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Tempo e politica

Pierluigi Fagan

Portrait of Niccolò Machiavelli by Santi di TitoCon “politica” s’intendono le attività svolte da individui e gruppi per risolvere i problemi del vivere associato. Per “attività”, s’intendono sia gli aspetti teorici, le idee, i sistemi di idee, che orientano i giudizi e progettano l’azione politica; sia le pratiche interne alle istituzioni giuridiche e sociali che danno forma al vivere politico associato. Le prime danno il pensare politico, le seconde danno l’agire politico ma data la loro inestricabile correlazione le nominiamo “attività” entrambe.

Con “tempo” intendiamo sia il tempo investito singolarmente e collettivamente in politica, sia il tempo che si prevede necessario per conseguire gli obiettivi dell’azione politica che è sempre una attività trasformativa, sia il rapporto che s’instaura nel mondo del pensiero tra descrizione (ciò che è) e normazione (ciò che dovrebbe essere) il quale può esser traguardato tanto a breve quanto a lunghissima scadenza. Quest’ultimo senso attiene quindi al pensare politico, i primi due, all’agire politico.

La riflessione (articolata in tre puntate) verte sulla finalità di traguardare i vari sensi del tema “tempo e politica”, in funzione di un potenziamento della democrazia come metodo per trovare le soluzioni ai problemi del vivere associato. Con “democrazia” non s’intende il sistema misto oggi in vigore in occidente[1] ma l’autogoverno del sistema sociale e politico, quanto più in-intermediato, partecipato e diretto possibile.

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Pensiero politico tra breve e lungo termine

La diade iniziale del pensiero politico occidentale è quella nota: Platone ed Aristotele. Il primo, attraverso i suoi Dialoghi, opera sia una critica della contemporaneità (ciò che è), sia  ipotesi a più lungo raggio (ciò che dovrebbe essere). Poiché erriamo se giudichiamo con la mente del dopo un prima, si deve rimarcare che Platone non pensava di scrivere utopie (concetto del XVI° secolo) ma idee, idee che potessero orientare l’azione politica, una azione molto concreta visto che una delle ragioni più importanti della sua Accademia, era formare filosofi “consulenti” politici concretamente attivi[2]. Egli stesso s’impiegò per ben due volte in rapporti con la politica attiva nel caso di Siracusa. Fondativo per il pensiero politico che solo poi si chiamerà “utopico”, il dialogo Repubblica ma Leggi, pur essendo ampiamente meno noto, non lo è di meno. Aristotele, procede invece, nel suo Liceo, collezionando costituzioni e questo perché, rispetto al tema “politico”, riteneva che ai fini di una buona politica, la legge dovesse venire prima delle persone. Ne conseguì l’altro testo fondativo della filosofia politica occidentale: la “Politica”.  La critica del’esistente, sia come forme storico-sociali, sia come forme costituzionali, unisce i due pensatori e fonda la filosofia politica che si concentra su un presente figlio di un passato che deve esser portato ad un nuovo, possibile, futuro. Solo che il possibile futuro, si declina in prossimo e remoto, corrispondendo a due nuove categorie del pensiero: realistico ed idealistico.  Quando si declina il pensiero politico al futuro, Aristotele rimane abbastanza generico trattando alcuni principi guida come l’importanza del baricentro sociale rappresentato dalla classe media o una forma costituzionale mista che lui chiama politeia, Platone si dedica invece ad un disegno assai più complesso e curato nei particolari sociali, educativi, economici, del funzionamento politico. Ne risulta un Aristotele apparentemente più “realista”, ed un Platone più “utopista”. Altresì, da Aristotele ereditiamo la convinzione che le forme politiche e sociali siano più importanti delle persone che le interpretano, convinzione che darà vita alla maggior corrente del pensiero politico che potremmo chiamare costituzionalismo o socio-strutturalismo e che si svilupperà da Polibio a Marx mentre Platone che non è esente da  attenzioni alle forme (la tripartizione socio-politica in Repubblica e l’intera organizzazione della città ideale in Leggi) è sia convinto che tutto l’edificio politico debba culminare in un Uno (il re), sia che questi debba essere formato secondo certi principi (re-filosofo). Quella di Platone è un’altra linea tradizionale della filosofia politica che potremmo chiamare “leaderismo” che si svilupperà da Machiavelli sino a Weber. Tutte le linee strutturali convergono nel nodo di un potere che s’identifica con l’intenzione e l’azione del potente a cui i teorici della politica, daranno consigli.  Così, mentre il costituzionalismo pensa che la vita associata possa strutturarsi secondo un sistema, il leaderismo pensa invece debba ridursi ad un corpo che culmina in una testa intenzionale agente.

Si tenga conto del fatto che, assenti le opere di Protagora, la filosofia politica occidentale dimenticherà la democrazia fino a J.J. Rousseau (1762), il quale la riproporrà più su un piano ideale che concreto. Rispetto alla democrazia, i “classici”, da Platone (di più) ad Aristotele (di meno), da Tucidide a Polibio, stratificano una monocorde tradizione critica[3].  Quando la democrazia verrà ripensata all’indomani della Rivoluzione francese, si presenterà nella sola forma rappresentativa con B. Constant (1819), A. de Tocqueville (1835-40) ed i federalisti americani, dato che la si considerò alla luce dei già formati stati nazione. Tenuti fermi questi, non si poteva che articolare il sistema per delega visto che veniva a mancare la ristretta e compatta polis. Nella successiva produzione teorica, fatta eccezione per il giurista tedesco H. Kelsen e del politologo americano R. A. Dahl, se ne parlerà per lo più in forma critica (M. Weber) o distorta (A. Schumpeter) o demistificante (Mosca, Pareto, Michels). Anche la maggiore corrente critica ed alternativa al sistema politico in atto in occidente, il marxismo, evita la messa a fuoco delle opportunità e dei problemi del sistema democratico poiché l’agente politico considerato non sono i Molti ma una classe sociale e il problema dato non è la decisionalità politica ma la struttura del possesso dei mezzi di produzione. La democrazia per Marx è quella in atto ai suoi tempi, la democrazia borghese, ed in quanto tale rientra nella feroce critica che egli fece dei sistemi dominati da quella classe.

Quanto alla diade realista – utopico, nella romanità antica, prevale il solo pensiero “realista” mentre nel medioevo, le questioni della “città degli uomini” interessano solo per il riflesso che hanno in relazione con la “città di Dio”. Più che altro, si fanno deduzioni giustificatorie, per lo più dei principati, poi monarchie o nell’Italia del XV° secolo, delle repubbliche.  Tali giustificazioni vengono dedotte dalla teologia o in alternativa, dal raffronto con la tradizione di Roma (con il De officiis, De re publica, De legibus di Cicerone a far da riferimento, assieme a  Polibio), in qualche altra parte soprattutto nell’Umanesimo, per lo più con la tradizione greca (intermediata dai romani) ma molto più Sparta, modello di costituzione mista, che non Atene. Influente anche il raffronto con l’impero, quello romano più di tutti ma in alcuni casi, anche Alessandro sebbene più da un punto di vista culturale che non politico. Si tenga conto che Politica di Aristotele venne tradotto in latino nel 1260 e Repubblica ed altre opere di Platone, solo nel XV° secolo.

Arriviamo così a gli inizi del XVI° secolo in cui si ripropone la diade originaria, con Machiavelli[4] che del realismo è l’oggettivo fondatore e Thomas More che lo è altrettanto dell’utopismo. Il titolo dell’opera di More, farà categoria, nel senso che si formerà come concetto, il concetto di qualcosa che non solo non c’è (luogo) ma -forse- non potrà mai esserci (tempo). Retroattivamente, alla categoria vengono iscritte anche le due opere politiche di Platone[5] e successivamente, la costellazione di pensieri politici emersi tra fine XVIII° ed inizio del XIX° secolo che lanciano l’anarchismo ed il socialismo utopico. Il  Rousseau del Contratto sociale, che precede tutti essendo del 1762, si muove non diversamente da Aristotele ed Hobbes sul piano dei principi, ma con una consapevolezza del fatto che quelli da lui stabiliti, fossero concretamente inarrivabili. L’ultimo iscritto alla tradizione, sarebbe il comunismo di Marx ma questa appartenenza è contrastata. Marx pone il comunismo molto sullo sfondo della sua teorizzazione e com’è noto, indugia assai poco nel descrivere come quel tipo di società avrebbe dovuto funzionare. L’intero impianto marxiano è più che altro una critica dello stato presente e, stante che il nucleo che produce quella realtà è data dal possesso privato dei mezzi di produzione, ipotizzando un diverso possesso diffuso e distribuito degli stessi, si dovrebbe dar condizione di possibilità per un nuovo stato di cose. Quasi tutta la sua opera, per altro non organica, è sbilanciata sulla analisi e la critica, fugaci le indicazioni sulla transizione, appena accennate le pennellate sullo stato finale pienamente comunista. Poiché Marx vuole raccogliere ma superare le tesi del socialismo utopico, non indugerà nel “prescrivere le ricette delle osterie del futuro[6] ma si concentrerà sull’individuazione del meccanismo che dovrebbe renderle “realisticamente” possibili[7].  Successivamente, Ernst Bloch[8] conierà il concetto di “utopia concreta” per intendere non qualcosa che non potrà mai accadere ma qualcosa che potrà accadere sebbene in tempi lontani. L’utopia concreta di Bloch è il concetto di “idea guida” che però, infine, giunge a compimento.

Si noti che l’Utopia di More (e la Città del Sole di Campanella) è un intero libro che ben si diffonde sul disegno della città ideale sebbene molti tratti (dallo stesso conio del termine -utopia = nessun luogo- ad altri usati da More nel trattato), dicano che l’autore voleva mostrare di non aver la pretesa di parlare di qualcosa di concretamente o immediatamente possibile. Di contro, Marx dedica poche righe alla sua città ideale ma sembra ritenerla più che concretamente possibile, una previsione addirittura “scientifica”, dotata di una sua necessità. Molti particolari per ciò che non è possibile e di cui quindi non si conosce il percorso d’approdo e pochissime indicazioni per ciò che invece si ritiene possibile e necessario, una strana asimmetria[9].

