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Hosea Jaffe e il socialismo cinese bucharinista

di A. Vinco

Riceviamo e volentieri pubblichiamo

oriente rosso I lettori di Sollevazione conoscono sicuramente H. Jaffe, tra i più brillanti e dotati economisti marxisti degli ultimi decenni, tradotto in italiano da Jaca Book. Jaffe, trotzkista e terzomondista, teorico raffinato della rivoluzione permanente e ininterrotta, morì nella più totale solitudine e nel dignitoso silenzio nel dicembre 2014, in Italia, a San Martino Valle Caudina nei pressi di Avellino. La sinistra marxista italiana, occidentalista e subimperialista, ha ignorato, passandolo sotto silenzio, il lascito di Jaffe. Jaffe ci potrebbe aiutare a dirimere una delle più controverse questioni di questi tempi, ossia la questione sulla natura sostanziale della Cina di Xi Jinping? Non lo sappiamo con certezza, possiamo avanzare ipotesi di lavoro, ma ci sembra comunque importante far conoscere ai lettori il suo pensiero in materia. Questo scritto vuole soprattutto essere un ricordo dell’economista sudafricano scomparso da sei anni.

Non siamo sinceramente in grado di definire per ora il carattere di classe e la natura del sistema cinese. Lo stesso Deng, poco prima della morte, disse di aver messo in moto una sperimentazione “neo-socialista” (almeno a suo avviso) che non si trovava nei libri di Marx e Engels e che nemmeno la Nep di Lenin, a cui si era originariamente ispirato, gli poteva esser più d’aiuto per la sua evoluzione. La chiave di volta per la comprensione della Cina odierna è forse, sia questa una ipotesi di lavoro, nella teoria di Bucharin sull’economia nel periodo di trasformazione. Se così fosse il “socialismo con caratteristiche cinesi” di Deng si invera nella storia come una nuova forma di marxismo, riletto quest’ultimo paradigma alla luce della militanza teorica e pratica di Bucharin. Il miglior studio sul pensiero economico-politico di Bucharin rimane quello di Stephen Cohen. Casomai ci torneremo su in futuro.

 

Hosea Jaffe contro il marxismo eurocentrico

Il trotzkista Jaffe, nella sua elaborazione più matura, considera la teoria maoista dei Tre mondi – Usa e Urss Primo mondo supercapitalista ed imperialista, Germania, Giappone e Italia come Secondo mondo subimperialista, Cina Socialista guida della lotta di liberazione antimperialista del Terzo e Quarto Mondo- e la dottrina maoista della linea orizzontale e del Nemico principale– sostanzialmente antisovietica – una rivoluzionaria rottura di paradigma sul piano della filosofia politica marxista. L’economista sudafricano, soprattutto in seguito al crollo inglorioso dell’Urss, finisce per vedere però, stranamente, una linea di continuità politica e strategica tra il maoismo e il denghismo riformistico ma non controrivoluzionario. Il maoismo metteva la guida politica del partito al centro, Deng la tecnica e l’economia. Ma il fine era il medesimo. Superamento della grande divergenza con l’occidente imperialista e nuova civilizzazione socialista.

 

Il denghismo fu anticapitalista e antimperialista?

In base all’analisi di Jaffe, Deng non fu un controrivoluzionario o un liquidatore dell’esperienza socialista, al contrario fu il più grande riformatore storico del campo antimperialista. La Nep riformista di Deng non si può che leggere, per l’economista trotzkista, alla luce delle contraddizioni interimperialiste globali e in questo senso il leader cinese che succede a Mao è il gigante socialista di questa epoca di civiltà. Scrive Jaffe nel 2008:

