedico neutro. Ciò spiega molto del senso di passività, di disorientamento e di scetticismo su un possibile mutamento. Quei nessi tragici tra denaro, politica, moralità pubblica e privata, poteri dittatoriali e indebolimento degli anticorpi, sono la matassa che crea allucinazioni e disperazioni, sconforto e magari anche ricerca di qualche consolazione: la casa in campagna, il viaggio all'estero, l'Erasmus per i figli, l'auto ecologica dopo il Suv, un perbenismo di superficie e così via. È la società diventata debole, erosa dai fiumi carsici di una politicità diventata impresa privata. Cosa ci insegna il post-terremoto? Che le emergenze servono a costruire poteri, a destrutturare contropoteri, a togliere voce, a incentivare l'apatia, ad aspettarsi miracoli dal cielo o meglio via etere. Servono al di là di ogni pia intenzione a creare contesti favorevoli all'alleanza tra affari e politica. Avrei preferito non aver mai dovuto scrivere quanto ho scritto sopra. Ma l'alleanza tra denaro sporco, denaro pubblico, affari facili, sregolazioni, favori e prebende, piccola corruzione morale del singolo che si crede superiore (magari anche solo in faccende di sesso), è qui tra noi, potente come non mai. Mentre scrivo già si annuncia un nuovo "scandalo". Ma a che pro, ormai lo recepiamo come fatto quotidiano. Manca l'effetto sorpresa, siamo mitridatizzati e pronti al peggio: questa è l'emergenza in cui viviamo. Proprio la gravità della situazione in cui siano scivolati richiede un'accurata valutazione delle forze e dei soggetti in grado di rovesciare la tendenza. Ma questo è un discorso per un'altra volta e un altro articolo.

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