Concludendo questa prima parte del discorso, sembra che il pensiero politico si sia orientato senza problemi all’analisi del passato e della forme presenti. Quando ha affrontato il poter o il dover essere, lo ha fatto pensando principi poi da declinare in forme relativamente a portata di mano, principi da rinforzare, da sottolineare, da anteporre ad altri ma nella sostanza, già dentro la realtà che qui sta per “presente”. La stragrande maggioranza del volume complessivo del pensiero politico si è mosso in questa scansione del tempo. Solo raramente si è avventurato su un poter e dover essere più in prospettiva. Scontando però il framing dato dall’opera che segna questa categoria, l’Utopia di More, a questo pensiero in prospettiva è stato dato un carattere irrealistico, utopico è diventato un termine oltre il limite del possibile come se il possibile fosse solo quello che è possibile a breve. Si viene così a formare la diade del pensiero politico moderno che si rinomina nel poli del realismo e dell’idealismo. “Realismo” va quindi a prendere il particolare significato non solo di ciò che fa i conti con la realtà ma che nel farli si appiattisce sull’esistente. Viceversa, “idealismo” prende i caratteri di ciò che è nella lunga prospettiva, svincolato dal contingente ma rischiando di involarsi nell’impossibile . Marx ha cercato di divincolarsi dalla dicotomia, avanzando una idea di quella che poteva sembrare un’utopia ed il cui contenuto era in effetti lo stesso delle principali passate formulazioni utopiche  ma ritenendola invece un punto concreto in un futuro, però, “a portata di mano” dell’azione politica, forse addirittura un destino.

Nel ‘900, I paladini del primato dell’economico (Hayek) hanno vietato ogni pretesa di  costruzione umana intenzionale politica se non quella di subordinarsi ai poteri ordinanti dell’economia ed i tentativi di spiegazione dell’euforia totalitaria del secolo, hanno addebitato le cause alle ideologie[10] , cioè alle forme teoriche della costruzione politica alternativa allo stato di cose[11].  Per il pensiero liberale, l’uomo non sa costruire complessità e quando pensa di farlo seguendo una idea immaginata, ottiene il contrario di ciò che aveva sperato. Da ciò, è conseguita una auto-imposta limitazione nella trasformazione politica dell’esistente. Si può trasformare quello che già c’è, manipolando la gerarchia dei principi e quindi rimanendo astratti o attraverso pratiche di riforma che migliorano un po’ certi aspetti piuttosto che altri, ma lasciando sostanzialmente intatto l’impianto vigente. Quando il principio “speranza in un diverso modo di stare al mondo” si ribella a queste pratiche di prematuro soffocamento, gli è consentito una libera ed innocua cavalcata verso i non luoghi e i non tempi dell’Utopia. Marx, ha voluto dar luogo e tempo al suo progetto di trasformazione radicale ma la sua teoria della transizione -che è quello che manca endemicamente nel pensiero politico occidentale mancando progetti complessi a medio-lunga scadenza- è assai scarna, ambigua (dittatura del proletariato, scalata democratica e si presume riformista nei paesi a capitalismo avanzato), contraddittoria (il possesso dei mezzi di produzione è pubblico o comune? come si passerà dal primo al secondo ed in entrambi i casi, come ci si dovrebbe comportare con lo Stato visto che in prospettiva lo si dovrebbe estinguere? e cosa differenzia questo ultimo stadio comunistico dall’assai meno scientifico anarchismo? e come regolarsi sul vincolo necessario di una sincronia delle trasformazioni radicali in buona parte dell’Occidente quando le forme storiche sono ancora quelle degli stati-nazione?). Soprattutto: come funzionerà concretamente la gestione politica del collettivo umano? Cosa si nasconde in concreto dietro l’ambigua definizione di “dittatura del proletariato”? Tale bilancio problematico non è stato migliorato dal leninismo, dallo stalinismo e dal maoismo, né sul piano teorico, né nelle pratiche effettive, ancorpiù alla luce di risultati concreti che non si possono definire che altamente problematici e qualche volta fallimentari. L’uomo è prodotto dalle forme di produzione e se si cambiano queste cambierà tutto secondo Marx, la complessità del rapporto uomo-mondo è qui collassata in un riduzionismo determinista che esime da ulteriori dettagli. Il fallimento dei tentativi di realizzare il comunismo, sono la falsificazione di questa convinzione strutturale che, essendo il nocciolo razionale del metodo marxiano, determina l’irriformabilità del suo pensiero[12].

Nei tentativi di spiegazione delle cause dei totalitarismo novecenteschi che addebitano all’eccesso di furore ideologico la causa di questo fenomeno, spiegazione che chi scrive non condivide affatto, va pur detto che la mancanza di un pensiero della transizione, la non concezione del tempo necessario a costruire altri modi di stare la mondo, ha in parte giocato un ruolo. E’ chiaro che, arrivati al potere, quando si vede quanta inerzia e resistenza fanno il corpo sociale e la complessità strutturale che informa le grandi società novecentesche di fronte all’auspicato cambiamento, si forza, si forza e poi si forza di nuovo perché quando si comincia a forzare non c’è più modo di tornare ad una più delicata gestione delle trasformazioni. La disordinata complessità sociale della realtà è refrattaria alla modellazione logico – meccanica con cui si costruiscono i progetti del futuro e quando la prima continua a negarsi alla seconda, si applicano dosi sempre maggiori di rigidità e coartazione per far tornare conti che non tornano. La guerra poi e più in generale la competizione inter-statale, impose i suoi ritmi e le sue forme imperative che rinforzarono le rigidità che portarono a gli altamente indesiderati esiti ben noti[13]. Esiti che retroagirono negativamente sulla convinzione di poter cambiare il nostro modo di stare al mondo con la volontà.

In conclusione, la teoria politica occidentale privilegia le forme (costituzionalismo) o il leaderismo, gli approcci negativi (il liberalismo che è in sostanza il porre una serie di limiti invalicabili al politico in favore dell’economico), liquida sbrigativamente la democrazia in quanto tale (diretta) in favore di una forma (rappresentativa) che è dubbio possa fregiarsi del termine, forma per altro demistificata e continuamente ridotta alla fascinazione per i leader o per la potenza ordinante dei mercati. L’intera tradizione di politica pratica e teorica è divergente dal percorso democratico. La principale forma  alternativa di organizzazione politica pensata (il comunismo) deriva dall’economico e nella seconda metà del secolo scorso, ci si auto-impone un divieto anche alla fuga nelle regioni del pensiero libero (utopie) poiché foriero di eterogenesi dei fini (divieto e morte delle ideologie). Quanto al tempo, c’è il presente (riformismo) o il futuro senza termine preciso (utopia) ma manca del tutto un progetto di futuro concreto e l’abitudine a pensare i processi di costruzione progressiva, tant’è che il radicale modo trasformativo principe sarà inteso come “rivoluzione”. La teoria è preda di una polarizzazione che rimbalza dal realismo del presente, all’idealismo del futuro remoto, manca del futuro prossimo. La filosofia dell’avvenire è scarna e vaga, le utopie sono più un genere letterario che edifica il nuovo come delirio demiurgico privato. Manca del tutto un meccanismo idea – azione che faccia retroagire l’esperienza dell’azione sull’idea, modificandola mano a mano che si procede nelle trasformazioni.

 

Azione politica tra breve e lungo termine

Limiteremo le nostre considerazioni entro il modello della democrazia rappresentativa occidentale, perché è il modello “in atto”. Per “azione politica” intendiamo sia quella istituzionale, l’azione di governo, sia quella dei partiti e movimenti tanto al governo che all’opposizione. A parte, si tratterà dell’azione politica volta direttamente alla società, non cioè con immediati fini istituzionali.

Com’è noto, la democrazia rappresentativa, rinnova la rappresentanza ogni quattro o cinque anni (in genere), se le legislature hanno corso naturale. Questo tempo soffre su entrambi i lati dei suoi limiti, quello corto e quello lungo. Dal punto di vista della democrazia reale, votare ogni quattro o cinque anni, significa dare un mandato eccessivamente lungo. Difficile che i contenuti del mandato, quali di solito sono noti come piattaforma elettorale (al dl là del fatto che nella democrazia depotenziata ormai si voti a sensazione o tradizione più che per adesione razionale ad un piattaforma di idee e contenuti conosciuti), soprattutto in tempo di cambiamento come l’attuale, contengano effettivamente le questioni quali poi il personale politico si troverà a trattare.  Questo si trasforma in una delega per lo più in bianco su molti temi dell’azione politica, bianco che permetterà all’eletto di manovrare una o più soluzioni politiche, al netto dell’opinione di colui/coloro che dovrebbe rappresentare. Questa libertà dell’eletto rispetto al mandato è spesso sancita nell’impianto costituzionale stesso[14]. Ma se l’eletto agisce senza un mandato con disposizioni vincolate, non si ha autogoverno cioè democrazia (governo dei Molti), si ha governo degli eletti che ha assonanza con “governo delle élite” (governo del Pochi).