Le forze socialistiche antimperialiste nel PCC, il proletariato ed ancora – ci si consenta di farlo notare – i contadini, lottano contro questo supersfruttamento (imperialista occidentale) quotidianamente. Mentre la controrivoluzione capitalistica (guidata dagli USA e dalla Germania) contro l’URSS ridusse le aspettative di vita degli uomini da 70 a 59 anni in 17 anni, le aspettative di vita in Cina sono cresciute dal 2006 al 2007 da 72,88 a 73,18 anni (CIA: 2008): è il doppio della media delle aspettative di vita nell’Africa “indipendente” degli occupanti euro-statunitensi. L’alfabetizzazione minima in Cina si aggira intorno al 90,9%. In Africa gli “under 15” sono circa il 50% della popolazione, in Cina il 20%. Sotto la NEP i lavoratori hanno accesso ad una casa, godono di trasporti gratuiti, ospedali ed educazione dalle scuole primarie all’università. L’incidenza dell’AIDS in Cina è dello 0,1%, una persona su 1.000, tra le medie più basse al mondo. Come Cuba, anche la Cina è ufficialmente atea. Vorrebbe B.B. sostenere che tutto ciò è tipico del capitalismo? 9. L’ineguaglianza in Cina non è capitalistica. Sotto il capitalismo la più vasta parte delle ineguaglianze economiche non intercorre tra il lavoro ed il capitale nei PCA, bensì tra i redditi pro capite dei PCA imperialisti e delle rispettive popolazioni (di UE, USA, Australia, Nuova Zelanda, Giappone, Israele, Sud Africa e gli occupanti, coloni, oligarchi dell’“America Latina”) ed i paesi e le popolazioni non imperialiste (Asia, Africa, Medio Oriente, non europei negli USA ed in Europa). Il tasso di plusvalore nei PCA è in media del 33%, stando alle analisi dei PIL nazionali. Il rapporto tra redditi nei PCA (di cui il 33% ovvero 1/3 proviene dal bottino coloniale) e redditi dei non-PCA (di cui più del 50% sono razziati dai PCA) è di 2:1 ovvero del 200%. Questo rapporto internazionale, propriamente globale, basato sui tassi di cambio in dollari, è, attualmente, in numeri: 30 trilioni/15 trilioni di dollari statunitensi (PIL aggregati). Ciò equivale a 6,6 volte il rapporto profitti/salari nel blocco imperialista. In termini marxiani, così come espressi nel Das Kapital (il che è ben diverso dall’euromarxismo), la distribuzione internazionale imperialistica dei redditi è superiore a 6 volte alla distribuzione dei redditi tra le classi nei PCA.

Di conseguenza, secondo la visione dell’economista antimperialista, la sostanza del socialismo nel XXI sec.sarà rappresentata dalla linea offensiva antimperialista, ancor prima che dall’anticapitalismo teorico e dal socialismo astratto dogmatico. Si può contrastare il plusvalore capitalistico solo con la lotta antimperialista e con la vasta diffusione del benessere sociale nel campo asiatico, africano, sudamericano. Questa la sostanza dell’insegnamento finale di Jaffe. E’ chiaro, in base a tale presupposto, non solo che la Cina denghiana sia socialista ma finisca per costituire un modello sociale che mai nessuno ha rappresentato nella storia. Jaffe citava al riguardo la teoria denghiana del valore.

 

Il denghismo fu russofobo come il maoismo

Molti maoisti degli anni ’70 consideravano Deng Xiaoping un filosovietico, un agente di quello che definivano, sull’impulso della rivoluzione culturale cinese, “l’imperialismo neo-zarista e semifascista del Cremlino”. La linea nera di Liu e Deng veniva erroneamente considerata, a livello internazionale, russofila. Tale tesi sarà smentita nei fatti, Deng continuò, e se possibile radicalizzò, la linea orizzontale maoista sull’Urss primo nemico. Dal Vietnam e Laos Cambogia all’Afghanistan islamico in lotta con l’Armata rossa, dal Cile di Pinochet (filocinese e filoGop dal 73 all’89) all’Iran khomeinista, la geopolitica di Zhognanhai si atterrà scrupolosamente, sotto la direzione di Deng, al precetto maoista volto strategicamente all’annientamento della Russia sovietica. Nella contesa cambogiana, Deng, sceso in campo in soccorso a Pol Pot e ai Khmer rossi contro il Vietnam filosovietico, schierava l’esercito cinese cercando di attrarre nel tranello l’Armata rossa. Kissinger ha rilevato, nella sua monumentale opera sulla Cina maoista e denghista, come il timore di quello che consideravano “l’imperialismo del Cremlino” avesse sia per Mao sia per Deng la priorità su ogni altro calcolo geopolitico. Il bucharinismo denghiano non intaccava la sostanza del socialismo denghiano, che era un “socialismo alla cinese”, non occidentalizzante né russofilo. Lo stesso intermezzo caratterizzato dal dominio della Banda dei Quattro e da Hua Guofeng si segnalò per la russofobia come primo livello geopolitico. La storica russofobia del “Socialismo” di Beijing suona oggi come un campanello d’allarme per Mosca? Biden-Harris sono veramente l’ala più Sionista, russofobica e filocinese del Pentagono e del Deep State? Ieri furono soprattutto i repubblicani statunitensi a sostenere la Cina contro la Russia, oggi saranno i Dem e la sinistra radicale e gender globalista a mettere di nuovo in moto la macchina di guerra per la dissoluzione della Federazione russa di Vladimir Putin e una spartizione globale tra Cina e Usa? L’elite Xi Jinping di Zhognanhai accetterà una simile spartizione? Ci torneremo eventualmente su.

