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Dall'era moderna a quella complessa

Transizione dalla logica del dominio a quella del condominio

di Pierluigi Fagan

La presente riflessione, non breve perché l’argomento non lo consente, raccoglie un percorso di pensiero che ho sviluppato da tempo in vari articoli che gli interessati troveranno  riportati nelle note. Riepiloga ed argomenta intorno alla tesi che noi si sia entrati una nuova era, l’era della complessità. Entriamo in questa nuova condizione del mondo, con istituzioni, credenze ed immagini di mondo, ereditate da una lunga storia che va indietro anche oltre la modernità, una storia che aveva caratteristiche del tutto diverse. Ne consegue il concreto rischio di dis-adattamento

kandinsky gravitationL’epoca in cui siamo capitati (Heidegger avrebbe detto “siamo stati gettati”) la definiamo “complessa”. Questa complessità ne è il concetto, come moderno è stato il concetto di quella che sta finendo. L’era della complessità subentra al moderno e termina anche quella lunga incertezza definitoria che è ricorsa all’utilizzo dei “post-qualcosa” per segnare la fine del moderno ma non ancora la nascita di qualcos’altro.

Vorremmo argomentare su tre punti: 1) perché definiamo la nostra, addirittura una “nuova era” e perché la definiamo complessa; 2) che cosa intendiamo per complessità; 3) cosa differenzia il complesso dal moderno e cosa ci indica, sul piano del cambiamento adattivo, questa differenza. I primi due punti si co-implicano e quindi l’argomentazione verrà svolta in un’unica soluzione prima di argomentare sul terzo

 

1) UNA NUOVA ERA? Da tempo è in questione, presso i geologi e da loro alla comunità scientifica in senso più ampio, se definire la nostra era in maniera nuova rispetto alla precedente. L’ipotesi in discussione è sul termine “antropocene”, l’era antropica ovvero l’era in cui non è più e solo la Natura a determinare il suo stesso stato e divenire ma la relazione tra questa è l’umano.

L’umano ha, per quantità e qualità di impatto delle sue azioni, raggiunto un ruolo perturbativo del naturale tale da co-determinarlo (la Natura determina l’uomo che determina la Natura). Questo sul piano della Natura (geologia), ma anche sul piano dell’ Uomo (storia) si contano diverse novità. Da tempo, si notano dei sinistri scricchiolii in una serie di istituzioni umane che hanno segnato e fondato l’epoca moderna in Occidente: il sistema detto capitalismo tanto nelle sue forme economiche che politiche (dette “democrazie di mercato”), il tramonto dell’occidental-centrismo, l’infelicità occidentale che subentra ad una lunga stagione di hybris, un ritorno di presenza delle religioni, la degenerazione delle élite, il ricorso ansioso ai criteri di verità tecno-scientifica, la paura ed il senso diffuso di rischio, il disordine, l’occlusione dell’orizzonte detto “futuro” e l’evaporazione del concetto di progresso, l’invecchiamento demografico, lo smarrimento valoriale, il degrado quasi totale del politico. Gli intellettuali, sono necessariamente compresi in questo movimento apparentemente degenerativo e si fa fatica ad aprire anche una sola mano ed a porre su ogni dito contante un pensatore di riferimento, una mente lucida in grado di narrare il presente ed indicare il futuro, chiarificandolo. Il nostro “tempo appreso nel pensiero” sembra trovare a fatica pensanti in grado di apprenderlo (prenderlo assieme cum-prehendo) e mancando la lucida interpretazione, manca la possibile predizione. Sembra quindi che i tempi siano difficili, da vivere come da comprendere e forse l’una difficoltà è in funzione dell’altra.  Questo parziali elenco di crisi e novità, avanza il dubbio noi si sia finiti in un transizione storica, ma da cosa a cosa?

 

2. LA STORIA E IL TEMPO In genere, in settanta anni, cambia poco nelle strutture e sovrastrutture umane. Cambia poco perché strutture e sovrastrutture umane sono enti complessi, dotati cioè di molte parti e molte interrelazioni, per cui il movimento interno, che è costante, diventa decisivo e radicale (transizione di fase) solo dopo un tempo necessariamente lungo. Ne fece perno del suo metodo lo storico Fernand Braudel a cui spesso ci riferiamo nei nostri scritti[1], il quale osservò che la storia dei fatti (evenemenziale) è una cronaca  interessante ma non decisiva per comprendere il movimento essenziale che ha tempi di lunga durata[2]. Capita ancora oggi di leggere del capitalismo o dello Stato-nazione europeo o del moderno, riferendosi implicitamente al teatro storico del XIX secolo quando tutti e tre i fenomeni, nel consenso di molti studiosi, mostrano la loro origine nel XV e XVI secolo. Certo la loro fenomenologia in quel del XIX secolo è stata esplosiva e molto significativa ma senza una comprensione profonda della loro origine, difficile capirne l’essenza e se non si capisce quale ne sia l’essenza, difficile farne una diagnosi ed una prognosi.

Se settanta anni son quindi pochi per leggere i movimenti profondi della geologia storica, la lettura dei nostri ultimi ci mostra comunque qualcosa di molto rilevante: il mondo è incorso in una trasformazione profonda più veloce della capacità dei sistemi umani sovrastrutturali (culture) e strutturali (istituzioni sociali, politiche, economiche) di registrarla. Quando si capita, come ipotizziamo si sia capitati, in una transizione storica in cui i cambiamenti di stato sono sia estesi che intensi, vasti e profondi, in cui lentamente e contraddittoriamente si sovrappongono stati di cose vecchi e nuovi,  è normale che tra mondo dei fatti e mondo delle istituzioni umane ci sia disallineamento. E se c’è questo disallineamento tra mondo dei fatti e mondo delle istituzioni umane, viepiù c’è tra entrambi e mondo del pensiero. I tempi portano cambiamenti che facciamo fatica a registrare, che abbiamo difficoltà a comprendere, a cui facciamo fatica ad adattarci. In un mondo molto più semplice, quello che transitò dal medioevo al moderno, furono necessari secoli per riallineare i tre tempi-modi, quello del mondo, quello della sua interpretazione istituzionale e di quella culturale. Tra la fine della monarchia assoluta inglese e quella russa corsero più di due secoli, tra i soprassalti dell’Inquisizione e l’annuncio che Dio era morto più di tre, tra Galileo e la dittatura neopositivista della cultura tecno-scientifica americana quasi quattro, tra l’intensificazione dei commerci mondiali dei beni voluttuari delle élite cittadine alla globalizzazione della produzione e consumo di massa planetario, cinque. Tra l’inizio della fine del medioevo e l’inizio dell’era complessa, sei, cioè sei secoli è la durata del moderno in senso esteso ma molto di questo tempo, è servito per diluire la coda del periodo precedente e consentire l’affermazione del nuovo modo con lenta progressione. Questa transizione lunga avvenne in un sistema meno ampio e denso di quello in cui oggi ci troviamo e sopratutto, beneficiò della possibilità di esternalizzare le contraddizioni. Tale transizione lenta, infatti, riguardò l’Occidente mentre quella attuale riguarda il Mondo.  Data quindi l’estensione, la densità e la mancanza di un esterno in cui scaricare le contraddizioni del sistema in transizione di fase, quella attuale, sarà probabilmente più brusca e caotica.