Dal punto di vista dell’azione politica invece, vi sono progetti, soprattutto progetti strutturali e specialmente e di nuovo, in periodi di profondo cambiamento, che meriterebbero ben più tempo per dispiegare l’intero processo di varo – implementazione – verifica dei primi risultati – correzioni parziali – secondi risultati – valutazione finale degli effetti. Ve ne sono anche altri, progetti di strategia profonda, che semplicemente non si riescono neanche ad impostare durante una media legislatura, col risultato che l’azione  politica manca del tutto della capacità di riformare la complessità sociale, strutturale ed istituzionale in vista del futuro. Lo stesso meccanismo della rappresentanza a medio periodo, impone al politico di portare risultati concreti all’elettore per vedersi confermata la delega. Questi progetti costruttivi del medio-lungo periodo mancano quindi sia nella teoria, che nella pratica, che nelle concrete possibilità offerte dalle forme e dai funzionamenti delle istituzioni[15].   Stati in cui esiste una certa convergenza tra le parti maggioritarie e le classi dirigenti sulla coltivazione dell’interesse nazionale, chissà poi con quale consapevole mandato degli elettori, in qualche modo vi riescono, in parte. Stati più agitati dalla dialettica governo – opposizione o dove le idee sulla costruzione sistemica sono plurali e tra loro incommensurabili o Stati in cui per ragioni intrinseche, si richiederebbe una strategia molto profonda e trasformante, quindi molto impegnativa, semplicemente si lasciano andare alla gestione corrente e così, si condannano al fallimento politico. Nell’uno o nell’altro caso, poiché non sono questi di solito gli oggetti del mandato di rappresentanza, i temi della profonda ristrutturazione dei sistemi in cui viviamo, non entrano nell’agenda politica e così non entrano nella cultura politica della società. Ciò è tanto più dannoso, laddove come detto per l’oggi, ci si trova in periodi di transizione storica non dovuti solo alle questioni interne di questo o quel paese. La mancanza di questo tempo della strategia profonda, del resto, fa il paio con la mancanza di progettualismo politico complesso che nella teoria politica dovrebbe porsi tra la continua emendazione dell’esistente e la fuga nell’utopismo. Il tempo, nei sistemi rappresentativi è troppo lungo per avere mandati che abbiano senso e condivisione e troppo breve per affrontare problemi strutturali profondi. Ciò si soffre di più in periodi di transizione che da una parte sottopongono molti problemi nuovi di continuo e dall’altra parte richiederebbero progetti di cambiamento profondo a media lunga scadenza. Il sistema rappresentativo sembra inidoneo a gestire le transizioni, tant’è che sempre più, le élite, richiamano ad un necessitato, ulteriore, accentramento del potere. Più però si accentra il potere, più questo potere frattura il ruolo politico dei Pochi rispetto a quello dei Molti. Le transizioni aprono una biforcazione tra efficienza (il potere direttivo dei Pochi) ed efficacia (la consapevolezza condivisa dei Molti).

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Rispetto al sistema politico in atto, l’azione politica si orienta su quattro atteggiamenti.

I primi due si riconoscono nel sistema in atto con uno che si orienta alla gestione dell’esistente ed un altro che vorrebbe apporvi qualche modifica, dal punto di vista strutturale più di forma più che si sostanza. E’ questa la partizione conservatori – progressisti. In periodi di transizione, la partizione rimane ma gli interpreti possono invertirsi, chi era conservatore quando il sistema in atto funzionava, può diventare riformista perché avverte la necessità di modificarne sensibilmente le forme al mutare dei tempi e chi era un progressista volto a migliorare il sistema, può arretrare alla sua ostinata difesa ora che rischia di dissolversi in qualcos’altro.

I secondi due non si riconoscono nel sistema in atto. Uno dei due si pone come critica istituzionalizzata ad oltranza quasi che questo esercizio di costante ed ostinata negazione avesse una sottesa e misteriosa capacità di generare il nuovo[16]. Questa pratica, invero, ha una sua funzione correttiva di alcune variazioni più unilaterali ed a loro modo estremistiche, delle pratiche di chi è al governo, una buona opposizione ha funzioni contenitive e riesce ad esercitarle viepiù riflette un movimento sociale concreto che si manifesta politicamente nella società reale. Nel tempo, però, essa finisce con il mono colorare l’identità politica della forza d’opposizione, la quale dicendo NO a tutto non rende chiaro il suo SI a cosa realmente andrebbe. L’immagine che queste forze proiettano di se stesse è di mancare di un quadro strategico chiaro perché una strategia alternativa non è una strategia dialetticamente simmetrica. Nel tempo, questo esercizio del negativo, sforma la capacità politica complessiva dell’opposizione più radicale poiché in effetti si subisce l’agenda e le impostazioni di chi è al potere del sistema e si esercita il libro arbitrio solo su i singoli temi, per altro reiterando il monotono NO che è solo il simmetrico contrario. Nel tempo, altresì, questa testimonianza negativa, attira mentalità eccitate dal rigore critico ed allontana quelle dalla volontà costruttiva poiché passare una intera esistenza politica  a far fare le cose concrete a gli altri, riservandosi il gusto del solo dissenso, può essere molto frustrante e molto sterile. Semmai queste forze andassero a condividere qualche parziale pezzo di potere concreto, la distanza  tra il loro idealismo programmatico e la dura e refrattaria realtà delle cose, creerebbe un fallimento che allontanerebbe immediatamente il consenso momentaneamente ricevuto. Anche perché lo si è ottenuto spesso su petizioni di principio che di per sé non fanno una realistica strategia politica[17]. L’altro modo di questa posizione anti-sistema, si tiene distante dall’ingaggio istituzionale o perché non ritiene di poterlo usare in proprio favore o perché teorizza che per funzionare, la posizione della dialettica di negazione debba essere più radicale ancora ed agita nel sociale, fuori dalle istituzioni. Ponendosi fuori dal sistema, non per questo si chiarisce l’alternativa perseguibile e si rimane in attesa di qualche evento trasformativo di solito confusamente insurrezionale proiettato su i teli del cinema Utopia. La resistenza sociale e culturale, politica, ha una sua nobile funzione, anche pratica qualora si eserciti su singoli tempi specifici ma “agire come se si fosse già liberi” (D. Graeber, 2009) si rende possibile solo se si opera su porzioni molto limitate dello spazio e del tempo politico. Di contro, questi esprimenti pratici di un altro modo politico, sono estremamente utili per sviluppare, pur dentro molti limiti e condizionamenti, l’alternativa possibile. Nei grandi numeri della politica in atto, però,  viepiù i problemi delle transizioni macroscopiche si fanno numerosi, concreti e pressanti, viepiù gli spettatori del cinema Utopia disertano e cominciano a frequentare una qualche forma di apparentemente “più concreta” demagogia.

L’azione politica nelle nostre democrazie rappresentative ha per lo più accettato questo sistema come unico modo possibile ed auspicabile. Le azioni alternative, si sono volte alla rappresentanza del disagio sociale e al lavoro politico volto alla società, alle sue contraddizioni contingenti, scegliendo qualche soggetto o oggetto come riferimento principale (ad esempio, la classe operaia o dei lavoratori, le popolazioni di qualche zona, i “verdi”, gli “onesti”, la “nazione”, una qualche disobbedienza civica).  Così come la teoria politica è rivolta al presente, l’azione politica lo è in pari grado. Il medio-lungo periodo è fuori dai radar concettuali e pratici, della politica pensata ed agita.

Un caso emblematico è il rapporto tra democrazia e sistema politico-territoriale. Ai fini dello sviluppo di una democrazia, fintanto che si accetterà il formato stato-nazionale come dogma cioè, fintanto che non si progettino forme di comunità più piccole tra loro federate, il rappresentativo nei grandi numeri produrrà solo quello che questa logica può produrre: élite. Progetti di unione sovranazionale produrranno élite di élite. Pratiche concrete di esproprio del potere politico in funzione di quello economico o peggio, finanziario, su scala planetaria (detta “globale”) creano élite planetarie che subordinano élite continentali che subordinano élite nazionali. Questo percorso si sa già dove porta, porta a formare blocchi imperiali, una ristretta magafauna in violenta, reciproca competizione per la leadership planetaria, con i sistemi in atto che richiameranno élite sempre più strette e decisioniste ed una agile catena di comando volta a strutturare in ogni modo il corpo collettivo per renderlo idoneo alla competizione continua verso l’alto. Il democratico dovrebbe simmetricamente andare dalla parte opposta, tornare al basso, ma il democratico non ha ancora base politico-sociale formata e non ha tradizione teorica, quindi viene travolto dagli eventi.

 

Trasformazione politica e tempo

I programmi di trasformazione politica sono stati sempre legati al tempo umano. Il tempo umano, che siano individui o loro formazioni sociali, è sempre stato nei limiti del “mio – nostro presente” e del “mio – nostro futuro” intesi come tempi di esistenza personale. Poiché la politica verte sulla ricerca di soluzioni a problemi, questi problemi diventano i miei – nostri problemi dell’oggi e semmai dell’immediato futuro. Questo assetto è  unilateralmente sbilanciato, nel senso che potrebbero ben darsi problemi la cui natura non prevede alcuna soluzione effettiva, neanche parziale, nell’oggi o nell’immediato futuro. Già il porre l’ipotetica soluzione in un futuro ancora per noi possibile (lungo cioè il raggio della nostra singola esistenza) ma distante, ci allontana molto dall’ingaggio nel pensiero ed ancorpiù nell’azione trasformatrice. Se poi, si dà il caso di problemi strutturali profondi ed estesi, ad esempio una trasformazione radicale della società, problemi le cui soluzioni potrebbero porsi certo non entro l’estensione della nostra singola esistenza, allora questi problemi non vengono neanche presi in considerazione. O meglio, non vengono presi in considerazione nella loro natura di lungo tempo, vengono cioè de-temporalizzati, in modo da confortarci sul fatto che potremmo affrontarli e risolverli in tempi che ancora ci prevedono.

Ma se ci volgiamo all’esperienza concreta, se cioè analizziamo la storia, la storia delle società, dei loro modi organizzativi, del come i problemi si sono presentati e di come sono stati affrontati e di come e quando sono stati risolti o meglio, di come si sono evoluti per conto loro ed alla fine risolti perché affogati in problemi maggiori o di diversa forma sistemica, vediamo che il tempo delle trasformazioni è sempre più lungo di quello di una singola esistenza. Se facciamo questa analisi del tempo storico, in cerca del movimento trasformativo strutturale e sistemico che ha portato da una epoca ad un’altra, da un modo all’altro, da una forma all’altra, la metrica temporale ha base più su i decenni ed i secoli, che su gli anni. Vediamo cioè che “nella realtà”, i sistemi sociali cambiano continuamente ma decisivamente solo se poniamo la partenza e l’arrivo del processo trasformativo, su un asse temporale che non prevede mai la copertura di una singola esistenza umana. Anche quando la storia sembra accelerare e portare ad una trasformazione rapida, occorre vedere in quanto tempo quante gocce si sono dovute sommare per arrivare a quella che ha fatto traboccare il vaso. Bisogna anche vedere se quella che ci appare una radicale trasformazione è veramente tale nei suoi più profondi aspetti strutturali e se è ben riflessa nella mentalità delle persone coinvolte, se cioè è irreversibile[18].  Si può fare la Rivoluzione francese e segnare importanti pagine di storia, ma se poi all’Uno del monarca assoluto, subentra l’Uno dell’imperatore non meno assoluto, allora si deve conseguire che la trasformazione è stata solo formale e non sostanziale o appena iniziata ma non sviluppata o posta ma subito, potentemente avversata.