 

Deng e la teoria del valore lavoro

«Lenin invitava a discutere di più di economia e meno di politica. A mio avviso questa è un’affermazione ancora valida circa la proporzione di lavoro teorico da dedicare a queste due sfere». [Deng Xiaoping, 30 marzo 1979]

Il sinologo Vogel considera tuttora la Cina di Xi neo-denghiana e Socialista. Non vi è nei fatti rottura tra la teoria di Deng e quella odierna di Xi Jinping. A differenza della nota visione del “socialismo di mercato” teorizzato da Ota Sik, nell’economia denghiana al prezzo corrisponde direttamente il sistema degli incentivi materiali. L’incentivo materiale buchariniano nella equità sociale e comunitaria, non quello morale, è la via della liberazione sociale e della disalienazione della forza lavoro. I prezzi diventano gli indicatori economici assoluti, ossia calcolati non sulla base di un minimo relativo del costo di produzione ma di un salario relativamente alto come standard di equità socialista. Il denghismo pone perciò al centro, nel suo modello sociale, gli incentivi materiali nella distribuzione del reddito. Un fenomeno assai singolare è la somiglianza tra la concezione del valore lavoro di Bucharin e le prese di posizione economicistiche e antisoggettiviste della “linea nera” del partito comunista cinese, guidata da Deng e Liu Schao-chi, tra il 1962 e il 1965 durante la lotta di fazione antimaoista.

Dopo il 1960, non si dimenticherà, la Cina almeno sino al 1964, sperimenta l’egemonia teorica e pratica della “destra” bucharinista; verso il 1964, la pratica della Nuova Politica Economica (una anticipazione dell’affermazione del definitivo riformismo denghiano successivo alla morte di Mao) aveva accresciuto i redditi dei dirigenti d’azienda, dei tecnici, dei contadini proprietari e aveva alzato i salari del lavoratori. L’economicismo denghiano si fondava nella dinamica di correlazione politica tra incentivi soggettivi e soprattutto fiscali, che avrebbero sviluppato un’accumulazione socialista nelle mani dello Stato e la centralizzazione flessibile della gestione industriale ed agricola, inevitabile nel processo sviluppista, scientifico e modernizzatore. Il 7 luglio ’62 Deng riprendeva, per giustificare la sua teoria economica, nel caso di specie la necessità di affittare fattorie ai contadini per accelerare la produzione agricola, un proverbio del Sichuan, diffuso tra gli Hakka, minoranza han della regione, che sosteneva che non aveva importanza “se il gatto era giallo o nero, l’importante è che acchiappi il topo.

Deng partiva dalla certezza che “solo il socialismo può salvare la Cina – questa è l’incrollabile conclusione storica che il popolo cinese ha tratto dalla propria esperienza nei 60 anni seguiti al Movimento del 4 maggio 1919”, che il sistema socialista è migliore di quello capitalista; deviare dal socialismo, anche da posizioni di sinistra, significava regredire allo stato semi-feudale e semicoloniale. Deng, perseguitato durante la Rivoluzione culturale, considerava tragico quel periodo, caratterizzato a suo avviso da un perverso intreccio tra il fanatico risorgere di vecchie forze del privilegio feudale e semischiavista (“influenze che non possono essere spazzate via in un sol colpo”) e il dominio dell’idealismo soggettivo borghese, che per quanto riguarda Lin Biao e La Banda dei Quattro Deng associa, proprio a causa del loro soggettivismo idealistico politicistico e antieconomicista, alle esperienze fasciste europee e le fa di fatto estranee alla gloriosa storia del movimento socialista cinese. I Paesi capitalistici con una lunga storia feudale, Inghilterra, Francia, Giappone, Germania, Italia, avevano tutti sperimentato gravi arretramenti e rovesci in un certo periodo: restaurazioni controrivoluzionarie in Francia ed Inghilterra, periodi di dominio militarista e fascista in Giappone, Germania, Italia. La strategia di Lin Biao e della Banda dei Quattro era, in questo senso, quella della controrivoluzione, del ritorno al “dispotismo asiatico”, dello sciovinismo xenofobo antimodernista ed autarchico. Lin Biao – secondo Deng- con il suo soggettivismo fascistoide e conservatore fece perdere tempo alla Cina sulla via del progresso antimperialista e dello sviluppo socialista.