 

3. LA NUOVA ERA SI PRESENTA COME CRISI DELLA VECCHIA. Ma cosa è successo in questi sessanta anni? La popolazione mondiale è cresciuta da 2,5 a 7,5 miliardi di persone. Se il nostro oggetto di comprensione è il mondo umano, materialisticamente (e col termine s’intende la semplice consistenza fisica di un oggetto osservato), è assai rilevante che l’oggetto abbia triplicato le sue dimensioni ed in così poco tempo. Mai nella storia umana, l’umanità si è triplicata in settanta anni e partendo poi già da una dimensione mai prima raggiunta[3]. Se poi prendiamo gli inizi del XX secolo e il traguardo del 2050 (o forse prima), avremo un salto volumetrico da 1.500 a 10.000 milioni di individui, in un solo secolo e mezzo. In questi settanta anni, gli Stati-nazione sono quadruplicati da circa 50 a poco più di 200, movimento che sembra voler continuare. La grande varietà di popoli, culture, lingue, religioni, modi di vita, ha preso ad interconnettersi alla velocità con cui prende ad arborizzarsi  il cervello infantile nei primissimi mesi di vita. Quando aumentano in poco tempo sia la varietà (le parti) che le relazioni tra le parti (le interrelazioni), si ha una inflazione di complessità. I sistemi strutturali, gli Stati, i sistemi economici e finanziari, le reti di comunicazione e trasporto (merci e persone), quindi gli scambi materiali e i sistemi sovrastrutturali, le culture, le visioni del mondo, i paradigmi, le logiche, le idee e le credenze quindi gli scambi immateriali, hanno tessuto velocemente un sistema nuovo, un sistema molto più complesso che non abbiamo  ancora pienamente registrato come fatto compiuto. Globalizzazione e migrazioni sono certo fenomeni tessitori importanti ma questa spinta al crearsi di interconnessioni e dipendenze ha una natura più complessa e dipende, in gran parte, dalla semplice densificazione del pianeta.

Nel qualitativo, l’Occidente che è stato il sistema guida del moderno, si è trovato in poco tempo (anche se un po’ più ampio che non i settanta anni) dal pesare il 30% circa del mondo umano a poco più del 10%. L’Europa che inizio secolo scorso era la maggioranza di quel “occidentale” tende a diventare minoranza in favore del mondo anglosassone ed invecchia a ritmi sostenuti deformando le tradizionali piramidi demografiche  che nel lungo tempo, molto svasate alla base e corte in altezza, si sono prima allungate e ristrette ed ora quasi invertite visto che si vive sempre di più e si fanno meno figli. Il modo occidentale di stare la mondo, spesso detto “capitalismo” ma più precisamente definibile come sistema sociale ordinato dalle attività economiche[4], è diventato il principale standard planetario. Parallelamente, la potenza dominante il sistema, gli Stati Uniti, subentrata a gli inglesi nei sessanta anni che vanno dal 1870 al 1930, preoccupata da questa espansione del mondo non occidentale, preoccupata dal fatto che allargandosi il mondo si diluiva il suo controllo e posizione, introduce il fiat-money (Nixon 1971) per trasferire il controllo del sistema economico dalla produzione e scambio alla banco-finanza, riservandosi del modo tradizionale di produzione e scambio, più che altro le punte tecno-scientifiche che coltiva anche in funzione del necessario primato militare. Il Nasdaq apre, appunto, nel 1971 ed Internet discende da una rete militare (Arpanet). In seguito, ha condensato un set di disposizioni economiche che hanno dato al sistema economico mondiale, le forme a lei gradite per mantenere una posizione di sostanziale controllo.  Se la cosiddetta rivoluzione industriale è stata un movimento prodotto dai britannici più come somma di molti atti non intenzionati da un soggetto centrale, la rivoluzione finanziario-digitale è stata invece promossa intenzionalmente per cercare di garantirsi il doppio obiettivo di dar ulterior sviluppo ad un sistema che andava a ristagnare o quantomeno a frenare bruscamente il suo impeto accrescitivo, mantenendo la leadership assoluta del sistema stesso. La cosiddetta “finanziarizzazione” non è stata quindi un mutamento endogeno dell’acefalo sistema economico che chiamiamo “capitalismo” ma, in accordo con la visione Braudel – Arrighi, un movimento intenzionale guidato dal “contenitore di potere” che ospita il quartier generale del sistema “capitalistico” della nostra fase storica: gli Stati Uniti d’America[5].

Nel politico, l’Occidente ha visto una sempre più pronunciata subordinazione dell’Europa continentale al sistema anglosassone. La guerra mondiale svolta nella prima parte del XX secolo in due puntate per complessivi circa 86 milioni di morti e radicale distruzione materiale, terminava in Europa, una lunga era cominciata con la Guerra del Peloponneso, quella della guerra interna al sub-continente più complesso (complice la sua peculiare geografia) dell’intero pianeta. Quel modo era giunto alla sua impossibilità ma cosa quindi fargli succedere per darsi un ordine, ancora ce lo domandiamo rimbalzando tra idealismi sfocati (Stati Uniti d’Europa), pragmatismi elitisti (il sistema euro, la Commissione EU) e il sempre confortante “come si stava bene una volta” (il ritorno allo Stato-nazione). Facendosi viepiù difficili le cose per il sistema occidentale non più materialmente in grado di dominare e subordinare il pianeta con imperi (formali ed informali) e colonie, nei settanta anni, si è passati da pseudo-democrazie comunque redistributive e relativamente equilibrate a pseudo-democrazie tendenzialmente oligarchiche con sfumature tecno-tiranniche. Movimento questo che si riflette non solo all’interno dei sistemi politici occidentali ma anche nel modo con cui l’Occidente a guida americana, si atteggia col mondo esteso. Mal si comprende questa degenerazione se non la s’inquadra dentro l’altra contrazione, quella della lenta perdita progressiva di potere e controllo occidentale sul mondo.