Ne conseguiamo la fotografia di un altro problema di relazione temporale quello che si registra sistematicamente tra la natura delle trasformazioni complesse che è un tempo lungo e quello della natura dei nostri pensieri ed azione politica che è traguardato raramente sul tempo medio e più spesso su quello breve e mai su i tempi di lunga durata. Questo problema si sovrappone a quello iniziale, alla mancanza cioè di un pensiero teorico politico la cui ambiziosa meta è molto al di là della sua raggiungibilità per una singola esistenza ma che è in grado di dettagliare una mappa di viaggio che renda significativa la transizione anche per la singola esistenza.

Per fare un esempio, l’idea di una società pacifica, egalitaria e perfettamente autocosciente in ogni sua singola componente (in pratica, il contenuto se non di tutte, del maggior numero di utopie pensate nella storia umana), è probabilmente una idea-limite, o un’idea-guida (un’utopia concreta à la Bloch), la cui perfetta raggiungibilità non sappiamo neanche se mai sarà possibile ma di cui sappiamo che sicuramente non sarà possibile neanche intravedere una lontana idea di traguardo entro il raggio della nostra singola esistenza. Ciononostante è possibile tenere questa idea come guida di un processo che orientato da essa, consegua una serie di tappe di avvicinamento progressivo che portino dei benefici parziali che ricadano anche sulla singola esistenza e così via di generazione in generazione. Se l’alternativa è tra la cura ottusa della contingenza e la fuga impossibile nell’utopia o la fuga nella credenza su i poteri taumaturgici della rivoluzione, dovremmo procedere verso una utopia da realizzare o seguire attraverso passaggi intermedi ma passaggi che diano senso all’azione trasformatrice e che rappresentino dei guadagni immediatamente spendibili per migliorare il nostro stato di mondo attuale. Il presente si cambia costruendo futuro.

Tutte le mancanze rilevate rispetto al modo trasformativo progressivo e permanente, hanno fatto si che il modo d’intendere la trasformazione radicale in vista di una utopia o meglio, di un radicalmente diverso stato di mondo, sia collassato nel concetto di rivoluzione. L’analisi delle rivoluzioni come compressione storica del mutamento strutturale e sistemico, ci porterebbe via troppo tempo e meriterebbe un saggio a sé. Orientativamente, se sono relativamente improvvise e non conseguono processi di mutamento diffuso e cumulativo nonché di lunga durata, se muovono da reazioni e non sono accompagnate da costruzioni, da un progetto direzionato non solo dalla fuga dall’insopportabile esistente, servono a poco o non servono a niente[19].

Rinominata la Rivoluzione americana per quello che è stata e cioè una guerra d’indipendenza, la Rivoluzione francese ha aperto un processo che però ha portato alla repubblica parlamentare quasi un secolo dopo i suoi rumorosi accadimenti, ammesso che  la repubblica parlamentare fosse l’effettiva destinazione di tutto l’impeto rivoluzionario, cosa su cui si può dubitare. La Rivoluzione russa ha portato ad un sistema che non credo si possa dire conforme alle intenzioni originarie e terminata l’Unione sovietica,  è bastato qualche mese per uniformarsi al modello capitalista con grande ritorno della religione ortodossa come vera identità russa. La Rivoluzione cinese ha cambiato qualcosa di più, visto che si proveniva da una millenaria struttura imperial-confuciana ma anche qui i risultati non sono stati conformi alle intenzioni teoriche ed anche qui, è bastato poco per virare verso il modello capitalista ed un grande ritorno del neo-confucianesimo come vera identità profonda di quella cultura. Stalin si può pensare come uno zar rosso, Mao come un Rosso Imperatore, strutturalmente il cambiamento effettivo è stato inferiore alle attese, più di forma che di sostanza. Nel comunismo marxiano, la rivoluzione, ovvero il cambiamento strutturale collassato in un punto spazio-temporale decisivo, consegue l’idea che tutto il modo di stare la mondo discenda dai rapporti di produzione. E’ ovvio e conseguente quindi ritenere che modificati questi, anche d’imperio, cambi tutto. Ma il tentativo pratico di seguire questa intuizione di una presunta legge socio-storica riduzionista ha dimostrato che tale riduzione è eccessiva e la legge non copre tutti i fenomeni della realtà.  Forse l’unica rivoluzione compiuta è stata quella delle élite inglesi che in due riprese (Guerra civile e Gloriosa rivoluzione), nel XVII° secolo, hanno anteposto alle élite dell’aristocrazia e del clero, quelle della ricchezza che votano i loro rappresentanti in parlamento (in seguito, rinominata “democrazia rappresentativa”). Ma vi furono molte condizioni particolari che hanno congiurato a questo successo, condizioni che limitano il significato di questo successo al particolare, non consentono cioè di ritenere la “rivoluzione” un modello trasformativo di utilità universale. Inoltre, quella francese, quella russa e quella cinese (che comunque ebbe anche caratteri di guerra d’indipendenza saggiamente denominata “lunga” marcia), furono rivoluzioni che ruppero lo stato di cose precedente nella speranza di dar luogo ad un diverso sistema, quella inglese invece, ruppe sì lo stato di cose precedente ma avendo già nei fatti sociali, il nuovo sistema di funzionamento già in atto, la società era già parzialmente innervata da una diffusa e fiorente attività di produzione e scambio. La Gloriosa rivoluzione fu la presa del potere di un sistema che già esisteva nella società e reclamava la funzione istituzionale di governo per alimentare il successo della propria struttura già in atto. Nei fatti iniziali, fu più la sostituzione di una élite con un’altra. Infine, tecnicamente, non fu affatto una “rivoluzione” nel senso popolare del termine ma un colpo di stato elitista con ricorso all’esercito di un re straniero invitato ad invadere l’Inghilterra. Bisogna avere la faccia ben tosta di uno storico whig per chiamare questa una “rivoluzione”, sebbene gli effetti del colpo di stato elitista, furono apparentemente “rivoluzionari”.

Concettualmente, la rivoluzione sembra essere una dinamica adatta ai vertici dei sistemi. Si affermano nuove élite (partito rivoluzionario), nuove classi dominanti (Marx notava –forse con un tratto d’invida– che la borghesia è eminentamente “rivoluzionaria”), nuovi paradigmi (T. Khun), nuovi mezzi di produzione (macchine-industria), singole idee (rivoluzione copernicana). Essendo un mutamento piccolo ma decisivo, perché avviene ai vertici dei sistemi, porta al “cambiamento a strascico (o a “cascata”)”. L’affermazione e continua implementazione di un modo democratico, sostanzialmente non sa che farsene di questa dinamica che per avere efficacia prevede sistemi a struttura gerarchica del cui cuore s’impossessa repentinamente.  La “rivoluzione democratica” della Comune di Parigi (1871), sebbene abbia arricchito la mitologia dell’idea, durò poco più di due mesi prima di esser annegata nel sangue, la democrazia, non s’improvvisa. L’espressione “rivoluzione culturale” è un ibrido interessante. Qui, l’ambito sistemico, la “cultura”, già di per sé determina una cauta aspettativa complessa, nessuno s’immagina di sovvertire un sistema culturale in maniera catastrofica (improvvisamente e totalmente). In questo contesto, “rivoluzione” perde il significato di tempo compresso e mantiene solo quello di riorientamento complessivo. L’implausibilità del concetto di rivoluzione politica per come la si è storicamente intesa sul portato del XIX° secolo, emerge da questa stessa considerazione poiché il politico ha certo in sé una forte componente culturale e se non è possibile modificare le culture catastroficamente non si vede come possa esserlo il “politico”.

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Rimaniamo quindi con la nostra mancanza di una teoria politica del cambiamento strutturale progressivo, con strutture politico-istituzionali delegate alla gestione del contingente, deleghe troppo lunghe per avere significato condiviso e troppo brevi per dirigere processi profondi, con l’evidenza che le trasformazioni significative irreversibili sono rare e molto lente, con la disillusione per le promesse rivoluzionarie che apparentemente muovono tutto ma per non cambiare niente di decisivo e nonostante la rassicurante conformazione “dialettica”, niente di irreversibile. Del resto, anche per cambiare noi stessi, sebbene ogni tanto ci abbandoniamo a fantasie radicali che ci promettono un nuovo noi stessi domattina, ci vogliono decenni. Dimagrire, recuperare tonicità, imparare una lingua, modificare la nostra posizione sociale, l’atteggiamento esistenziale, il giro degli amici, non sono cose difficili in sé, solo, richiedono costanza del medio-periodo se non del lungo. E’ questa costanza che viene tradita sistematicamente dalla nostra volubilità, dal ricatto del contingente, dalla fretta di conseguire risultati immediati anche quando non è possibile.

Il complesso, richiede tempi medio lunghi di trasformazione profonda, semplicemente perché è dotato di tante parti e di ancorpiù interrelazioni che formano ordini e funzioni. C’è una inerzia ed un attrito quantitativo che si oppone alla trasformazione qualitativa.

Oggi, rapiti dal nuovo stato di mondo che impone soggetti macroscopici quali non sono  storicamente gli stati-nazione europei, ci avviamo recalcitranti a forme di unione continentale che ordinate dal sistema rappresentativo, produrranno élite di primo livello che subordineranno quelle nazionali rendendole di secondo livello. Alla luce di questo peggioramento delle condizioni di democrazia, riscopriamo addirittura che il vecchio Stato-nazione era meglio di quanto credessimo opponendo questo alle nuove costruzioni ultra-elitarie delle unioni. L’idea del socialismo, addirittura è fondata sulla necessità dello Stato che dovrebbe svolgere il ruolo di imprenditore – redistributore per cui l’opposizione al progetto imperial-mondialista è diventata la difesa della “sovranità” nazionale. Si ricordi che lo stato-nazione fu una invenzione delle élite monarchiche per accrescere l’income fiscale per pagarsi eserciti con cui giocare al gioco di tutti i giochi per quel tipo di élite: il torneo infinito delle nazioni combattenti.  L’idea che la democrazia ci imporrebbe di riformare i nostri sistemi di vita associata andando esattamente per la strada opposta ovvero riformando comunità di città-regione poi da federarsi in sistemi di sistemi è del tutto ignorata così da continuare a sperperare tempo, parole ed energie nel declamare mondi viepiù improbabili (tipo l’Unione europea democratica) se contenuti dentro strutture che non danno le condizioni di semplice possibilità[20] per il sistema dell’autogoverno detto “democrazia”.

