Print Friendly, PDF & Email

Il diritto di avere diritti

Carlo Formenti, Stefano Rodotà


Per una replica da Rodotà

Carlo Formenti

Bellissimo il titolo – Il diritto di avere diritti (Laterza, 2012, 433 pp., € 20,00) – del saggio di Stefano Rodotà perché sintetizza perfettamente il nodo centrale attorno acui ruotano i molti temi di un lavoro stimolante e complesso. L’obiettivo di questo articolo, tuttavia, non è recensire il libro, né ricostruirne nel dettaglio i percorsi argomentativi, bensì evidenziarne quelle che mi paiono le tesi più interessanti e, al tempo stesso, metterne in luce alcune aporie per sollecitare repliche e approfondimenti da parte dell’autore. In particolare intendo concentrarmi su quattro punti: 1) Chi è il titolare del «diritto di avere diritti» evocato nel titolo e in che modo può essere fatto valere questo «meta-diritto»? 2) Quanto e come questo concetto può contribuire a tutelare quei diritti sociali che rischiano di essere spazzati via dallo strapotere del mercato? 3) Come si inquadra il tema dei beni comuni nello scenario descritto dal saggio? 4) Come si definiscono i «nuovi diritti» associati all’avvento della rete e quali ostacoli si frappongono alla loro realizzazione? Partiamo dal primo punto, che a mio avviso è quello che solleva più problemi. Per Rodotà il titolare del diritto di avere diritti è la persona. Attenzione però: per capire il senso che l’autore attribuisce a tale termine occorre andare oltre i confini classici in cui lo rinchiudono le tradizioni del pensiero giuridico, filosofico, sociologico e psicologico.L’idea di persona che ci propone Rodotà è un’«immagine» che deve essere costruita ex novo, allo scopo di fronteggiare la crisi di civiltà associata al collasso della sovranità nazionale, cioè di quello che, almeno finora, è stato il «contenitore» per eccellenza tanto dei diritti quanto dei soggetti (i cittadini degli Stati-nazione) che ne erano titolari.

La persona, nell’era globale, si presenta, secondo Rodotà, come una sorta di «luogo» sovranazionale, come il nuovo centro di imputazione di quei diritti fondamentali che rischiano di evaporare assieme ai confini. Detto altrimenti: la persona è la figura sotto la quale si raccolgono tutte quelle singolarità che chiedono di essere riconosciute e rispettate a prescindere da ogni appartenenza geografica, etnica, religiosa, linguistica, ideologica ecc. A prima vista suona astratto, senonché Rodotà tenta di ancorare l’astrazione della persona e dei suoi diritti alla concretezza dei bisogni e dei desideri di coloro che la «incarnano»; in altre parole, il «nuovo costituzionalismo» è ritagliato sulle rivendicazioni di una molteplicità di soggetti concreti (donne, minori, migranti, comunità indigene, minoranze religiose, sessuali e quant’altro) che pretendono riconoscimento formale alle proprie esigenze materiali e spirituali di dignità, uguaglianza, libertà, giustizia, cittadinanza, solidarietà (l’elenco è tratto dalla Carta europea dei diritti, che Rodotà cita a più riprese); e che, in qualche modo, almeno sul piano di principio, lo ottengono. Ma è appunto qui che iniziano i problemi, dal momento che, come lo stesso Rodotà riconosce, proclamare un diritto non equivale ad assicurarne il rispetto: «chi» è, dunque, il soggetto deputato a farli rispettare? La risposta è che occorrono istituzioni che svolgano questa funzione. Tuttavia, come è noto, mentre esistono istituzioni in grado di proclamare quei diritti (vedasi la già citata Carta dei diritti europei e, prima ancora, la Dichiarazione dei diritti universali da parte dell’Assemblea generale del’Onu, che risale al 1948), non esistono – o, se esistono, hanno competenze limitate e controverse, come la Corte internazionale di giustizia – istituzioni in grado di renderli effettivi. Non è quindi risolto il problema cruciale di ciò che gli americani chiamano enforcement, termine pregnante che ben fa comprendere come nessun diritto possa essere considerato effettivo se non in presenza di una «forza» in grado di imporne il rispetto. Né basta che esista la forza, visto che quest’ultima, per essere conforme ai principi e allo spirito del «nuovo costituzionalismo» di cui parla Rodotà, dovrebbe essere riconosciuta come legittima. Nel caso delle «guerre umanitarie» che si sono moltiplicate negli ultimi decenni, per esempio, sono state questa o quella grande potenza (o il loro concerto) che si sono arrogate, senza esserne legittimate, il ruolo di imporre il rispetto dei diritti umani, un ruolo «sporcato» dall’ambigua compresenza di interessi di potere.