Nel culturale, la tecno-scienza che ha sin dall’inizio accompagnato lo sviluppo di questo modo moderno, ha raggiunto capacità tali da segnare ad un certo punto, l’inversione della posizione umana rispetto alla natura, da subordinata a subordinante. Questo punto ha avuto la sua rivelazione con il doppio sganciamento delle bombe atomiche sul Giappone, è stato quello il “segno spaventoso” che  ci ha confermato la raggiunta capacità demiurgica del poter manipolare la materia nei suoi costituenti fondamentali. Di questa nuova potente ed inquietante capacità si son poi dati, in sequenza, altri avvisi:  la questione ambientale si pone infatti dagli anni’60, quindi nasce l’ecologia moderna, poi si pongono le questioni delle risorse ai primi anni ‘70, poi compare l’inquinamento ed infine si registra il cambiamento climatico. Quindi i geologi si domandano dell’opportunità di definire l’era “antropocene” e poco prima, il filosofo Hans Jonas propone di porre a paradigma delle nostre immagini di mondo il “principio responsabilità” perché se Prometeo è arrivato finalmente al compimento del suo sogno di dominio, sarà anche il caso cominci a domandarsi cosa farci di questo dominio e prenderne più giudiziosa responsabilità.

Sul piano dell’ordinatore, il sistema economico come ordinatore delle entità sociali, mentre la retorica ufficiale celebra i fasti di un’umanità creativa, innovatrice ed audace, tutta intenta a far fiorire cose dagli algoritmi (vecchio vizio occidentale del delirio neoplatonico di processione dall’Idea alla Cosa), in realtà la vera innovazione sia ideativa che produttiva finalizzata alla alimentazione dei cicli di “creazione – distruzione” del modo economico, sembra esser giunta ad un periodo di senile sterilità. Certo che vapore ed elettricità non sono stati rimpiazzati da Google ed Apple, il solo pensarlo denota menti rapite dal bisogno di confortarsi applicando lo schema dell’analogia con le pere e le mele, con cose cioè che non sono affatto analoghe in essenza. Di fatto, negli ultimi venticinque anni, l’Occidente ha perso 14 punti percentuali di peso nella composizione del Pil globale, la svolta finanziaria ha moltiplicato la ricchezza dei già ricchi, fuori di questa élite i consumi si sono contratti e questo, oltre alla penetrazione di merci di altri sistemi geo-economici, ha deperito la produzione occidentale e contratto l’occupazione ed i salari. Per sostenere i sistemi nazionali, dato che il sistema economico è entrato in questa spirale contrattiva, si è ricorso al debito ma, fallendo sistematicamente il rilancio, il debito si è solo accumulato entrando in un aspirale accrescitiva dovuta a gli interessi così dal finire di diventare oltretutto inutile, se non come ulteriore alimentazione della accumulazione finanziaria. L’invocazione testarda e penosa alla “crescita” è diventata una religione del cargo.

Essendo allora oggi in grado di manipolare i costituenti primi della materia, atomi e molecole, si aprono serie di domande su chi crea, cosa e perché, inclusa l’automanipolazione della vita e dell’umano. Questo massimo raggiungimento poietico, coincide con il punto minimo di sviluppo dell’autoriflessione etico-morale. Georg Simmel argomentava che “L’oggetto della scienza della natura è ciò che accade, l’oggetto dell’etica è ciò che deve accadere” ma noi ci troviamo nell’inversione per la quale la scienza della natura è alla sua massima potenza di possibilità e non si limita più a comprendere il mondo ma a crearlo sotto dettato di un groviglio di necessità e bisogni i cui unici indicatori sono gli indici di borsa, su i quali nessuno esercita più il senso di responsabilità, la riflessione meditata sul dover essere. L’idea di governare la transizione di un mondo complesso sempre più denso e chiuso nei suoi limiti oggettivi, con le indicazioni che provengono dal luogo in cui si concentra la massima isteria umana, cioè la Borsa, denota la nostra manifesta inadeguatezza adattiva, un plasticamente allarmante senso di confusione, non comprensione, irresponsabilità.

In sintesi, in settanta anni il mondo umano ha intrapreso un processo di dilatazione quanti-qualitativa impressionante, l’Occidente si è riformulato perdendo la sua millenaria origine euro continentale, sta perdendo peso e quindi potere sul mondo, ma continua ad ordinarsi secondo istituzioni materiali quali il sistema economico-finanziario e politico moderno e conseguenti istituzioni immateriali, quei sistemi di cedenze, logiche e pensieri che chiamiamo immagini di mondo, forgiate in tempi in cui peso e potere erano ben diversi. L’immagine di mondo si è tecno-scientificizzata perdendo sia la capacità riflessiva, sia la possibilità di discutere i suoi stessi fini. Perdendo capacità riflessiva ed intenzione dei fini ha perso “intelligenza”. L’ordinatore economico, ha dato energia e sviluppo fintanto che l’Occidente è stato in grado di dominare quelle vaste porzioni di mondo che ha usato per alimentarlo. Oggi questo utilizzo del “fuori il sistema” per dar condizioni di possibilità al “dentro il sistema” non è più possibile, oggi “tutto è sistema” e conseguentemente diminuiscono le possibilità nel mentre i pesi degli attori del sistema, non più solo occidentali, si redistribuiscono. Le élite, tali definite dalla posizione sociale all’interno delle società ordinate dai processi economici  finanziari, si sono riservate i modi per non solo resistere ma addirittura migliorare l’accumulazione di capitale, scaricando su tutto il resto della società i costi materiali ed immateriali della oggettiva contrazione.  Ne conseguono sintomi di disadattamento complessivo poiché abbiamo modificato radicalmente il nostro ambiente (in senso ampio e non solo ecologico) ma continuiamo ad abitarlo con i modi che erano adatti precedentemente. Siamo capitati in una nuova era, continuiamo a viverla e pensarla in modo antico[6] che però continuiamo a chiamare “moderno” (più o meno “l’odierno”) confondendoci ancora di più. Soprattutto, non abbiamo percezione consapevole e diffusa dell’essere in una transizione, di quel processo in cui l’essere che non è più, non è ancora altro.