 

Tempo individuale in politica, da troppo a troppo poco

La democrazia rappresentativa, spacca in due l’universo politico degli individui. L’elettore è coinvolto pienamente solo in occasione delle scadenze di voto, l’eletto è un professionista della politica che lo porta a vivere un suo universo particolare, viepiù distante da quello comune. Intorno a gli “eletti” si forma anche una classe di professionisti della politica sebbene non direttamente coinvolta nella gestione della cosa pubblica.

Il coinvolgimento dell’elettore in occasione delle scadenze di voto è parossistica. Persone, di solito, del tutto digiune ed aliene dai temi politici, vengono chiamate ad esprimere la loro delega complessiva (complessivamente inerente un grandissimo numero di cose quasi sempre non esplicitate nel contratto elettorale), in un crescendo di pressione improvvisa. Il meccanismo è quello del puh & pull, tratto come del resto tutto il marketing politico, da quello commerciale visto che la democrazia è oggi intesa come un mercato delle opinioni (vedi Schumpeter) il cui atto d’acquisto è il voto. Il “push” è la spinta, spinta a votare ed a farsi una frettolosa opinione, agita dai mezzi di informazione ed oggi, anche dai social media. Il “pull”, l’attrazione, è data dai vari partiti o candidati che imperversano e strabordano in ogni dove per circa un mese prima del voto. Il tutto basato su strategie fashion-seduttive, quindi non razionali, com’è proprio delle tecniche dell’advertising e del marketing. Le dimensioni degli stati-nazione, impongono macchine elettorali grandi, quindi costi grandi, quindi selezione ab origine di chi può permettersi tale impegnativa sfida. Non è prevista uguaglianza delle opportunità.

Da tempo, nella cosiddette “democrazie occidentali” si registrano ampie e crescenti percentuali di individui che rinunciano al voto, percentuali che, in alcuni casi, vanno ad approssimarsi alla metà degli aventi diritto o a superarla. Ogni volta che si registra una di queste discese nell’esercizio del diritto di voto, che poi dal punto di vista del contratto sociale sarebbe un dovere oltreché un diritto conquistato spesso col sangue, i politici si mostrano preoccupati. Ma invero, è almeno dagli Stati Uniti degli anni ’60 che si è teorizzato e fattivamente messo in pratica, il principio del silenzio – assenso, le maggioranze silenziose. In sincronia, le teorizzazioni sulla democrazia spettatoriale apparvero poco dopo che le élite occidentali avevano dovuto concedere il suffragio universale. La “democrazia di massa” fu una concessione quantitativa ma non appena data, scattò la teorizzazione sull’elitismo qualitativo.  La “democrazia per eccezione”, starebbe  nel conteggiare come soddisfatti dello status quo coloro che non si esprimono, ipotizzando con logica claudicante, che se volessero dissentire lo farebbero votando. Più  cose congiurano invece fattivamente a creare questa distante indifferenza se non rifiuto dei sempre maggiori “non vontanti”.

La prima è data dai sistemi maggioritari di origine anglosassone che formano due schieramenti orientati al potere inteso come stato delle cose, secondo due diverse interpretazioni dove la “diversità” è assai sfumata, ove esiste. Chiaramente, questa impostazione non riflette l’eterogeneità della società sottostante e quindi, la parti senza rappresentanza, si astengono dal voto. Recentemente, anche la politologia accademica anglosassone ha cominciato a guardare criticamente il sistema bi-partitico, ottimo (secondo un punto di vista che premia la stabilità) per le fasi di riproduzione strutturale stabile, molto meno efficiente, quando le società ed i contesti generali hanno torsioni o accelerazioni che chiamerebbero un cambiamento deciso. Di fatto, i sistemi maggioritari bi-partitici, sono tendenzialmente conservatori rispetto alle grandi novità storiche, “resistono” al cambiamento sostanziale, difendono ostinatamente il contingente anche quando si muovono a riformarlo per renderlo “più adatto ai tempi che corrono”. Questa politologia ha, ad esempio, salutato con entusiasmo la comparsa di terzi partiti (quasi sempre “liberali”, esempio Germania, Olanda, Gran Bretagna) proprio perché l’articolazione politica favorirebbe la comparsa di innovazione, ragionamento che in parte porta laddove sono ben salde da sempre le convinzioni dei proporzionalisti[21].  Anche dove non ci sono sistemi rigidamente maggioritari ma sostanzialmente tali (due partiti molto grandi che si alternano al potere), nel tempo, le forze laterali che non arrivano mai al governo conseguono una mentalità di sola opposizione che non sempre merita la mobilitazione del voto ridotto a “testimonianza”.

La seconda ragione del “distacco” dalla fiera del voto, deriva dalla prima. Lungo cicli di gestione del potere senza modifiche apprezzabili, si sedimenta l’impressione tutt’altro che immotivata, che il cambiamento significativo non avverrà mai ed è quindi inutile andare a votare per esso, ancorché spesso non si trovino reali proposte politiche che intercettino questo bisogno di nuovo. Nei sistemi rappresentativi, governi delle forze maggioritarie  tendono a deludere le aspettative, il che unitamente alla longeva occupazione del potere da parte di forze centriste, rilascia la fatale impressione che “tanto non c’è niente da fare”.

La terza ragione, è la somma delle altre e del risultato concreto di questi tipi di governo. Si ha l’impressione che i professionisti della politica, vadano a costituire una élite staccata dalla realtà, che si attacca ai propri privilegi, che non conosca le difficoltà del mondo normale, sviluppando una sorta di metalinguaggio (il politichese) astratto e criptico-repellente. I rappresentanti non rappresentano altri che se stessi al servizio degli interessi politici delle lobbies. L’ansiosa richiesta del voto una volta ogni quattro o cinque anni, porta i politici a ricordarsi che lì fuori c’è un mondo in maniera utilitaria e i giochi pirotecnici con cui cercano di attrarre elettori, risultano quasi un insulto per chi da anni, ha problemi che mai vengono risolti e sa che non verranno risolti neanche questa volta.  Il non voto ha quindi una componente passiva ma anche una attiva nel senso di risposta  negativa alla domanda di partecipazione ad un gioco truccato, inutile, poco interessante per l’elettore-cittadino. Tutto ciò ha agito nel ben noto quadro generale del dominio dell’economico ovvero della società produttivo – consumistica che ha atomizzato e separato gli individui tra loro[22], distruggendone sistematicamente le condizioni di possibilità politiche. L’economico che teorizza la distruzione creatrice della concorrenza esasperata, quando si rivolge al politico, chiede stabilità e premia i monopoli del potere[23] il che indica con chiarezza la dipendenza strutturale che l’economico ha dal politico.

L’elettore o meglio l’individuo politico, è quindi una specie reietta, frustrata e delusa ma, come detto, c’è una precisa ideologia che tende ad allontanare le persone dalla politica. Si comincia dal fatto che -mediamente- le persone non hanno tempo a disposizione per ciò che esula dal lavoro, dalla gestione della quotidianità e ciò che rimane per gli affetti e le cure personali. Su questo si somma il senso di inutilità di questo interesse o addirittura impegno che deriva in parte dai tre punti esaminati, ma per altra parte dal fatto che le democrazie rappresentative ormai sono un potere secondo a quello economico o terzo se si conta a parte quello finanziario o addirittura quarto se, come in Europa, si sommano ambiti istituzionali extra-nazionali, verso i quali non c’è alcun controllo, sebbene influiscano in maniera determinante nella vita politica delle persone. Poco notata è poi una quinta influenza che è l’allineamento geopolitico che molti ritengono inerente la sola politica estera ma che ha fattive ricadute anche su quella interna se non altro nel controllo che viene esercitato in molti modi non evidenti e assai poco pubblici, per garantirsi che l’élite al governo sia “allineata”. L’evidenza per la quale forze misteriose e potentissime di origine finanziaria, bancaria, economica, geopolitica planetaria, governano su élite continentali a loro volta dominanti su élite nazionali il cui peso politico si riduce costantemente, nutre la sfiducia per il voto ad una classe politica tanto incapace, quanto inutile. Manca cioè l’oggetto del contendere, manca propriamente la “contendibilità politica” poiché molti giochi della politica sono riservati a tavoli ad accesso riservato nei privé del potere e vi sono divieti insuperabili ed indiscutibili tanto invisibili quanto determinanti. Avendo sottratto l’oggetto del contendere, il potere di decidere, la contesa elettoral-politica è chiaro sia diventata un beauty-contest.

I media, che raramente sono indipendenti, amplificano la nullità dell’attività politica, non intermediano neanche linguisticamente con fatti o concetti politici che risultano di difficile lettura, risultano schierati a-priori e quindi non si ha mai vera e libera circolazione di idee e di opinioni magari differenti tra loro. I media poi, hanno la loro crisi tra una televisione generalista che riduce l’informazione al minimo salvo esagerare nell’includente dibattito tra presunti specialisti  (il format talk show che costa poco ed occupa molto palinsesto), la carta stampata che è in via di scomparsa e le cui tirature dicono dell’espandersi vertiginoso dell’analfabetismo funzionale ed Internet che poiché offre tutto, in pratica, non dice niente. Il fatto che i media siano tutti imprese commerciali legate al profitto quindi legate al consenso d’acquisto è considerato naturale. Ma così si determina l’infanticidio sistematico di ogni nuova idea che per definizione, quando nasce, nasce piccola. Anche i sistemi rappresentativi a soglia o maggioritari sono settati sulla soppressione del nuovo. Entrambi i sistemi sono conservatori, amplificano solo ciò che è già grande sopprimendo il piccolo. I social media hanno una struttura di feedback positivo, chiudono cioè cerchie che si auto confermano nella credenza di questa o quella dottrina e dato lo scarso interesse ed impegno politico, in realtà esaltano la coltivazione degli interessi ed hobby tra i più disparati e di nicchia. Mancando la piazza, il luogo fisico in cui tutta la città si ritrova  a prescindere dal genere, anagrafe, classe sociale, ognuno si chiude nella cerchia delle identità  particolari da cui la complessità plurale della realtà e della necessaria politica che dovrebbe affrontarla, è esclusa in via di principio. La privatizzazione di tutto, dalle scuole a gli ospedali, si muove sulla stessa logica castale per cui i simili debbono stare coi simili e l’esposizione al contatto con il differente diventa impossibile ed indesiderato.  A tutto ciò si aggiunge la disgrazia del postmoderno, del liquidismo, dell’edonismo consumista, del partito packaging, della mitologia del leader carismatico weberiano (bisognerebbe rileggersi Max Weber per capire come certe sue teorizzazioni descrittive siano poi diventate prescrittive).