La realizzazione storica e economica denghiana altro non è, dunque, nell’ottica del socialismo con caratteristiche cinesi, che la concretizzazione e la conferma della formula bucharinista del valore, ovvero la corrosione dell’economia capitalistica nell’ambito del plusvalore prima e del valore poi: con imprecisione, ma non errando allora, Bucharin parla di formula soltanto di valore, formula del valore: c + v + m; c + v + (m – x); c + v; c + (v – x); (c – y) + (v – nx) [1 ]. Il modello denghiano affermatosi sta portando gradualmente all’erosione il modello sociale capitalistico occidentale di valore. Si va affermando ogni giorno di più, nel pianeta, il valore lavoro del modello sociale denghista cinese, non quello occidentale o europeo. E’ significativo, nota il sinologo Jurgen Domes, che lo scontro dei primi anni ‘60 tra la linea nera (Liu, Deng) e la linea rossa (Mao, Lin Biao), avviene sulla concezione del valore lavoro. Liu considera i maoisti dei “socialisti reazionari al limite del neofeudalesimo”, taccia il loro idealismo di “avventurismo borghese” e di “utopismo”, afferma che una Cina nelle mani di Mao e Lin Biao sarebbe una Cina militarista, sciovinista, come quella di Chiang Kai Shek. Liu accusa i maoisti di non aver compreso la legge del valore e dice che per questo non sono marxisti né comunisti ma reazionari. I maoisti, che vogliono cambiare la realtà tramite gli impulsi ideologici facendo ricorso all’entusiasmo rivoluzionario delle masse, sostengono evidentemente la centralità e la priorità dell’autocoscienza. I seguaci di Liu e Deng, viceversa, considerano marxisticamente la coscienza un prodotto di determinate condizioni ambientali e oggettive che non possono essere scavalcate.

 

La retorica di Xi e il neo-denghismo di stato

A differenza della maggior parte degli analisti e dei sinologi americani, non abbiamo affatto motivo di ritenere che Xi Jinping abbia buttato a mare l’eredità teorica e economicistica neobuchariniana di Deng Xiaoping. A nostro avviso, Xi non è tanto uno statista, né un politico, ma un vero generale e condottiero, un autentico Napoleone asiatico. La quintessenza del Pensiero di Xi è il militarismo globalista, antioccidentale e molto probabilmente anche russofobo, un militarismo che deve essere supportato dall’offensiva planetaria di una tecnocrazia sociale e equa. Il fatto che il guerriero Xi Jinping, l’antipolitico stratega militarista, si sia imposto, nella terribile lotta di fazione di Zhognanhai, in questo momento storico dovrebbe far riflettere. Xi riprende in questo senso la linea nazionalista panasiatica, neo-confuciana e militarista di Lin Biao (prima l’esercito e gli Istituti Confucio) ma non ha strategie socialiste o egualitaristiche universalistiche da imporre. Il fine di Xi è il nuovo ordine mondiale Han. Il neo-confucianesimo di Lin Biao era forse un confucianesimo di sinistra, questo odierno di Xi è sicuramente di destra ma approfondiremo, eventualmente, in seguito tale questione. I toni che caratterizzano l’epoca Xi sono chiaramente espansionisti e globalisti, come quelli affidati al mensile “Dangjian” (Costruiamo il Partito), alla fine del 2018:

«Prepararsi rapidamente a essere in grado di guerreggiare, combattere all’infinito, di nuovo combattere e avere il necessario sostegno logistico».