 

4. NUOVO PENSIERO: IL COMPLESSO.  In questi settanta anni, nel mondo dei pensieri, nasce anche un nuovo modo di pensare le cose, quella che chiamiamo “cultura complessa”. La sua doppia origine ha radici nel pensiero biologico che è la disciplina elettiva del concetto di complessità sin dai tempi del biologo-filosofo Aristotele ed in quello tecno-scientifico. La prima radice si chiamerà Teoria dei Sistemi e viene piantata da un austriaco poi migrato in Canada, Ludwig von Bertalanffy, la seconda radice si chiamerà Cibernetica e verrà coltivata da un fisico-matematico americano di origine tedesca, Norbert Wiener. La prima origine ha una tradizione lunga che retrocede nella cultura tedesca post e pre romantica ( da Hegel a Meinong, alla Gestalt, qualcosa addirittura in Nietzsche ma anche nella Scuola di Vienna), ma anche nell’architettonica kantiana e prima in Leibniz, nello logica di Duns Scoto e prima, per certe intuizioni non sviluppate, nello stesso Aristotele, previo passaggio in Plotino ed altro pensiero neo-platonico. Nella cultura francese ha radice in Bergson. Nella cultura anglosassone ha radici in Alexander, Bradley, Broad e poi in A. N. Whitehead e Randall. Nella cultura russa ha varie radici, tra cui la sophia di Soloviev, il geochimico Vernadskij, l’economista Kondratiev e molti altri. C’è anche una radice teologica nel gesuita francese Teilhard de Chardin che ha ispirato fortemente, la recente enciclica di papa Francesco “Laudato sì”.

La seconda è una miniera di intuizioni dinamiche che contagerà l’antropo-socio-psicologo Gregory Bateson ed un consesso di studiosi della mente (Maturana, Varela ed altri), primi teorici dell’informazione (Shannon, Weaver), epistemologi (von Foerster), matematico-informatici (il poliedrico ed inquietante von Neumann, colui che convinta la Marina militare degli Stati Uniti a dargli una vagonata di dollari, realizzerà materialmente ciò che Alan Turing aveva solo immaginato: il computer; ma anche il teorico, con O. Morgenstern, della Teoria dei giochi a cui tanto si riferiscono sia il pensiero economico che quello delle relazioni internazionali), neurofisiologi, psichiatri e psicologi e parecchi altri. In maniera meno nitida, vi sono altre significative anticipazioni di queste forme di pensiero che possono trovarsi in vari luoghi, tra cui una precisa tendenza del pensiero russo nei confronti dei sistemi dinamici (si veda la tectologia del marxista Bogdanov).

Dalla prima generazione dei sistemico-cibernetici diparte un sempre più vasto albero che ha incluso molti fisici (l’elenco è troppo lungo da riportare ma diciamo che si va dallo scopritore dei quark, Murray Gell-Man alla cosmologia quantistica di Lee Smolin, ai nostri Parisi e Rovelli), chimici (che assieme alla biologia è disciplina elettiva per lo sguardo complesso) tra cui spicca Ilya Prigogine, la maggioranza dei biologi che sono “sistemici” per definizione (Margulis ma l’elenco è ampio) così come gli ecologi (l’olista Lovelock e la sua Gaia ed il matematico-meteorologo E. N. Lorenz a cui si deve la nota metafora dell’effetto farfalla), gli scienziati della intelligenza artificiale (la “famigerata” Artificial Intelligence deriva l’origine proprio dalla cibernetica), gli psicologi da Piaget in poi, gli scienziati della mente (Edelman, Damasio, Luria) i sociologi dai funzionalisti sistemici a Niklas Luhmann, gli antropologi che con lo strutturalismo avevano impostato la griglia interpretativa sul concetto di –struttura– che è figlio del tic francese di rinominare i concetti non francesi che nel qual caso era il concetto di sistema nel Corso di Linguistica generale del francofono svizzero De Saussure, i paleontologi (Gould, Eldredge) gli archeologi, i linguisti, gli storici (elenco anche qui ampio ed in via di ampliamento dalla scuola sistemica di Wallerstein che eredita il lascito di Braudel, alla World history[7]) ed altri che saltiamo per necessità di contenimento non prima di aver segnalato la piena sensibilità e sintonia di molti matematici (problema dei tre corpi, frattali, teoria del caos e delle catastrofi, teoria delle reti, topologia, turbolenze) che addirittura hanno anticipato alcune forme di questo pensiero (Poincaré, scuola russa tra cui Ljapunov, Kolmogorov) e dei logici (ad esempio fuzzy logic, logica abduttiva, cigni neri e limiti dell’induzione  etc.).

All’appello mancano due discipline che resistono per certi versi allo sviluppo per contagio delle idee, una è l’economia, l’altra è “stranamente” la filosofia. In filosofia, come sempre, il discorso sarebbe lungo e complicato, in breve si segnala il solo E. Morin che di origine è un sociologo, il quale occupa quasi in solitario, la posizione di “filosofo della complessità” con esisti senz’altro interessanti sebbene non così profondamente “filosofici” come la disciplina ha in uso nel sviluppare il proprio canone. La reticenza a questo specifico sviluppo del concetto di complessità, in filosofia, forse potrebbe esser spiegata col fatto che il concetto di complessità deposiziona un po’ l’intera tradizione di pensiero occidentale che non va intesa solo come “moderna” ma ha fondazioni decisive nel pensiero di Platone, nella interpretazione cristiano-medioevale di Aristotele ed in quella latino-neoplatonica del cristianesimo originario. La triade Uno – Semplice – Assoluto oltre ad un certo “fissismo” della tradizione non solo metafisica, è simmetricamente parallela e contraria a quella del Molteplice – Complesso –  Relativo  tendenzialmente “dinamico” che anima il nuovo paradigma complesso. Se “dinamico” era Eraclito e “relativo” era Protagora ben si nota come le radici siano alternative a gli sforzi fondativi del pensiero parmenideo-platonico mentre con Aristotele il problema è più complicato dipendendo certo dal residuo platonismo dello stagirita ma anche molto dalla interpretazione e ricezione medioevale del suo pensiero. Così, di una filosofia del Molteplice si rinvengono tracce molto incerte prima di arrivare a qualcosa di più chiaro (?) come si esprime in Deleuze, Simondon e parzialmente in altri francesi mentre di una filosofia della relazione e dei sistemi si potrebbe trovare porto in Kant ma non nei sensi in cui è di solito interpretato. Non a caso, Morin, rimane in fondo confinato nell’epistemologia (l’epistemologia della complessità è stata poi l’area più sviluppata, anche da altri) ovvero nella filosofia della scienza poiché la scienza, staccatasi dalla tradizione metafisica (anche se non del tutto) ed essendo una forma di pensiero relativamente più recente, ha meno vincoli nel suo a priori. E comunque anche qui, tra determinismo e riduzionismo, non tutto fila liscio visto il lungo dominio del paradigma platonico – newtoniano.