La distruzione dei partiti di massa, gli unici ambiti se non di pratica democratica almeno di incontro, scambio di idee, formazione alla pratica politica (discorso, argomentazione, dibattito), presenza sul territorio, rapporto con la cittadinanza, cinghia di espressione e di trasmissione coi leader, ha definitivamente raso al suolo ogni presupposto di rapporto tra politica ed individui. In effetti, si è compiuta una decennale, silenziosa e metodica distruzione del politico e di quella vaga democrazia che prometteva l’ambiguo  sistema rappresentativo, in favore delle élite dalle mani libere e del subordine del politico all’economico-finanziario. Letto come sistema, il sistema politico è diventato alieno, indecrittabile, indesiderato, poco attraente, socialmente non gratificante, composto da individualità poco stimabili, quasi superfluo. Nello spettro delle nuove idee, si presentano addirittura posizioni anarco-capitalistiche (il libertarismo à la Rothbard) che teorizzano il dissolvimento dello Stato in favore del Mercato, posizione in sé priva di senso e di conoscenza della struttura profonda che sostiene il “sistema” capitalistico ma che svolge bene la funzione di indebolire ulteriormente il politico nel sistema delle idee. Laddove si dimostra che mentre il popolo vagheggia inconcludenti rivoluzioni, il potere dei Pochi conosce molto bene la legge delle trasformazioni progressive e la legge della rana bollita[24], poiché tutto ciò non è accaduto per un genetico destino degenerativo endogeno ma per una chiara intenzione di sollevare i ponti della cittadella dei poteri.

I principi fondativi della democrazia ovvero la brevità delle cariche di governo per non sedimentare poteri personali distorsivi del funzionamento politico, lo scambio continuo tra ambito politico e civile per portare le questioni dell’uno nell’altro e tenere così il politico ben al servizio del civile ed il civile consapevole della complessità del politico, il tempo per la conoscenza, l’informazione e soprattutto la discussione, la frequenza estesa del voto, sono tutti decisamente e sembra quasi programmaticamente, contraddetti dalle forme che ci ostiniamo a chiamare “democratiche”. Il tempo politico è massimo nei Pochi ed è minimo nei Molti, questa è la condizione strutturale per la democrazia delle élite, la  natura dei nostri sistemi politici che si basano su un ossimoro ovvero nominare un sistema strutturalmente oligarchico con il termine democrazia. Questa apparentemente innocua discrasia tra la parola e la cosa, in realtà è un potente anestetico delle coscienze individuali che si convincono di vivere in un universo immaginato che si sovrappone, celandolo, a quello ben meno rassicurante della concreta realtà. Il re può ben girare nudo per la città, ricevendo commenti ed apprezzamenti da parte di un popolo che non crede più a quello che pur vede mentre coloro che non si raccapezzano più in questa contraddizione, volgono la testa dall’altra parte per ridurre la dissonanza cognitiva.

 

La democrazia e il tempo

Con democrazia intendiamo l’autogoverno quanto più diretto possibile degli individui associati. Volendo abbandonarci ad una analogia, la democrazia è lo stato adulto della società, passato lo stadio in cui la società bambina è stata governata da un ristretto gruppo di adulti simile alla famiglia e la società infantile è stata governata da uno solo anzi da una sola, la mamma (il padre nell’inversione che ne fece la tradizione indoeuropea)[25]. Ma così come per essere adulti dobbiamo raggiungere diverse facoltà di autonomia, soprattutto mentali, per avere democrazia prima ancora di dilettarci ad esaminare schemi, forme e condizioni giuridico – istituzionali, occorre avere democratici non meno che per avere la Chiesa romana si ebbero prima cristiani e prima dell’islam si ebbero musulmani e prima del capitalismo si ebbero i possessori di capitale. Le parti, ontologicamente, anticipano il sistema come gli ingredienti la torta. Certo, quando i possessori di capitale, raggiunsero un potere governante quale il sistema rappresentativo inglese del XVIII° secolo, o quando i musulmani raggiunsero califfato  o i cristiani il sistema della Chiesa romana, del papato e dello Stato Pontificio, l’intero loro sistema diventò un organismo e funzionando in maniera circolare con anelli di retroazione potenzianti, crebbe, si assestò e mostrò una forza “maggiore della somma delle parti”. Ma -di base- se non si inizia dagli individui, poiché sono gli individui la materia prima di ogni costruzione sociale, non si fa niente che funzioni o stia in piedi con le proprie gambe e resista a gli attacchi distruttivi che fanno da levatrice ad ogni fenomeno sociale. L’edificazione del comunismo prima di avere una congrua massa critica di comunisti in Russia testimonia del fallimento dell’idea contraria. L’intera teoria politica occidentale, ha ecceduto nella attenzione alle forme sistemiche quasi che queste siano le formine per stampare le individualità politiche quando il sistema è solo una macchina semmai per riprodurli e porli –appunto- a “sistema”. Questa dimenticanza della dipendenza dalla “materia prima” è la stessa delle teorie dal capitalismo che eccedono in strutturalismi che rendono ciechi del fatto che senza la materie coloniali la Rivoluzione industriale non avrebbe avuto ciò su cui esercitarsi. Va bene il genio inventivo, il proletariato, il capitale, l’intraprendenza, le macchine, il credito bancario e financo il capitale finanziario ma prima che tutto ciò abbia senso ci vuole una cosa semplice -il cotone- ed il cotone non cresce in Inghilterra.

Nella condizione attuale, l’individuo democratico manca del tempo essendo questo denaro ed essendo il denaro l’unità energetica della società, esso viene investito appunto per procurarsi denaro. Non c’è tempo per conoscere, non c’è molto tempo e molta offerta per l’informazione di qualità, ci sono invece molte distrazioni e molte pulsioni ad evadere dalla realtà (procurarsi denaro) che prosciuga la gran parte delle energie psichiche ed anche fisiche degli individui. Non solo non c’è tempo, ma non c’è nemmeno modo e luogo per dibattere. Si assiste al dibattito altrui, dibattiti condizionati dalla grammatica del mezzo televisivo che quanto a tempi non è sede naturale dello sviluppo di un discorso logico – critico – argomentativo, si assiste al dibattito di prescelti (opinion leader decretati da chi?)  per farsi un’opinione ma così come non s’impara una lingua senza mai provare a parlarla, non  è assistendo passivi alla passerella delle opinioni convulse di questo o quel opinion leader che si forma un pensiero proprietario ben fondato sulla competenza logico-linguistica. Non c’è modo di catturare il complesso col pensiero perché non c’è tempo di studiarlo e di parlarlo ma anche e soprattutto perché la divisione del lavoro ha invaso anche l’intelletto e la società dell’educazione per cui abbiamo specialisti per tutto ma nessun generalista, si analizzano parti ma non il sistema che è il risultato dell’interrelazione tra le parti.  Scatta qui la prima applicazione fondamentale del principio di delega, pochi sanno ed i molti possono al massimo scegliere da quale di loro farsi passivamente rappresentare nel dibattito delle idee[26]. Il motto kantiano che fa da esergo a questo diario di ricerca “Abbi il coraggio di servirti della tua propria intelligenza” è l’esatto contrario di questa coltivazione della passività spettatoriale intellettiva che è l’essenza della gerarchia in base alla quale, da sempre, i Pochi dominano i Molti.

La democrazia rettamente intesa, ha la natura di un’idea limite, di un punto messo su un orizzonte che si sposta allontanandosi, tanto più ci avviciniamo. Tale natura quindi, usa il tempo progressivo, un percorso lungo nel quale vi sono molte stazioni intermedie, in cui come nelle scalate alpine, in ogni momento possiamo deluderci nel constatare quanto ancora ci manca ma in cui possiamo anche rincuorarci guardando indietro a quanta strada si è fatta. Un percorso in cui ogni stazione intermedia ha l’aria progressivamente più frizzantina e da cui l’orizzonte diventa viepiù ampio e chiaro. Tra democrazia e rivoluzione non vi è quindi alcun rapporto funzionale, l’eventuale concetto “rivoluzione democratica” può essere inteso solo come slogan nella battaglia delle idee. Potrebbe sempre accadere che nella concreta pratica sociale e politica, si verifichino momenti in cui occorre passare dalla relazione dialogante costruttiva all’azione brusca ma non sono queste le corde, i moschettoni ed i rampini che aiutano la nostra scalata. O meglio, si può e probabilmente si deve prevedere che azioni politiche di massa, pressioni forti, azioni diffuse, disobbedienze ferme, entrino a far parte di un movimento democratico ma sono da intendersi solo come strumenti di lotta politica contro gli anti-democratici e non è solo da questo confronto agonistico che sorge un percorso costruttivo di democrazia reale. L’importante è che quando c’è il corretto confronto democratico, i veri democratici siano di più (parecchio di più) dei confusi e dei falsi democratici.