Quindi il vero interrogativo è il seguente: come far progredire il diritto di avere diritti in assenza di gambe politiche su cui farlo camminare? Rodotà risponde, semplificando un po’ la sua tesi, che, in assenza di un potere politico sovranazionale democratico e legittimo, solo il diritto, o meglio i giudici che lo amministrano, sia che operino nel contesto dei singoli ordinamenti nazionali, sia che operino in nome di istituzioni sovranazionali, possono far valere il diritto di avere diritti, evitando al tempo stesso che l’enforcement si riduca all’esercizio della legge del più forte. Ecco perché – aggiunge Rodotà – non dobbiamo prestare orecchio a chi denuncia l’«invadenza» del diritto ai danni della politica, ma, al contrario, prendere atto che oggi la buona politica si configura sempre più come politica dei diritti, soprattutto «dopo il tramonto dei grandi soggetti storici». Ma è proprio quest’ultima annotazione a segnare il punto di massima distanza di chi scrive nei confronti delle tesi del libro, come cercherò di spiegare entrando nel merito del secondo punto, relativo alla difesa dei diritti sociali.

Trattando il tema dei diritti sociali Rodotà avanza quella che considero la tesi più forte del suo lavoro: i diritti che si unificano attorno alla persona sono indivisibili, nel senso che non è possibile riconoscere i diritti civili o politici senza riconoscere anche i diritti sociali. Si tratta di un argomento potente, che si contrappone frontalmente alle pretese dell’ideologia liberal-liberista, la quale viceversa sostiene che l’esercizio dei diritti sociali deve essere subordinato alla disponibilità di sufficienti risorse economiche. Un esempio clamoroso di questo tentativo di espungere i diritti sociali dal novero dei diritti fondamentali è la costituzionalizzazione del fiscal compact: elevare il pareggio di bilancio a principio costituzionale significa rendere incostituzionale il welfare; o almeno degradarlo a gentile elargizione – condizionata da vincoli di compatibilità economica – del capitale nei confronti del lavoro. In questo modo il diritto del lavoratore alla tutela contro licenziamenti ingiustificati, a condizioni di lavoro sane, sicure e dignitose, alla protezione sociale in caso di disoccupazione, viene sacrificato sull’altare di quella sorta di nuovo «diritto naturale» che stanno diventando le «leggi» del mercato. Si tenta di neutralizzare – accusa Rodotà – il senso stesso di quell’articolo 41 della nostra Costituzione che nega all’iniziativa privata la possibilità di operare in contrasto con l’utilità sociale e/o di danneggiare la sicurezza, la libertà e la dignità umane.

Si capisce dunque perché il riferimento ai diritti fondamentali sia divenuto sempre più importante: si tratta di usare il diritto come barriera contro il dilagare di poteri non democratici, di fare appello a quella che sembrerebbe divenuta l’unica democrazia possibile nel tempo della globalizzazione. Ma è proprio qui che si evidenzia il «buco» teorico segnalato poco sopra: se davvero fossimo in presenza del tramonto dei grandi soggetti storici, non sussisterebbe alcuna speranza di contrastare la «legge naturale del mercato». Personalmente sono invece convinto che il fatto che siano tramontate le forze politiche e le narrazioni che ne incarnavano gli interessi e i bisogni, non significa che siano tramontati anche i soggetti in questione, ma solo che questi devono ricostituire la propria capacità di organizzazione e resistenza, di enforcement, in un senso che va al di là del significato giuridico del termine. E meno male, perché la persona è figura troppo esile e frammentaria per sostenere il peso dell’impresa: il diritto di avere diritti esige di trovare corpi ben più robusti in cui incarnarsi.