In economia, il discorso è più facile. Il pensiero economico originario in Smith e Marx poteva certo sviluppare una propria successiva stagione complessa (per Marx si veda Bogdanov) ma giunto giovane all’impatto col delirio positivista, sradicata la desinenza politica (da economia politica ad economics), sposata la matematizzazione galileiana a costo di ignorare fatti e fenomeni non matematizzabili, sposato il più rigido riduzionismo e determinismo che in forme così primitive ormai non si praticano più neanche nella più remota provincia dell’impresa scientifica, ignara della termodinamica nonché dell’indeterminazione quantistica ma anche della relatività spazio-temporale, ignorata bellamente la “scuola del sospetto” e tutto il successivo indebolimento del razionalismo neo-positivista, postulando la “scelta razionale” dell’individuo robinsoniano, contraendo il fenomeno sociale all’individualismo metodologico, ipostatizzato il sistema economico anglosassone come modello idealtipico in spregio ad ogni considerazione di buonsenso sulla relatività dei contesti spazio-temporali, sostenendo una ”negazione nevrotica” della relazione tra Stato e mercato, isolando il sistema economico dall’incarnato storico-sociale ma anche dalla realtà fisica e termodinamica in cui è oggettivamente immerso, ampiamente idealizzato il principio di autorganizzazione della “mano invisibile”, si è chiusa in un esercizio sacerdotale che salmodia le disposizioni necessarie a giustificare le prassi politico-economiche dominanti, trasformandosi in una teologia che, come ogni teologia, presuppone pure l’esclusività sul Sacro Gaal del pensare occidentale: la Verità (di sua natura Assoluta). Ha le sue sacche di resistenza, come la bioeconomia e l’economia evolutiva che sono figlie dell’albero del complesso, ma trattasi di riserve indiane, limitate ed assediate. Addirittura un suo canonico come Keynes, già mainstream nel dopoguerra, è diventato oggi eterodosso. Il guaio del pensiero economico è che è diventato la teologia del sistema reale con il quale organizziamo il mondo e così come il marxismo primo-novecentesco per l’URSS ed i partiti e movimenti comunisti in lotta politica in Occidente, quando il pensiero è direttamente connesso alle strutture del mondo reale ed ha responsabilità di ordinare o giustificare fatti concreti di grande importanza in cui si concentrano interessi duri, perde molto della sua libertà e diventa anelastico e dogmatico.

 

5. I CONCETTI DEL COMPLESSO. Il sistema di pensiero del complesso, in breve, si fonda su una ontologia di parti plurali che tendono ad interrellarsi in sistemi e sistemi di sistemi. Un sistema non è mai completamente aperto altrimenti non avrebbe la sua stessa consistenza, non è mai del tutto chiuso come una monade leibniziana. Ogni ente è un sistema e ogni sistema è fatto di relazioni. Quindi l’essere è relazione. Questi sistemi hanno limiti spaziali e temporali (nascono e muoiono) e nella loro danza reciproca all’interno di un ambiente/contesto che al contempo li determina e ne è determinato, danno vita al divenire di ciò che è, cercando l’adattamento e con esso le condizioni di possibilità per continuare ad esistere, il più a lungo ed al meglio possibile, autorganizzandosi. Le interrelazioni tra parti dei sistemi e quelle tra sistemi, sono a corto e lungo raggio e producono effetti non lineari, fanno emergere nuove strutture non riducibili alle componenti che han dato loro vita (emergenza) e spesso sono retroflesse ovvero basate su feedback. I feedback sono a volte potenzianti anche in forme geometriche, a volte de-potenzianti e quindi stabilizzanti come nell’omeostasi. C’è molto poco di preciso e meccanico in questo “complesso” e l’intero non è riducibile alle sue singole parti. Il “complesso” si colloca oltre il determinismo e naturalmente il riduzionismo ma anche oltre l’olismo, ha l’ambizione di comprendere il suo funzionamento sia nelle sue parti che nel suo intero, sia del suo interno che del suo esterno. Non si accontenta  di notare che il Tutto è Uno, né s’illude che l’Uno sia Tutto.  Il sistema di pensiero del complesso, guarda con sospetto l’ipostatizzazione delle dicotomie[8], sa che in ciò che osserva più che “leggi” troverà tendenze, sa che nell’oggettivo c’è molto -ineliminabile- soggettivo, l’osservazione stessa modifica l’osservato. Tendenzialmente, il complesso sa che il pensiero è sotto determinato rispetto alla natura di ciò che ha in oggetto. Soprattutto, avendo in oggetto cose intere, ed a scalare verso l’alto l’intero di tutti gli interi, ricorre a tutti gli sguardi umani, tutte le discipline in cui è frantumato il nostro sguardo sul mondo. Nel mondo, le cose son tutte sincronicamente presenti e tutte assieme procedono nel cambiamento che dà la diacronia, cioè il tempo. Così, uno sguardo che non sia interdisciplinare e storico, non adegua l’intelletto alla cosa. Nel politico del complesso, non ci sono individui ciechi della loro natura sociale e non ci sono società cieche agli individui che le compongono, non c’è solo un dato popolo ed il suo Spirito ma anche gli altri che compongono l’avventura umana e l’avventura umana non è sospesa nell’universo liscio delle idee ma si muove nel mondo screpolato degli attriti naturali. L’Uno che è il sistema ed il Molteplice che lo compone e che lo accerchia, sono entità coimplicate nella stessa “cosa”[9].

 

6. LA REAZIONE ALLA CRISI ADATTIVA. Come si sarà capito, essendo proprio a gli inizi di una nuova era, concetti ed interpretazioni non si sono ancora stratificati e diffusi ed è quindi necessario premetterli anche se in assai poco complessa e forse difficilmente comprensibile sintesi. Le prime intuizioni sistematiche del concetto di complessità sono a cavallo tra XIX e XX secolo e le seconde più nitide, degli anni ’50-’60. Da allora, il pensiero complesso è cresciuto prima a cespuglio, poi a foresta. L’idea di Hegel del tempo appreso nel pensiero, suggerisce il fatto che ci siamo accorti che le cose sono complesse, proprio nel mentre queste si manifestavano tali, più che non in passato.