La “lunga marcia democratica”, dovrebbe articolarsi nel raggiungimento di una serie di concreti obiettivi di progressiva democratizzazione. Il decalogo è semplice: 1) democratizzare costantemente l’istruzione e la formazione; 2) l’informazione; 3) creare occasioni e forme di partecipazione; 4) difendere il primato politico dall’economico ed ancorpiù dal finanziario, 5) difendere la possibilità strutturale di avere autonomia all’interno del contesto istituzionale dato (Stato, federazione, unione, confederazione); 6) ridurre costantemente i divari e le asimmetrie di conoscenza, possibilità, competenza politica, reddito e capitale; 7) liberare tempo per la sviluppo dell’aristotelico zoon politikon (che forse era protagoreo); 8) difendere le differenze di anagrafe, genere, etnia ma combattendo strenuamente la tendenza a comporle in gerarchie dominanti; 9) non smettere mai di cercare, ricercare, sperimentare nuove forme di funzionamento politico  democratico; 10) far retroagire costantemente i parziali risultati ottenuti modificando in base all’esperienza, la strategia in vigore precedentemente. Il tutto affiancato da una vigorosa ripresa dell’interrogazione teorica.  La “lunga marcia democratica” che poi dovrebbe essere una staffetta tra più generazioni, dovrebbe usare movimenti, associazioni ed eventualmente partiti per formare democratici e per implementare costantemente la propria democrazia interna. Questi universi minori, dovrebbero servire proprio come laboratorio democratico prima ancora di lanciare idee e proposte al loro esterno. L’azione politica democratica dovrebbe avere in oggetto sia il mondo politico – sociale – istituzionale (economico e culturale), sia i singoli individui della società intera e dei sottosistemi in cui è strutturata. In linea generale, l’obiettivo dovrebbe esser quello di ripristinare il dominio progressivo del politico su ogni altri ordine (economico, militare, religioso, culturale), del modo democratico su quello oligarchico o monarchico, la democrazia reale cioè inintermediata (diretta) su quella rappresentativa e comunque, fintanto questa in vigore, portarla su standard proporzionali coadiuvati dal ricorso all’espressione diretta (referendum propositivi ed abrogativi, iniziative di legge popolare etc.), ad elezioni frequenti, al mandato di rappresentanza vincolata, alla osmosi tra professionisti della politica e non, al più breve rapporto tra territorio e sistema generale (Stato, federazione). Ma si tenga sempre in conto che sebbene molto importate l’innovazione e la conformazione istituzionale in direzione della democrazia progressiva, sempre più importante sarà la costruzione e diffusione dei democratici. Quanti più numerosi, convinti e strutturati questi, tanto meno difficile sarà conseguire gli obiettivi politici che oggi possono sembrare utopici, tanto più le conquiste di percorso saranno irreversibili e potranno quindi cumularsi.

Arriviamo così all’ultimo punto che è poi è stato il primo che abbiamo analizzato, il rapporto tra pensiero politico e tempo, declinato sul caso di un progetto democratico.  Poco o nulla della nostra tradizione di filosofia politica e molto poco della nostra stessa essenza culturale, va in favore della democrazia. Soprattutto, la democrazia, risulta un modo politico assai scarsamente frequentato (mancanza di esperienza e registro storico) ed assai poco teorizzato. In più, la nostra tradizione di pensiero, riguardo i tempi dei progetti trasformativi è in un certo senso, ancora infantile. Infine, la democrazia è  naturale nei piccoli gruppi ma molto difficile da mantenere nei sistemi complessi umani. L’idea di porsi obiettivi limite da conseguire con la declinazione di una non dogmatica strategia ampia, passibile di continui aggiustamenti se non reindirizzamenti in base ai feedback ottenuti dalla pratica trasformativa, ben condivisa e partecipata (quindi essa stessa democratica), paziente nel conseguire obiettivi progressivi lungo assi di tempo che esuberano anche dalla lunghezza della singola vita media, può essere considerata una utopia in sé. In effetti, non abbiamo poi così bisogno dei “menù per le osterie del futuro”, di utopie che descrivano la proiezione dei nostri individuali interessi e desideri particolari sulla totalità. Quello di cui abbiamo più bisogno è di una procedura trasformativa e la democrazia reale è l’unica che utilizza tutti coloro che dovrebbero al contempo esser soggetti ed oggetti della pratica trasformativa, l’unica forma che crea l’autogoverno in base all’autocoscienza del sistema sociale che pensa ed agisce come un Uno che è tanto singolare quanto plurale, individuale e collettivo.

Il primo passo per un rilancio democratico consapevole dei rapporti strutturali tra tempo e politica, allora, sarà partire proprio da qui, dal lavoro teorico poiché ciò che non è abbastanza chiaro nelle menti, mai lo sarà nelle prassi.

