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Cultura e politica a Roma nell’epoca della crisi

Franco Piperno

1. Note per una fenomenologia del movimento dei valori d’uso.

Qui usiamo i due termini, cultura e politica, nel loro etimo autentico, secondo il quale politica è l’autogoverno della città e cultura è il senso comune che abita i luoghi dove si svolge la vita urbana. Così è il luogo che diviene protagonista e non il generico soggetto “partito” sia esso rivoluzionario o riformista. Cultura è, quindi, la totalità delle informazioni che si possiedono sulle consuetudini, i costumi, le illusioni cognitive, che accomunano, appunto, il luogo. Insomma, cultura è il legame sociale simbolico, il «genius loci» prodotto e riprodotto dal luogo.

Si vede, quindi, che, nel rapporto politica-cultura, è la prima, cioè la forma della partecipazione all’autogoverno ovvero la potenza cooperativa presente a se stessa, il vero termine dinamico, la sorgente della seconda.

Detto rozzamente, è la politica che trasforma la cultura, il senso civico, e non viceversa. Il punto di vista che qui assumiamo è il “presente largo” delimitato dalle esperienze politiche, dall’orizzonte nel quale hanno agito, negli ultimi anni, alcuni centri sociali, in particolare Action e Esc. Scegliamo questo punto di vista perché queste esperienze hanno una natura creativa; si tratta cioè di comunità che non si sono limitate a rivendicare diritti, ma hanno esercitato la facoltà di abitare e, rispettivamente, di autoformarsi.

Si sono, in questo modo, appropriate di una comune ricchezza già disponibile ma non usata e così facendo hanno creato valori d’uso, certo fuori mercato, inteso come scambio di equivalenti, ma ben dentro lo scambio sociale totale. Si badi: non si tratta di comunità “coatte” come la fabbrica o “naturali” come la famiglia. Siamo in presenza di comunità “elettive”, che vivono, almeno parzialmente, secondo quell’etica, quei comportamenti, quelle passioni, quei pregiudizi che si sono, più o meno consapevolmente, dati o da cui sono stati inconsapevolmente scelti. Ciò che più differenzia queste comunità da quelle ideologiche degli anni ‘70, è, giustamente, il rapporto con il presente: queste trovano nel vivere quotidiano le ragioni della relazione comunitaria, mentre quelle erano ingessate nel tempo lineare, possedevano un sentimento del tempo saturo di futuro, dominato dall’attesa - sicché avvertivano furiosamente il disagio del presente, mancante, incompiuto, in breve una realtà da negare - erano quindi più formidabili sette “avventiste” che «comunità di presenza». Per sottolineare la diversità basterà qui ricordare la concezione della vita interiore, del piacere, quale matura attraverso la dolorosa ed intensa familiarità con la droga: l’attitudine ostile a questo proposito dei militanti della sinistra extra parlamentare si contrappone a quella aura di palese attrazione nella quale sono immersi la gran parte dei centri sociali.

Altrimenti detto: i gruppi extraparlamentari si concepivano come strumenti del fine rivoluzionario, mentre i centri sociali si presentano come fine e mezzo ad un tempo: divengono ciò che sono. Per rendere con delle immagini l’incommensurabilità tra la questione politica posta dai gruppi negli anni ‘70 e quella che oggi fronteggiano i centri sociali, possiamo dire che mentre nel secolo scorso la parola d’ordine era: «Prendere il Potere», oggi lo slogan più appropriato suona: «Riprendiamoci la Città»; ovvero, come fondare una città che esemplifichi e rende percepibile, dal comune sentire, un modo di vivere comunista, anti-ugualitario, da «individuo sociale» secondo la regola che vuole: da ciascuno secondo le sue capacità a ciascuno secondo le sue passioni.


2. Il destino di DINAMO


Al giornale DINAMO toccherebbe adeguarsi a questo grado di complessità; il che vuol dire, innanzitutto, portare la notizia, render noto o meglio ancora raccontare al senso comune l’esistenza di una prassi comunitaria consolidata, ovvero la realtà delle comunità elettive, e questo non per far proseliti, ma piuttosto per innescare quel processo imitativo che potrebbe comportare un passaggio sociale dalla potenza all’atto, un emergere di quelle, assai numerose, comunità elettive che menano una vita potenziale solo perché la coscienza collettiva non è adeguata alla loro stessa prassi.