Eventualmente, il rivendicato espansionismo cinese sul piano globale può oggi essere l’unica grande differenza metodologica e strategica tra Deng, che invitava a nascondere la propria forza, e Xi; tale differenza si giustifica però nel differente contesto e nell’aver ormai raggiunto la Cina gli scopi immediati che Deng si pose. Come Deng, a differenza di Putin o di Erdogan o di Ahmadinejad, Xi non pensa che la politica o la spiritualità possano risolvere i problemi del tempo presente, ma solo l’economia, la tecnologia e la scienza possono a suo avviso abbattere l’ignoranza, la superstizione, il regresso, l’ingiustizia sociale e economica. A questo Xi aggiunge la centralità Confuciana dell’Esercito, con toni e iniziative che riportano alla mente, come detto, il nazionalismo han linbiaoista. Varie frazioni della sinistra internazionalista e progressista russa considerino Putin il politico, Putin lo statista un “fascista” mentre ritengono che la Cina odierna – sempre più tecnocratico-militarista – sia un modello sociale di sinistra avanzata. Per molti rivoluzionari e marxisti russi, ma non solo russi logicamente, la Cina è addirittura un modello socialista ben più d’avanguardia rispetto all’Urss di ieri. Verrebbe da chiedersi se hanno consapevolezza del fatto che sin dalla primordiale epoca maoista, tutti gli scontri di fazione che si ebbero nel Pcc vertevano anche sulla caratteristica cinese del socialismo che si voleva inverare. Era nazionalista Liu come era nazionalista Mao, più nazionalista di loro era Zhou en lai. Nazionalismo, nel socialismo cinese, non significava, e non significa, ciò che significa in Europa, ma rimanda allo spirito della Conferenza di Bandung del 1955, spirito di rottura con la logica di Yalta, di antagonismo a sovietici e occidentali, di affermazione della marcia Sud verso Sud contro Nord del mondo.

Non vi è stata, e non vi può essere, fazione strategica nel Pcc che non muova da questo originario assunto. Il nodo principale per giudicare la natura sociale della Cina di Xi Jinping, inoltre, sarebbe quello dell’analisi degli investimenti pubblici; Deng stesso nelle sue pianificazioni riformatrici, come ci è noto, lasciò sempre al centro l’investimento pubblico e invitò a non abbandonare quel modello e non imitare il liberismo occidentale, che avrebbe di nuovo affamato il popolo cinese. Le Keqiang, premier in carica, non fa però mistero di voler assegnare maggior risalto al “mercato”, che dovrebbe giocare per la Cina negli anni che vengono un ruolo di maggior peso. Se le pianificazioni di Hu Jintao facevano leva sulle SOE, ovvero sulle imprese statali, l’attuale elite mandarina con la sua strategia basata sulla digitalizzazione socialista globale necessita di un fondamentale supporto di società private, che sono tecnologicamente molto avanzate. La finalità di Xi è quindi quella di finanziare il privato all’avanguardia sul lato tecnologico, facendolo poi confluire verso un equilibrato bilanciamento con le esigenze pubbliche e comunitarie. La riforma finanziaria del 2018 lascia, almeno in teoria, la centralità allo Stato e per questo Malaschini [2] definisce la Repubblica popolare uno Stato di diritto socialista e il giornalista del Corriere della Sera, Francesco Grillo [3], porta la Cina di Xi a modello sociale –antindividualista, comunitarista, solidarista e antiliberista – per l’UE per uscire dalla crisi decennale e dall’egoismo mercatista diffuso a ogni piano. Huawei, ad esempio, sostiene di essere un’azienda di proprietà dei dipendenti, autogestita. Il fondatore, Ren Zhengfei, possiede solo l’1 per cento mentre il restante 99 per cento appartiene a un Comitato collettivista sindacale che rimanda all’epoca delle Comuni. Tencent, colosso tech di Ma Huateng fondato nel 1998 con sede a Shenzen, ha già annunciato di voler investire 600 milioni di yuan nella nuova economia digitale basata su intelligenza artificiale e sicurezza sociale informatica. Nella stessa direzione sembra andare la strategia delle cosiddette città del futuro: a appena 100 km da Pechino si è sul punto di inaugurare, entro il 2022, una città in linea con lo sviluppo ecologico cinese, con milioni di abitanti (https://buildingcue.it/cina-citta-futuro/22025/), basata sui concetti di economia circolare, sul riuso, sul 5g, sullo spazio confortevole, sull’energia rinnovabile.