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Note
[1] Il sistema politico oggi in vigore nell’occidente, assomiglia più a quella  costituzione mista che aveva promosso Polibio e che è stata riproposta in teoria nell’Umanesimo rinascimentale ed in pratica, nel periodo moderno. Nei fatti, figure come il presidente americano o francese ed in tono minore, primi ministri, cancellieri e presidenti del consiglio, svolgono la funzione dell’Uno. Classe politica professionale, lobby economiche e finanziarie, corpi burocratici dello Stato, svolgono la funzione dei Pochi. L’Uno ed i Pochi, vanno dai Molti una volta ogni quattro – cinque anni a chiedere l’investitura formale in base ad una delega dai contenuti approssimativi e capacità di giudicarli ancor più vaghe.
[2] E. Berti, Sumphilosophein, Laterza, Roma-Bari, 2010
[3] Questa asimmetria è scarsamente considerata. Non solo l’intera tradizione classica si basa su pensatori se non apertamente anti-democratici (Platone), quantomeno assai critici e terrorizzati dalle forme degenerate (demagogia), ma questi stessi –ci riferiamo a Platone ed Aristotele-  sono le due forme di immagine di mondo filosofica più importante nella tradizione occidentale. Poiché le immagini di mondo sono sistemi, se la parte etico – politica esprime questi valori e giudizi, si deve conseguire che l’intero impianto di pensiero è orientato in senso diverso a quello democratico. Quando -con solida e logica ragione- H. Kelsen dice “Perciò il relativismo è quella concezione del mondo che l’idea democratica suppone” (H. Kelsen, Essenza e valore della democrazia, in La democrazia, il Mulino, Bologna, 1981), poiché in essenza l’opera di Platone (ma anche quella di Aristotele) rappresenta il più sistematico tentativo di distruzione del relativismo sofistico, si dovrebbe conseguire che l’essenza anti-relativistica della filosofia occidentale è anche anti-democratica. Gli strati romani e medioevali certo non hanno invertito questa impostazione, né quelli liberali anglosassoni, né quelli idealistici tedeschi. La democrazia è un sistema ampiamente estraneo alla riflessione filosofica occidentale, è un sistema che pensiamo di conoscere molto bene ma che in realtà non conosciamo affatto.
[4] Il Principe  è del 1513, l’Utopia di More del 1516. La Città del Sole di Campanella, invece, è del 1602
[5] Tratti o forme propriamente utopiche, si trovano anche negli stoici, in Evemero e Iambulo, in Gioacchino da Fiore.
[6] Poscritto alla seconda edizione del Capitale.
[7] I rapporti tra idea e realtà e più in generale la migliore descrizione del metodo marxiano sono riportati sempre nel Poscritto alla seconda edizione del Capitale come analisi effettuata da una rivista russa (Viestnik Evropy di Pietroburgo) da cui Marx conclude con la famosa rovesciata della dialettica hegeliana il cui nocciolo razionale è liberato dal guscio mistico.
[8] E. Bloch, Il principio speranza, Garzanti, Milano, 2005. Sul pensiero utopico, imprescindibili sono le pagine riservate da Bloch nel suo opus magnum, alle utopie sociali nel celebre 360 capitolo. Vale anche la pena E. Bloch, Spirito dell’utopia, Rizzoli, Milano, 2009. Si aggiunga quantomeno K. Mannhein, Ideologia ed utopia, Il Mulino, Bologna, 1999; L. Mumford, Storia dell’utopia, Donzelli, Roma, 2008 e per giungere più ai nostri tempi il F. Jameson  Il desiderio chiamato utopia, Feltrinelli, Milano, 2007. Nel suo opus magnum, Bloch conclude il 36° capitolo con l’identificazione del marxismo come utopia concreta (e di nuovo nel 55°). Bloch ha correttamente individuato il problema di dare processo all’utopia, cioè realismo all’idealismo, ma nel celebrare questo avanzamento con le lodi al marxismo, ha probabilmente ecceduto nell’esercitare la sua spinta alla speranza. Dovremo ripartire da quel punto, dal punto in cui Marx stesso, nella Seconda tesi su Feuerbach ci dice che ciò che il pensiero non consegue dei suoi obiettivi concreti, va ripensato (non negli obiettivi ma nel come si è pensato di conseguirli).
[9] La lacuna descrittiva del futuro in Marx, da lui non era ovviamente ritenuta tale. Nel riduzionismo strutturalista di Marx, l’essenziale era la modificazione strutturale, tutto il resto sarebbe disceso di conseguenza.
[10] Le origini di questa interpretazione del totalitarismo e la nozione stessa di totalitarismo, vengono in genere addebitate ad H. Arendt, Le origini del totalitarismo, Einaudi, Torino, 2004. Giustificare o meno la definizione di totalitarismo per le tirannie nelle società di massa moderne, ci porterebbe lontano, segnalo solo che l’assunzione di totalitarismo a categoria assoluta è forse più dovuta alla scelta dell’editore americano di dare questo titolo all’opera che l’Autrice aveva titolato “Il fardello del nostro tempo”, che dell’uso forse più relativo che ne fa l’Autrice nel testo. Sicuramente però, l’idea che i totalitarismi siano discesi dalle ideologie, non è lo specifico della opera della Arendt che fa una analisi più complessa. Veloce riprova ne è l’esclusione che fa la Arendt del fascismo e del comunismo cinese dalla categoria, pur discendendo da ideologie identiche a quelle naziste – comuniste staliniane. Per altro, né l’Unione sovietica prima di Stalin, né quella dopo Stalin, secondo Arendt, sarebbero ascrivibili alla categoria, per cui si tratta di due fenomeni specifici connessi ad Hitler e Stalin. Il riduzionismo del totalitarismo come conseguenza necessaria dell’ideologia è più figlio dell’ideologia liberale che ha visto nell’economico (nel mercato) e non nel politico, l’unico modo valido di strutturare la società.
[11] I concetto di ideologia è controverso. Noi intendiamo il termine, semplicemente come discorso su-da l’idea ovvero un sistema di idee interconnesse che viene usato per interpretare il mondo ed ordinare l’azione che in esso vi si conduce. Secondo questa definizione, il concetto non ha alcuna negatività intrinseca ed anzi, lo si ritiene un fatto naturale della mente umana individuale e sociale. Quella della “fine delle ideologie” è una ideologia auto-falsificante ma falsificata anche dall’evidente presenza di molte altre ideologie come la credenza negli assoluti poteri ordinativi del mercato, l’ecologismo, il nazionalismo, il darwinismo, l’individualismo, il tecnicismo e lo scientismo e molte altre, incluse quelle politiche classiche di destra e sinistra, e quelle religiose. Che esistano sistemi di idee “scientifiche” e non ideologiche, qualora non si stia parlando di scienze dure, è anch’essa una ideologia.
[12] I rapporti tra l’indomabile ricerca di un modo diverso di stare al mondo e l’opera del tedesco sono ancora vincolati. Marx lo si è difeso ad oltranza, quando non si è potuto più far finta di non aver visto il fallimento del comunismo realizzato, si è cercato di operare uno scorporo tra il pensiero marxiano e la “degenerazione” marxista. Marx sarà restituito alla sua più nobile funzione di antenato nobile della famiglia degli emancipatori umani quando capiremo di lasciarlo intatto per quello che ha pensato e scritto e semplicemente “salire sulle sue spalle” per guardare oltre.
[13] Costante dell’idealismo utopico è infatti il sistema chiuso. Dalle isole che sono le location privilegiate di tutte le utopie letterarie, all’aperta teorizzazione de “Lo stato commerciale chiuso” di Fichte (1800) alle contemporanee constatazioni di quanto la globalizzazione limiti l’autonomia stato-nazionale. Del resto, l’intuizione, riscontra quanto poi si è scoperto nell’origine delle specie di Darwin: le nuove specie nascono e crescono solo in territori isolati o separati (si veda il concetto di “speciazione” in E. Mayr). La questione del “socialismo in un paese solo” fa parte di questo antico dilemma dell’irriformabilità dei sistemi locali quando questi sono tra loro allacciati in un sistema generale. In economia, è il noto problema tra apertura o chiusura delle frontiere. In psicologia umana la differenza tra una lunga e lenta terapia psicoanalitica mentre si continua la vita sociale o l’eremitaggio. In complessità, la differenza tra sistema chiuso e sistema aperto. In realtà, i sistemi chiusi sono un’astrazione della termodinamica mentre non esistono per definizione, sistemi completamente aperti. La stessa ontologia sistemica prevede di necessità una qualche differenza tra il dentro ed il fuori di un sistema, altrimenti non si avrebbe un “sistema”. Si tratta solo di definire quanto il sistema sarà o dovrà essere chiuso o aperto, quando, come e rispetto a cosa.
[14] Il famoso vincolo di mandato è giudicato irrealistico ma è da intendersi tale solo nel più complessivo sistema politico della democrazia rappresentativa. Quando si critica l’assenza di vincolo di mandato, lo si fa alla luce di un principio per il quale la sovranità scivola dall’individuo delegante al delegato o meglio da molti individui deleganti ad un solo delegato. Vorrei però segnalare un altro aspetto del problema che è forse ancora più importante. Se non ci si obbliga ad avere cittadini conoscenti  ed informati al punto da dare un mandato di rappresentanza vincolata, implicitamente si ammette che il cittadino non sa della cosa politica se non in un senso molto vago. Tutto il problema della democrazia, risiede a mio avviso in questo punto: non solo debbono porsi forme che diano all’individuo il potere di decisione sovrana ma si debbono soprattutto porre condizioni perché l’individuo sia in grado di partecipare alla sovranità politica. Se i cittadini fossero veramente in grado di partecipare con scienza e coscienza alla gestione politica della propria comunità, le forme pratiche della delega o dell’espressione diretta diverrebbero quello che dovrebbero essere, aspetti tecnici e funzionali. Il problema non è in questa o quella forma costituzionale, funzionale o processuale ma nella perdita di politicità degli individui, gli individui non sanno di ciò che è la comunità, dei suoi problemi, delle conseguenze di questa o quella scelta. Tutta la riflessione filosofica e politica, critica sulla democrazia, verte su questo punto: i Molti non sanno, non sono in grado. Questa critica nella quale ci sono sicuramente delle furbizie utilitarie, va però anche presa sul serio perché, per buona parte, il problema è proprio lì. Ma tale problema non è una definitiva condanna, non è legge di natura. La prima cosa che dovrebbe affrontare il pensiero democratico è proprio come affrontare questo problema.  Data una buona diffusione in quantità e qualità dei contenuti e della capacità di giudizio, il dibattito sulle forme e financo sulla leadership avrebbe caratteri più funzionalistici.
[15] Laddove esistenti sistemi bicamerali si sarebbe in teoria potuto dare una camera al breve periodo ed una al lungo ma i sistemi sono stati pensati in un periodo che non prevedeva il suo stesso trapasso ad altro. Il bicameralismo nasce in Inghilterra con l’impianto del potere parlamentare diviso in due classi, quella aristocratiche e quelle borghesi.
[16] Convinzione dei poteri generativi della dialettica hegeliana, convinzione mal risposta.
[17] Occorre ammettere che spesso, le opposizioni, speculano sulla stessa ignoranza politica su cui prosperano le élite dominanti. Demagogia e populismo (termine sdrucciolevole) ne sono figlie.
[18] Una trasformazione sociale è irreversibile solo quando i contenuti culturali della precedente non sono più mentalmente rappresentati e rappresentabili nella mentalità della popolazione e nello stato concreto della società.
[19] Il giudizio è senza sfumature se consideriamo gli obiettivi dati. Certo, ogni rivoluzione porta un qualche grado di emancipazione relativa, consegue qualche obiettivo sebbene poi perda momentaneamente la posizione ottenuta, “segna” la storia di un dato popolo e scrive esperienze irreversibili ma noi qui stiamo cercando una dinamica trasformativa che abbia relativo successo, non la gloria di una partita ben giocata ma infine persa, del passo avanti pagato con due indietro.
Mumford (Storia dell’utopia) nota che due terzi delle utopie scritte si concentrano nel XIX° secolo, secolo in cui si condensa anche il concetto di rivoluzione. Il XIX° fu il secolo in cui capimmo che il mondo era trasformabile. Ma così come le utopie del tempo furono quasi tutte basate su mezzi, nel senso che riflettendo la grande esplosione tecnico-scientifica ed economica si volsero all’immaginazione strumentalista, così la “rivoluzione” venne immaginata essere lo strumento per cambiare. In metafora, così come la pressione del vapore azionava la ruota che compiva il lavoro trasformativo, così l’energia sociale avrebbe mosso le ruote della storia trasformando il mondo ed il nostro modo di viverlo. La rivoluzione par exellence del tempo, fu la “Rivoluzione industriale” ma oggi sappiamo che per arrivare a quel culmine si partì molto tempo prima. Lo storico olandese Jan de Vries ha coniato a proposito l’influente  concetto di “Rivoluzione industriosa” che datò a più due secoli prima di quella industriale. Anche la cosiddetta “Rivoluzione agricola” (V. G. Childe, archeologo marxista), abbiamo poi scoperto che fu una lentissima trasformazione che durò addirittura millenni. Ancora una volta, il movimento storico sembra esser soggetto alla “longue dureè” di braudeliana memoria.
[20] Questo del pensare a riformare poleis sebbene poi intelaiate in federazioni plurilivello è ritenuta una “utopia”. Così, si accetta di giocare dentro i tavoli ed i regolamenti di “più democrazia per l’Europa” o in quell’altro non meno surreale del “torniamo allo stato-nazione democratico (?)”. Ma cercare di fare democrazia entro entità di milioni, decine o addirittura centinaia di milioni di individui associati con i sistemi rappresentativi è come pretendere che un elefante diventi sinuoso come un’anguilla, logica surreale che però pensa di sé di essere il massimo del realismo. Surrealismo cubista (cioè al cubo). Non vorremmo scomodare Aristotele ma se la forma non è da sola la sostanza quantomeno ne limita di parecchio le condizioni di possibilità.
[21] La Gran Bretagna, patria del bipolarismo, ha oggi una diffusa varietà di partiti. Gli USA, hanno nella presente campagna presidenziale, almeno quattro candidati (due per partito) che potrebbero rappresentare altrettanti partiti. La Francia ha almeno tre/quattro forze nazionali, anche l’Italia ed anche la Spagna. Il paradosso dei sistemi bipolari è che stante che la società è ripartita in almeno tre se non quattro parti (ma spesso anche di più), porteranno al governo una minoranza. Se poi si considera che i votanti sono sempre di meno, si arriva all’assurdo di sistemi che si definiscono maggioritari quando portano al potere frazioni assolutamente minoritarie. Da cui la crisi della rappresentanza. Non ci vuole un genio del costituzionalismo per capire che anche seguendo il solo lessico, la rappresentanza fa naturale rima con proporzionalità. Si noti come il mainstream commenti positivamente terze forze quando, come nel caso dei partiti “liberali”, incarnano istanze di riforma della società per meglio accordarla al mercato mentre quando spuntano fuori fenomeni come AfD tedesca o UKIP britannico o Fn francese o M5s italiano o Podemos spagnolo, allora scatti l’infamante categoria del “populismo”.
[22]L’isolamento è quel vicolo cieco in cui gli uomini si trovano spinti quando viene distrutta la sfera politica della loro vita, la sfera in cui essi operano insieme nel perseguimento di un interesse comune”, H. Arendt, Le origini del totalitarismo, op. cit.
[23] In effetti, l’unica cura contro la stasi politica sarebbe la competizione ma i sistemi maggioritari sono la negazione della competizione aperta.
[24] Se mettete una rana nell’acqua di una pentola sul fuoco, quando la rana percepirà l’eccesivo calore e proverà a saltar fuori non vi riuscirà perché i muscoli sono già in parte bolliti. Noi ci abituiamo ad ogni progressione e quando ci accorgiamo di abitudine in abitudine siamo giunti a condizioni indesiderate, s’è fatto tardi ed al pensiero (saltiamo presto fuori dalla pentola) non può più conseguire azione alcuna.
[25] L’utopia socio-religiosa di Gioacchino da Fiore (circa 1200), ugualmente pensava ad una prima età del Padre, una seconda età del Figlio ed una terza dello Spirito Santo, secondo Bloch una “democrazia mistica, senza signori né chiesa” (Il principio speranza, op. cit. p. 584).
[26] Questa democrazia spettatoriale è incredibilmente addirittura teorizzata da una non meno incredibile sequenza di teorici: gli elitisti, Max Weber, i democratici di ispirazione cristiana, A. Schumpeter e la vasta congerie di “liberali” che spadroneggiano nell’accademia soprattutto anglosassone, che poi è quella di riferimento per i giochi che contano.

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