Cercherò infine di discutere congiuntamente alcuni temi relativi ai punti tre e quattro – beni comuni e nuovi diritti associati alla rete – in quanto si tratta di argomenti che si illuminano a vicenda. L’attuale dibattito sui beni comuni è sempre più caratterizzato dalla polemica nei confronti del tradizionale schema oppositivo proprietà pubblica/proprietà privata, in quanto incapace di cogliere la complessità dei nuovi conflitti sociali che si riferiscono a risorse che appartengono a tutti e a nessuno, o, se si preferisce, a cui tutti possono accedere mentre nessuno può vantare su di esse diritti esclusivi. Si tratta di un dibattito che ha assunto toni particolarmente accesi in relazione alla conoscenza come bene comune, e alla rete come canale di accesso universale a tale bene comune. Il quadro culturale del conflitto è apparentemente chiaro: a destra, i nemici della conoscenza come bene comune, le industrie culturali che tentano di trasformare una risorsa di per sé illimitata, «non rivale», in risorsa scarsa, imprigionandola nella gabbia della proprietà intellettuale; a sinistra, i paladini della libertà di accesso e condivisione, considerata come il presupposto di una «nuova economia» emancipata dalle pastoie tanto della proprietà privata quanto di quella pubblica.

Ma le analisi di Rodotà sono preziose per cogliere l’ambiguità e la confusione ideologica che si annidano nel campo della sinistra. «La luce dei beni comuni – leggiamo per esempio in un passo del libro – rischia di abbagliare, lasciando intendere che quasi ci si può disinteressare di proprietà pubblica e proprietà privata»; ed è proprio questa luce abbagliante che avvolge – e confonde – da un lato certi discorsi post-operaisti sull’autonoma capacità di cooperazione produttiva e sociale delle comunità dei lavoratori della conoscenza, dall’altro lato le tesi anarco-capitaliste di autori come Yochai Benkler e Lawrence Lessig i quali invitano governi e imprese della vecchia economia a cedere il passo alla governance dal basso gestita dal concerto dei nuovi stakeholder, dall’ultimo dei freelance ai giganti della web economy, come Google. Purtroppo – ricorda giustamente Rodotà – gli stakeholder non stanno sullo stesso piano: Google rappresenta oggi una mostruosa concentrazione di potere finanziario, politico e culturale (i suoi algoritmi cancellano i confini tra processi umani e artificiali, espropriando i primi delle capacità decisionali che vengono delegate ai secondi). Ci sono dunque ottime ragioni per sospettare dell’impegno che questo colosso profonde per garantire il «libero accesso» alla conoscenza. La proprietà privata non è «superata», né sta sparendo: si trasfigura, assumendo forme nuove e insidiose, fino a camuffarsi da bene comune. Quindi è forse il caso di ripensare anche il senso politico del pubblico, prima di decretarne la morte.


La grande trasformazione costituzionale

Stefano Rodotà

Il punto chiave dell’argomentazione rigorosa di Carlo Formenti a me pare che sia espresso da una frase assai eloquente: «La persona è figura troppo esile e frammentaria per sostenere il peso dell’impresa: il diritto di avere diritti esige di trovare corpi ben più robusti in cui incarnarsi». Potrei replicare ricordando che, in più di una pagina, mi pongo proprio questa domanda, interrogandomi, ad esempio, su forza e portata del principio di dignità. Ma questo non basta. Formenti, in realtà, solleva giustamente la questione della politica e, con essa, segnala il rischio di una pretesa autofondazione dei diritti. Il mio è certo un tentativo estremo, quello di dilatare la dimensione dei diritti proprio in un tempo che conosce ripetuti tentativi di cancellarla. Un tentativo, tuttavia, che si muove sul filo della storia, della realtà dei conflitti, delle dinamiche profonde che mutano la società. Lo guida la consapevolezza che «il codice di questa impresa ha un nome, e si chiama politica», e che «i diritti diventano deboli perché la politica li abbandona». Autocitazioni, queste, che tuttavia non possono chiudere la questione. L’abbandono dei diritti da parte della politica, infatti, può essere esso stesso una strategia politica, più precisamente l’effetto di un realismo politico che ne certifichi la vanità o, ancor più radicalmente, veda nel riferimento ai diritti addirittura un mezzo per infiacchire la lotta politica attraverso l’ingannevole e del tutto formale riconoscimento di diritti. Ma le politiche dei diritti non sono mai state tributarie del realismo – quello della politica dura e pura o quello che segnala che i diritti «costano», sì che devono essere comunque ridotti alla misura del possibile. Le vere, grandi politiche dei diritti si sono affrancate da entrambe queste pretese riduzionistiche, hanno disegnato un’idea di società, hanno posto le basi per una redistribuzione dei poteri. L’aver scritto che «gli uomini nascono e rimangono liberi ed eguali nei diritti», o che «tutti gli uomini sono per natura egualmente liberi e indipendenti», sono formule che non possono essere destituite di senso rilevando il permanere di diseguaglianze e oppressioni. Al contrario. Proprio perché da qualche parte quelle parole sono scritte, è possibile affermare l’illegittimità dei comportamenti che le contraddicono, qualificarli come violazioni dei diritti e poter agire per rimuoverli. A suo modo, questo libro vuole testimoniare i guasti che si determinano quando politica e diritti si separano.