Tutto ciò ci pare vada chiaramente in una direzione di stato neo-denghiana, ovvero verso un socialismo scientifico-tecnocratico, almeno come teorizzato da Deng con le sue “Quattro modernizzazioni”. Se di esperimento socialista si tratta, nel caso del denghismo di Xi, è quello di un socialismo oggettivista, anti-politico e tecnocratico, scientifico e globalista. Il globalismo di Xi è chiaramente antagonista a quello delle sinistre radicali euroccidentali alla Biden-Harris o alla Die Linke-Podemos-Syriza, ma a dispetto di una fugace apparenza è molto diverso anche dal globalismo elitistico gender e transumanista della Silicon Valley o dei Bill Gates. Il globalismo di Xi è sì tecnocratico e scientifico ma come già detto è strategicamente militaristico, anche se preferirebbe portare definitivamente la Cina alla guida mondiale e “democratica” dei popoli senza dover ricorrere all’uso di armi e di stragismo. Vogliamo concludere questo pezzo, con una citazione. La citazione di colui che, forse anche più di Deng, è il padre autentico della Cina bucharinista dei nostri giorni. Citiamo Liu Schao-chi, il quale iniziale teorico del Grande Balzo in avanti, ne prese poi le distanze quando i maoisti ne condussero in una direzione a suo avviso sbagliata la direzione. In un discorso del 1 ottobre 1961, in aperta polemica con la sinistra maoista, Liu disse:

«Coloro che, inebriati da volontarismo e utopismo, non comprendono che nella costruzione del socialismo occorre sottostare a “leggi oggettive”, non sono socialisti. Non si può accorciare il cammino con una azione di audace volontà individualistica. Non si può scambiare il leaderismo, l’individualismo, la legge del soggetto, tutti residui questi ultimi capitalisti se non anche feudali, con la legge oggettiva del progresso storico e dell’evoluzione sociale. Questo è l’abc del socialismo e desta meraviglia vedere dirigenti e tecnici che ignorano l’abc».


NOTE
[ 1 ] La legge buchariniana del valore è secondo lo Stephen la somma intrinseca del socialismo buchariniano, mentre la versione stalinista della teoria del valore, propagandata da economisti come Lieberman con il suo “profitto monetario” e Strumilin con la sua logica dell’incentivo allargato, finiranno per riscrivere le classiche formule della produzione allargata, quindi capitalistica e fondata sul plusvalore, di Marx. Il plusvalore nella teoria stalinista del valore diventa “prodotto addizionale” o “intero prodotto per la società”, mentre nella teoria buchariniana è previsto l’erodersi del sistema capitalista. La situazione diventa insostenibile, per il capitalismo, con l’ampliamento della riproduzione negativa, cioè quando la produzione avviene a spese di m(plusvalore), c indica il capitale costante, v variabile. Il processo di distruzione del plusvalore avviene, per Bucharin teorico del valore lavoro, non appena il plusvalore sociale dileguerà nel lavoro vivo ma Bucharin si ferma però alla negazione del plusvalore. Va però detto, come critica alla concezione buchariniana, che se si tratta per lo Stephen di un passo avanti rispetto al “dispotismo orientale” o al collettivismo burocratico staliniano, si è comunque ancora dentro una logica che lo stesso Bucharin, nella nota polemica con Preobrazenskji, iscrive in uno stadio da capitalismo statuale, immediata transizione allo stadio socialista
[ 2 ] Malaschini, Come si governa la Cina, Rubettino 2019.
[ 3 ] Grillo, Lezioni cinesi: Come l’Europa può uscire dalla crisi, Solferino 2019.

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giorgio
Monday, 23 November 2020 21:11
In realtà l'articolo non fa che soggettivare in alcuni dirigenti cinesi i principi marxiani del rapporto fra sviluppo economico e quindi sociale e socialismo per cui il socialismo non può prescidere da un'adeguato sviluppo delle forze produttive che,,se sanno allontanarsi dallo sfruttamento, grazie al comando marxista sulla società, permettono le condizioni per il superamento delal teoria del valore capitalista.Questo volevano anche i bolscevichi prima e i sovietici poi ma, a differenza della Cina,destino dei capitali mondiali per contrapporla all'Unione Sovietica,
erano costretti da uno stato costante di conflitto a ritardare lo sviluppo economico (eccettuato il militare per ovvi motivi storici). Forse l'Unione sovietica aveva un'altra idea della propria autonomia nazioanle, molto più netta di quella dimostrata dalla Cina, che rendeva inimmaginabile l colonizzazione economica del paese, ciò che la Cina di recente colonizzazione ha saputo accettare salvando il socialismo.
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