DINAMO sarebbe bene avesse una natura più teatrale che cartacea-televisiva, in grado di rendere gli slogan autentici telegrammi di teoria; e tradurre in immagine le parole chiavi dell’etica comunista.

L’interlocutore di DINAMO è piuttosto un lettore collettivo, come il capannello che legge un giornale murale, anziché una fruizione solitaria del lettore consumatore. Del resto, a ben vedere, potrebbe certo concepirsi un giornale che qualche volta sostituisce l’edizione cartacea con un gesto teatrale, recitando per strada; operando, quindi, uno straniamento nelle spettrali periferie di Roma - straniamento che può indurre quel ritorno a “se stessi”, il rovesciamento dell’anomia accidiosa in un’attività di cura per il luogo.

In questo modo, il giornale, la redazione, i collaboratori, diverrebbero un laboratorio di pensiero politico nel corso del suo farsi; ed insieme una cassa di risonanza di quel che avviene nei luoghi; luoghi concepiti nella lunga durata come serbatoi di informazioni e saperi sociali. Un buon esempio, a proposito, è costituito dal tema della “storia subalterna”; intendo la storia dei «Rioni» di Roma. Ricostruire la storia dal punto di vista del Rione è un modo di riattivare la memoria comune, senza la quale il presente diviene un punto e implode nel “subito” - sicché, come nelle allucinazioni, si può in buona fede credere che tutto abbia avuto inizio con gli scontri di Genova del 2001.

Il giornale-laboratorio dovrebbe poi essere strutturato, cioè prendere le decisioni, secondo le regole della democrazia diretta, l’unica adeguata alle comunità elettive, e questo comporta sovranità assoluta dell’assemblea, delegati e non rappresentanti, mandati vincolanti e revocabili, sorteggio delle cariche.


3. Il crono-impero e l’insurrezione kairologica.


Va da sé che queste note, dovrebbero, per “sinistra” decenza, collocarsi in uno scenario geopolitico che situi i luoghi dell’agire nella loro relazione con l’assetto globale del mondo - secondo, appunto, un rituale usuale alla sinistra tradizionale. E questo è presto fatto.

La crisi finanziaria investirà ancora a lungo e profondamente i non-luoghi che sono le megalopoli; e Roma, grazie soprattutto all’amministrazione capitolina di centrosinistra, si è avvicinata pericolosamente, nell’ultimo decennio, alla soglia fatale. Questi non-luoghi sono divenuti il modo e la sede del dominio finanziario; nodi astratti di flussi materiali e simbolici dove la qualità della vita urbana è compromessa fin da subito; perché, come accade agli aeroporti, lo spazio-tempo dei flussi è del tutto indifferente ai tempi propri dei luoghi investiti.

Insomma: le megalopoli, genuino prodotto del capitalismo finanziario, sono esse stesse le forme sociali che producono iterativamente la crisi. Bisogna fare attenzione al fatto che la crisi non riguarda le difficoltà del modo di produzione capitalistico, ma al contrario proprio i suoi pregi: prima di tutto la capacità di produrre eccedenze di beni ed innovazioni, la vera potenza del sistema.

Proprio perché crisi sistemica essa si propagherà, nei prossimi anni, dal settore finanziario a quello industriale e dei servizi. E come era accaduto nel 1929, la ristrutturazione industriale, incentrata oggi attorno alla prospettiva di «capitalismo verde», comporterà una severa contrazione del lavoro dipendente. Cosicché, quando, nelle città europee, la debole crescita economica ricomincerà, essa avverrà con una perdita secca ed irreparabile di lavoro, in particolare di lavoro ripetitivo, manuale o intellettuale che sia.