Quello che ci appare oggi è un mondo nuovo e complesso ed istituzioni strutturali e sovrastrutturali dell’era precedente, quindi un disallineamento che dà il senso di disadattamento. Il disadattamento prende forma di crisi, tutti i sistemi vanno in crisi, la crisi sembra ontologica e non periodica, non si vedono comprensioni in grado di analizzarla e prognosticarla. Al cambio di era infatti, la prima deficienza di pensiero che si nota è nel metodo come ebbe a sottolineare la volta scorsa Cartesio. Intuizioni complesse sembrano emergere qui e lì in varie discipline ma i vecchi paradigmi fanno resistenza tenace, per dirla alla Lakatos, il “nucleo” del programma di ricerca moderno, resiste al cambiamento e dopo aver sacrificato il contorno con le “ipotesi ausiliarie”, si irrigidisce sempre di più. La compiuta divisione del lavoro intellettuale che mima quella della fabbrica degli spilli di Adam Smith, esalta cieche specializzazioni sempre più decontestualizzate che non producono com-prensione. Soprattutto, al sistema divisionalizzato ed iperspecializzato del sapere umano, soggiogato all’imposizione della sua impossibile quantificazione ed “oggettiva” valutazione, finalizzato a produrre “valore” per il mondo degli scambi economici, sfugge per principio ciò che è l’intero, la sua critica transizione, il complesso movimento tra le parti ed i riaggiustamenti interni alla ricerca di nuovi equilibri, dettati dalle nuove condizioni di mondo. E’ certo che un pensiero “dipendente” dal mondo che sino a qui è stato (ma non è più) non ha la libertà di rincorrere il nuovo. Così la ricomparsa di grandi dogmatiche, rigidità, semplificazioni infantili, una certa inconcludente aggressività e rissosità (in cui i social network con i loro format sincopati e la mancanza di comunicazione di contesto, sono moltiplicatori di disordine epistemico) ed una vasta produzione di pensiero impalpabile e sempre più “formale”. Con il post-moderno, addirittura si è postulata la rinuncia alla comprensione globale e ci si è rifugiati nel naufragio nel frammento. Certo è che se uno dei nuclei del problema è il non poter più produrre valore economico incrementale nei modi e quantità di recente tradizione, non è un sistema di pensiero tarato sull’imperativo del produrre valore incrementale che aiuterà a risolvere il problema.

Così, invece che aprire una stagione di ripensamenti del nostro modo di stare al mondo, la foga accumulatoria che non sa più dove aspirare sostanze rifiutandosi almeno un minimo di ridistribuirle, una ricchezza dei pochissimi che sostituisce lavoratori, cioè futuri acquirenti, con robot,  diventa paradossale. Ciò che era il motore ordinatore del precedente sistema, ora diventa il suo primo disordinatore. Forse sfugge che il cosiddetto “neo-liberismo” che è il sistema di idee dominante il pensiero economico così egemone sul nostro odierno pensiero generale, è un pensiero disperato. Solo premettendo che le cose non vanno più tanto bene come prima si comprende questa estremizzazione di tutti i dettami della vecchia economia neo-classica che era già liberale per sua, ottocentesca costituzione. Il neo-liberismo sta al pensiero liberale come l’Inquisizione stava al precedente indiscusso dominio del pensiero religioso. Questi irrigidimenti e totalitarismi teorici, annunciano sempre la loro morte, la loro improvvisa e tardiva ortodossia, il loro rigore, è sempre l’annuncio del prossimo, definitivo, “rigor mortis”.

Così, invece che concentrarci su i ripensamenti del nostro stare la mondo, includendo un nuovo atteggiamento convivente nel condominio planetario, si gonfia a dismisura la volontà di potenza statunitense. L’ultimo disperato paper di uno dei più “nuovi” think tank di Washington[10] che, visto l’accerchiamento di dissenso interno ormai maggioritario negli stessi Stati Uniti ha dovuto fondere neo-con repubblicani con neo-con/neo-lib democratici in un nuovo afflato unitario “bi-partisan”, titola su come “estendere” il potere americano sul mondo. Estendere? Come si può seriamente porre l’obiettivo di una sempre maggior estensione quando nei fatti si è dentro un movimento di contrazione? Chissà, forse anche nei think tank romani di fine impero, si cercava con le parole di rimuovere la realtà. Poi ci pensarono i barbari a far presente che era finita, per sempre.

L’intera impresa del pensiero a dominio scientifico, dandosi come “metodo” la quantificazione delle citazioni e la peer review, la ricerca a cui è chiesto in anticipo di sapere cosa scoprirà  prima di dargli credito finanziario, sono chiuse in circoli di continua auto-conferma. Sono cioè diventati sistemi che escludono l’innovazione di paradigma per principio, sono sistemi conservativi che riproducono il già noto come se fossimo in periodi di grande stabilità. La dittatura della certezza che impera nell’insegnamento a stile anglosassone che è poi quello dominante, esclude in via di principio il complesso, il critico, il non previsto.  L’inquietante progressiva espulsione degli studi umanistici e del pensiero filosofico e dello storico in particolare, dai corsi d’insegnamento, preannuncia l’inizio di una paurosa notte della ragione e dell’intelligenza. Sembra che per glorificare la società aperta, si debbano prima chiudere le menti.

Così, le pseudo-democrazie occidentali, diventano sempre più elitiste ed oligarchiche. Reclamano di dover avere “più potere per fare le cose” ma l’oggetto del mandato richiesto è sempre più contro-intuitivo: c’è crisi del lavoro? Lavorate di più e guadagnate di meno! C’è crisi nel welfare stante sempre più disoccupati, migranti, anziani di lungo corso e malferma salute? Tagliamo gli investimenti in welfare! C’è crisi di comprensione? Meno discussione e più azione! L’opinione pubblica media è sempre più aliena e confusa? Votiamo di meno e chiamiamo più tecnici, loro si che sanno cosa fare (?)! Secondo questa logica, l’adattamento è mantenere il sistema sacrificando le parti quando in natura sono le parti che usano i sistemi per adattarsi meglio. Se un sistema dà segni di mal-adattamento va cambiato il sistema, non le parti.

Insomma, Disordine chiama Ordine ma Ordine non sa più come pettinare il Disordine e strappa la capigliatura, più nodi incontra, più fa forza.  Più non sa più cosa fare per adattarsi al nuovo, più fa quello che ha sempre fatto ma con molta più decisione e progressiva disperazione. La mosca non sa come uscire dalla bottiglia e sbatte la testa sempre più forte contro l’invisibile parete di ciò che non comprende: il limite[11]. Quando una civiltà nata dall’Hybris incontra Limite, la civiltà nata da Hybris è morta.

 