Ma chi può condurre efficacemente questa lotta? La storia dei diritti e della loro affermazione è stata associata all’esistenza di soggetti, appunto storici, che ne hanno consentito l’affermazione. Nella modernità le stagioni dei diritti hanno visto all’opera non un’astratta «ragione occidentale», ma la borghesia e la classe operaia, le cui stimmate sono visibilissime nei documenti costituzionali che hanno prodotto. «La propriété étant un droit inviolable et sacré…» è scritto nell’articolo finale della Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino. «La proprietà obbliga» ci dice invece l’articolo 153 della Costituzione di Weimar. A chi possiamo risalire oggi leggendo la Costituzione italiana o la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea? Quale significato assumono i diritti nelle «società di minoranze», in un «mondo senza centro», nel tempo della proclamata fine delle ideologie e delle grandi narrazioni?

Qui è il dato nuovo, che non può essere affrontato con le categorie del passato. Per molte, e fintroppo note ragioni, il nostro ben può essere considerato non tanto un tempo di transizione, quanto piuttosto un’epoca nella quale è così forte la pressione del futuro che al diritto non può più guardarsi solo come alla nottola che scende alla sera. Se si deve dire che bisogna anche narrare i diritti al futuro, la ricognizione delle forze che possono sostenere questa impresa diventa sempre più difficile.

Ma alcuni fatti sono davanti a noi. Li conosciamo. La globalizzazione che cancella confini e sfida le logiche della sovranità. Il mercato che, divenuto legge «naturale», annichilisce diritto e diritti. La politica che, spossessata dei suoi territori e delle sue categorie abituali, si fa flebile.

Di fronte a tutto questo non si può reagire con la nostalgia o il disincanto, o inventando moltitudini che dovrebbero caricarsi anche il gravoso fardello dei diritti. È alle politiche e ai soggetti (tutto al plurale) che bisogna rivolgere lo sguardo. Parlare di diritti non è un rifugiarsi in sfere anguste, più private che pubbliche, meno che mai abbandonarsi a forme più o meno consapevoli di immanentismo, e negare la necessità di avere istituzioni. È fare i conti con una realtà complessa, difficile, spiazzante.

Ho scritto, con deliberata enfasi, che siamo di fronte a una planetaria, continua dichiarazione di diritti, non riconducibile ad alcuna esperienza del passato. Ho concluso che, in questo modo, si lavora intorno a una Costituzione «infinita». Che cosa ho inteso dire? Stiamo davvero vivendo una «grande trasformazione», di cui dobbiamo avere la pazienza e l’umiltà di cogliere i segni. Il riferimento ai diritti consente di cercare elementi unificanti per dinamiche che, altrimenti, apparirebbero irrimediabilmente lontane e frammentate.

Se dieci anni di lotte operaie in Cina sono stati descritti appunto come un tempo che nella rivendicazione e nel (pur modesto) riconoscimento di diritti ha l’elemento che le identifica; se il vento dei beni comuni percorre il mondo e lascia la sua impronta nei luoghi e nelle situazioni più diverse; se la questione dei generi travolge assetti millenari; se scienza e tecnologia unificano intorno a loro il mondo e sfidano la stessa idea dell’umano: allora dovrebbe essere evidente che categorie fondative della politica e del diritto sono radicalmente messe in discussione, senza tuttavia che si venga catapultati in una terra di nessuno, senza bussola e senza istituzioni.