È questo perché la stragrande maggioranza delle nuove tecnologie, quelle mature, che possono aprire nuovi mercati e che saranno presumibilmente applicate alla produzione industriale proprio a causa della crisi, sono «invenzioni a risparmio di lavoro», confermando una tendenza secolare che vede l’espansione della tecnica come una condizione destinale dell’Occidente, nel senso che la tecnica tende a sgravare il corpo e la mente di donne e uomini dal lavoro ripetitivo, dalla fatica fisica e psichica.

Viene a liberarsi una pura energia cooperativa, altamente ordinata, a entropia minima, precedentemente costretta nella dimensione di lavoro salariato -dimensione che ne dava una rappresentazione mutilata e deforme.

È possibile che così si apra una fase di trasformazione sociale, ma a condizione, beninteso, che la questione comune non sia quella di espandere e organizzare il tempo di lavoro necessario, piuttosto di lasciare affiorare il tempo liberato dal lavoro, vero indice, quest’ultimo, della qualità della vita urbana.

La temporalità, il sentimento del tempo e la sua misura divengono, come altre volte è accaduto, il terreno dello scontro sociale.

Per parte nostra, l’azione sovversiva deve misurarsi con la capacità di saper fare buon uso del tempo liberato dal lavoro, trasformando la sorte in fortuna, la disoccupazione in un’occasione insperata per aumentare, in misura gigantesca, l’attività libera, intesa come creazione di valori d’uso, ricerca di sé, del demone, della vocazione, del lavoro piacevole, per dirla con un ossimoro; insomma, di quel agire nel quale fine e mezzo si convertono l’uno nell’altro.

L’emersione di questo modo di produzione “post-economico”, già all’opera anche se ignaro, è, in primo luogo, una emersione alla comune coscienza; di conseguenza, per compiersi, richiede la consapevolezza dei limiti.

Infatti, nel presente largo, la radicale trasformazione della temporalità non comporta la brusca sostituzione della produzione di valori di scambio con la creazione di valori d’uso, piuttosto si tratta di aggiungere questa a quella, in un lungo ciclo di dualismo economico-politico.

Sicché l’esodo contemporaneo, piuttosto che un errare nel deserto, assume la forma dell’autovalorizzazione dei luoghi, autorealizzazione del «genius loci» -insomma: aggiungere senza nulla togliere a ciò che ormai c’è.

Così, in un presente sufficientemente largo, le comunità elettive ripropongono la sfida che altre civiltà hanno perduto. Infatti, come già ha avuto modo di notare Keynes, tanto l’aristocrazia quanto la borghesia urbana hanno già conosciuto e fatto uso del tempo libero, quel darsi «bel tempo», secondo il detto rinascimentale fiorentino. Tuttavia, quelle due forme della cooperazione sociale hanno dissipato l’occasione, non sono riuscite a rendere il tempo libero la temporalità socialmente egemone. E questo con ragione, perché, per quel che attiene alla temporalità aristocratica, essa ha finito con l’imbozzolarsi in un fatuo compiacimento di sé; mentre il sentimento del tempo alto-borghese ha messo capo al dominio del futuro, all’attesa come condizione psichica di massa, all’attesa del progresso, questa versione involgarita dell’antica salvezza cristiana, della Seconda Venuta.


4. Ritorno al primitivo


Il tentativo delle comunità elettive di rendere presente a se stesso il tempo liberato dal lavoro, non ha certo il successo assicurato, tutt’altro.

Vi sono, però, oggi alcune condizioni al contorno che sembrano congiurare a favore di una trasformazione radicale della temporalità. Intanto, le moderne tecnologie, soprattutto quelle informatiche, assicurano l’avvenuta uscita dalla economia, dall’epoca della scarsità - e questo vuol dire una minimizzazione della paura come sentimento sociale. Giocano, inoltre, a favore due altre circostanze: l’animale uomo è numeroso come non mai nella storia planetaria; e la Terra, a sua volta, sembra entrata in uno dei suoi cicli periodici di riscaldamento.

Così, presumibilmente, vi saranno, nel presente largo, molti più artefatti umani: scoperte, poesie, musiche, racconti, invenzioni d’ogni sorta; e d’inverno farà meno freddo. La situazione è eccellente.

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