7. DAL MODERNO AL COMPLESSO. Nel moderno, è cambiato l’atteggiamento tra Io e mondo L’Io ha preteso una certa sovranità su se stesso e sul mondo e la relazione si è invertita da passiva ad attiva. Il senso profondo del moderno, ciò che lo ha distinto dal medioevo, è stato primariamente questo senso “attivo”, un Io che ha rivendicato la sua propria proprietà, prima con l’umanesimo, poi col razionalismo, poi con l’illuminismo, con lo sviluppo di una sostenuta poietica che ha sviluppato tecnica prima e scienza poi al fine di emanciparsi dalla cieca dipendenza dalla natura, invertendo la relazione Io – Mondo da passiva ad attiva.  L’epoca del fare ha fondato, successivamente, il regolamento sociale centrato sull’economico e l’economico ha sancito nuove interpretazioni del principio di gerarchia, quelle interne alla singole società, quelle tra i diversi stati e civiltà. Il macchinismo non solo leonardesco anticipò la “rivoluzione industriosa” (Jean de Vries, 1994) del XVI-XVII secolo che anticipò quella industriale del XIX secolo. Economico, tecnica, scienza, atteggiamento pratico – pragmatico sono stati portati a paradigma dai popoli dominanti, gli anglosassoni, i quali hanno ulteriormente sviluppato la propria vis bellica, contro la natura e contro gli altri popoli, dando al senso attivo, il carattere della volontà di potenza: il dominio[12]. L’immagine di mondo pratico-pragmatica, coadiuvata da scienza e tecnica, ha ordinato l’agire  nel senso sia di avergli dato ordine, procedura e fini, sia di avergli imposto (ordinato) tempi e modi dell’ agire. Questo “modo”, il modo moderno, è oggetto di critica o di esaltazione, cioè di giudizio di adeguazione tra realtà e nostra immagine di mondo ma oggi si pone un problema di natura ben diversa. Si pone il problema del giudizio di possibilità, se cioè è possibile prorogare questo modo nel nuovo contesto che è il mondo di oggi e dell’immediato futuro. Tutte le possibili letture della realtà, se condotte onestamente, ci pare dicano di no. Non ci è chiesto cioè se “ci piace” o “non ci piace”, se lo si ritenga “giusto” o “ingiusto ma funzionale”, si pone il problema “è possibile?”. Ecco, non sembra più possibile.

L’era complessa, ci pone un senso ben diverso. Il senso profondo del complesso è l’ adatt-attivo, un senso che pone l’agire alla fine di un processo di precedente pensiero che ha un preciso fine. L’essere attivo non è ciecamente mosso solo dall’interno del nostro mondo dei bisogni ma cerca l’adatto perché fuori di noi, c’è Altro ed Altri, ogni azione provoca una reazione, treni di effetti non lineari si attivano ad ogni nostra perturbazione di ciò in cui noi stessi siamo immersi e dipendenti[13] ed in un sistema denso ogni nostra azione è potenzialmente una perturbazione. Dopo aver preso coscienza di sé ed aver coartato il mondo alla propria sovranità, l’Io dovrà imparare a riconoscere la relazione[14], la relazione tra sé e mondo, tra un sé e gli altri sé, le relazioni che lo compongono e quelle che compongono il mondo. L’atteggiamento di dominio, dovrà far posto a quello da con-dominio, la volontà di potenza dovrà far posto alla capacità di con-vivenza, più che “potere infinito” si dovrà “gestire entro i limiti”. L’agire dovrà quindi esser premesso dal pensiero, dalla strategia e dalla valutazione di possibilità, compatibilità, opportunità e responsabilità, dalla più ampia condivisione dei rischi e delle opportunità. Questo pensiero dovrà avere due caratteristiche principali. Così come non c’è un solo Io che agisce ciecamente dominato dalla sua volontà di potenza, non c’è un solo pensiero che può ordinare l’agire. L’Io, il mondo, la loro relazione, vanno com-prese dal pensiero ed il pensiero dovrà sforzarsi di superare i propri limiti che lo fanno tendere alla semplificazione.

Questo pensiero va comunicato e contrattato con quello degli altri Io in una “democrazia dei pensanti”. L’adattamento al mondo e quello tra gli Io tanto individuali che sociali che culturali e politici, presuppone questa azione prima pensata e contrattata altrimenti non ci sarà alcuna con-vivenza e se non ci sarà con-vivenza ci sarà il fallimento dell’adattamento e la doppia, tremenda, sanzione prima socio-storica, poi naturale: guerre civili e  guerra tra popoli prima, estinzioni di massa[15], poi.

Sottolineiamo di nuovo che questa indicazione non sembra provenire da un unilaterale preferenza etica o politica o antropologica, sembra provenire da una lettura realistica delle condizioni di ciò a cui dobbiamo adattarci: un mondo finito che ospita prossimi 10 miliardi di individui, cresciuti tanto in brevissimo tempo dentro un contenitore finito, che ragionano ancora come se intorno a loro non ci fossero limiti, limiti dati da Altri e da Altro. In questo contesto, il contesto in cui ci avviamo volenti o nolenti ad essere assieme in un unico sistema macroscopico, la competizione diventa un disvalore, la cooperazione diventa l’unica via per tenere assieme, mediando, gli interessi di tutte le parti e dell’intero.

 

8. IL COMPLESSO NEL POLITICO Adattarsi ad un nuovo “fuori di noi” e tra i tanti e diversi “noi” esterni ed interni, implica necessariamente una riformulazione profonda del nostro stesso “dentro di noi”, quello sociale e collettivo tanto quanto quello individuale. L’Occidente dovrà prender coscienza della sua diversità interna, l’Europa continentale ha natura, materiale ed immateriale, essenzialmente diversa dalla tradizione anglosassone. Gli occidenti dovranno separarsi perché diverso è il loro destino, le loro opportunità, la loro posizione geo-storica[16]. Gli Stati Uniti d’America sembrano esser i primi a non volersi o potersi render conto della mutazione del mondo. Ogni sistema dominante il cui tempo stava per finire ha sempre mostrato questa incapacità adattiva perché tutta la sua struttura istituzionale e mentale, lo spinge ad essere sempre e solo in quella maniera. L’Europa continentale, dovrà prender coscienza anche della sua irriducibile molteplicità interna e trovare nuove vie tra l’inconcludente idealismo dell’unità irrealizzabile e se forzata, distopica e l’insostenibilità della sua eccessiva frammentazione stato-nazionale figlia di una storia ampiamente terminata come condizione di possibilità.

I vecchi popoli europei, i mediterranei più di altri[17], riconoscendosi in un unico sistema che ha più coerenza interna di quanto non abbia col suo esterno (coerenza data dalla geo-storia) e riconoscendo la necessità di superare la piccola dimensione dello Stato-nazione di taglia europea per meglio contrattare l’adattamento dei nuovi sistemi alla condizione planetaria condivisa, dovrebbero porsi in atteggiamento di dialogo con gli altri popoli e la propria condizione naturale. Dovranno, forse prima di altri, superare l’ordine economico e tornare all’unico ordine che fonda la molteplicità, la relatività, la complessità sociale e permette di sviluppare adattamento condiviso: il politico. La prima e più fondamentale battaglia di chi vuole gestire e non subire la transizione dovrebbe essere la ri-politicizzazione della società.