In questa prospettiva il riferimento alla persona ha un duplice significato. Segnala l’esistenza di una vera questione antropologica, che categorie ricevute della politica e del diritto non sono neppure in grado di descrivere. Ristabilisce il raccordo tra vita e diritto, che l’invenzione moderna del soggetto astratto aveva certamente liberato dalla soggezione alla logica del ceto e dello status, con un esito che rimane irrinunciabile, ma che nel trascorrere del tempo era divenuta pure un ostacolo alla possibilità di leggere la realtà concreta nella dimensione del diritto.

Può, da solo, quel riferimento reggere il peso della storia? Certamente no. Permette, però, di costruire una narrazione che revoca in dubbio proprio l’obbligo dell’unicità del pensiero, con un esito che non è soltanto teorico, ma dà vita a una provvista di strumenti «politici» che possono rendere possibili azioni individuali e collettive. Insisto sul riferimento alla politica perché persiste un atteggiamento che destituisce il riferimento ai diritti proprio di un’intima sua dimensione costitutiva non solo della sfera privata, ma della stessa città politica. Si può parlare di democrazia se l’amputiamo dei diritti?

Il terreno dei diritti è oggi un campo di battaglia planetario. Solo partendo da qui, da questa constatazione, si può ricostruire l’insieme dei soggetti e delle istituzioni che connotano questo tempo mutato. Non stiamo attraversando un deserto. Nuove Costituzioni danno identità a intere aree del mondo, scardinano la convinzione che l’idea dei diritti sia rimasta quella costruita alla fine del Settecento sulle due rive del Lago Atlantico, impongono una riflessione sul fatto che, parlando di diritti, in realtà sarebbe all’opera sempre e solo la «ragione occidentale». Il riferimento storico a libertà, eguaglianza e solidarietà è ormai inscindibile dal principio di dignità. Il senso stesso delle Costituzioni è mutato da quando è divenuta centrale la categoria dei diritti fondamentali. Reti fino a ieri impensabili avvolgono il mondo. E solo la consapevolezza di questo mutamento può renderci comprensibile il ruolo ormai assunto dalle corti, che non può essere compreso con lo schema tramandato del rapporto tra legislazione e giurisdizione.

Ma vi è un punto fondamentale che deve essere sottolineato. Le trasformazioni sommariamente ricordate si sono risolte in enormi redistribuzioni di potere che non hanno certo seguito le vie della democrazia, che hanno creato un «informal empire», che hanno prodotto una privatizzazione del mondo. Piaccia o non piaccia, debole o forte che sia considerata, la narrazione dei diritti si è venuta «ricostituendo» come quella che ci indica non tanto che un altro mondo è possibile, ma che altre forme di potere possono essere strutturate.

E, com’è sempre accaduto, intorno ai diritti, deve essere esercitata l’intelligenza politica, devono essere avviate negoziazioni complesse, come fu quella che, nel 1215, approdò all’habeas corpus. Soprattutto, dev’essere chiaro che l’attuale narrazione dei diritti si differenzia profondamente da quelle del passato, essendo narrazione costituzionale dei diritti. Né impazienze, né liquidazioni sono propizie per questo difficile viaggio.

E questo mi porta alle ultime considerazioni di Carlo Formenti, per le quali non vi sono repliche da parte mia ma, al contrario, un’adesione convinta. Su un punto, in particolare, quello che mette in evidenza la necessità di non farsi travolgere dall’entusiasmo «benecomunista» per liquidare la dimensione del pubblico. Proprio la riflessione sui beni comuni, anzi, deve portare con sé quella che credo giusto chiamare la questione della «ripubblicizzazione del pubblico». Si moltiplicherebbero, altrimenti, rischi che già si possono scorgere, quelli del neomedievalismo istituzionale, delle concessioni pericolose alla logica della comunità in qualche modo chiusa. Proprio la logica dei diritti può fornire un buon antidoto a queste regressioni culturali e politiche.

 

Add comment

Submit