L’essenza di questo politico in cui i Molti dovranno registrare il proprio agire ai criteri di possibilità, compatibilità, opportunità e responsabilità, vicendevolmente, non potrà altro essere che il democratico, minimizzando il rappresentativo in funzione del diretto[18]. Solo comunità informate ed ordinate sulla necessità di relazioni intelligenti, potranno sviluppare adattamento e sottomettere la volontà di dominio individuale alla più opportuna capacità di convivenza collettiva nel condominio planetario[19]. Di nuovo si segnala, che il democratico diretto non è tanto una nostra preferenza ideologica. Far circolare tutta l’informazione possibile tra tutte le parti, combattendo strenuamente tutte le asimmetrie informative e di potenza che sono quelle che creano le differenze Pochi vs Molti si rende necessario affinché tutte le parti introiettino quel mondo rispetto al quale debbono decidere il modo di abitarlo. Prima di domandarci contro chi e cosa siamo, dovremo domandarci cosa vorremmo e prima ancora cosa sia possibile. Prima che prevalga lo scoramento da impossibilità si comprenda la metrica del tempo storico, stiamo qui parlando dei prossimi decenni non di domattina, sebbene ciò che poi sarà nei prossimi decenni, inizia domattina.

L’attivo del moderno non basta più, deve esser intenzionato dall’adattivo del complesso e questa intenzione, prima di dar forma a nuove istituzioni materiali ed immateriali, dovrà esser quanto più introiettato dagli individui che formano i sistemi. A questo serve il politico, il democratico diretto, a scambiare informazioni, conoscenze, valutazioni e prospettive in seconda e terza persona, ad equalizzare le intenzionalità individuali o dei piccoli gruppi, in una intenzionalità media del “noi”[20] temperata dai limiti posti da Altro e Altri.

 

9. TRANSIZIONI DI FASE. Insomma, il mondo è cambiato profondamente e sono necessarie nuove e più adatte istituzioni umane e nuovo e più adatto pensiero per interpretare il mondo e progettare il nostro adattamento ad esso. Nel mentre cerchiamo di sviluppare questo difficile riallineamento, è importante l’atteggiamento.

L’atteggiamento è la precondizione perché questo processo si diffonda e fertilizzi la partecipazione attiva allo sforzo senza il quale la transizione rischia di non andare in porto. I sistemi intellettuali in fase di declino, in genere, accanto a gli irrigidimenti ostinati producono una temperie scettica, necessaria a sviluppare la coscienza critica su ciò dal quale dobbiamo ritirare la credenza per cominciar a far posto a nuove credenze basate su nuovi sistemi. E’ quindi un buon segnale, trovare esercizi di scetticismo diffuso, un atteggiamento di “ripensarla daccapo” senza il quale non usciamo dal vecchio e non c’incamminiamo verso il nuovo. L’esercizio è consigliato a tutti, quelli che hanno dominato e quelli che hanno subito il dominio. Lo stesso fatto che hanno continuato a subire il dominio dovrebbe consigliare loro una profonda revisione dei propri quadri analitici e delle prognosi fatte. In onore al testamento ideale del precursore del pensiero critico-alternativo Karl Marx, occorre tirare un riga di totale e dirci che il mondo non lo abbiamo cambiato e quindi forse l’interpretazione non era giusta e se pure era giusta sul piano astratto non aveva contenuti pratici utili al cambiamento attivo reale. Non è concedendo qualche blanda riforma sulle ipotesi ausiliarie che compiremo questa operazione, è il nucleo che ve messo nel braciere del fuoco critico.

Ragionando dell’intero, assumendo la civilizzazione occidentale come “nostra” sia che la si abiti nel comodo vertice delle élite, sia che si abiti negli stentati bassifondi della necessitata lotta per la sopravvivenza, la dimensione del cambiamento di mondo che abbiamo tratteggiato non implica solo l’uscita dal moderno, che già di per sé non sarà cosa semplice, ma forse addirittura una rimessa in profonda discussione delle radici del nostro pensiero, le radici greche. I filosofi, poiché è da loro che dipende la custodia dei fondamentali del sistema del pensiero, dovrebbero forse tornare all’Accademia ed al Liceo o nel loro intorno e precedente pre-socratico, e capire se c’è qualche biforcazione[21] nella quale si è presa la strada che dobbiamo cambiare. Noi crediamo che questa biforcazione ci sia stata, in due casi almeno. Il primo fu il rifiuto parmenideo del Molteplice diveniente, rifiuto poi riconfermato e sistematizzato da Platone, il secondo fu il rifiuto platonico dell’essenza relativa di ogni essere. Pensiero classico, greco e romano, medioevale e moderno, non hanno mai provato phileîn, cioè amore, per la democrazia. Il disprezzo per i sofisti che furono il pensiero e lo sviluppo di quelle che oggi chiamiamo “pratiche discorsive” al servizio del dialogo su cui si fondò l’imperfetto tentativo democratico ateniese (e non solo), dice di quanto l’aristocrazia del pensiero detesti la democrazia. La democrazia è un sistema politico sostanzialmente impensato, sino ad oggi. Noi non siamo mai stati “democratici” se non in qualche sbuffo di storia presto coartato dalla più realistica ferrea logica del dominio dei Pochi[22]. Tutti i primi ottomila anni di storia delle umane società complesse, mostrano il dominio di questa logica per la quale nei grandi aggregati umani, a differenza di quanto avveniva nei piccoli, s’impone il dominio dei Pochi. E questi Pochi sono stati maschi, anziani, militari, religiosi, intellettuali, politici, una etnia sull’altra, tutti sistemi che non si sono necessariamente basati sul possesso dei mezzi di produzione per imporsi inizialmente come élite. L’invariante di questi primi ottomila anni di società complesse è proprio la gerarchia fissa. Per esser adattivi nel complesso, si dovrebbe aprire un’era il cui fine di orientamento politico è la costante riduzione di gerarchia fissa[23] in favore di quella variabile.

Coloro che frettolosamente vogliono trarre da questa millenaria invarianza un senso di “legge ferrea” calmino subito la loro patologica ansia alla certezza, non c’è alcuna legge, non c’è ferro nella cose umane (<0,05% della massa umana). Ottomila anni possono sembra tanti a chi ha inventato un dio che s’è fatto vivo duemila anni fa ma la nostra specie di anni ne ha tre milioni e passa. Tra ottantamila o ottocentomila anni, quando i discendenti leggeranno le false certezze dei pensatori ansiosi che, nelle cose umane, hanno postulato leggi di qui e di là, avranno un sorriso di tenera compassione per i limiti mentali dei lontani antenati, come noi lo abbiamo verso i nostri. Forse è questa l’unica legge da tenere a mente.

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10. A CHIUDERE. L’essenza del complesso è una molteplicità di parti tra loro in interrelazione in cui la gerarchia è molto plastica, vaga, sempre in riformulazione e diffusa, dipendente dalle necessità adattive. Parti ed interrelazioni che creano una dinamica, dinamica che pone poi ogni sistema in essere/divenire in relazione adattiva con ciò che gli sta intorno. Dovremmo forse tornare ai nostri antichi bivi e vedere che strada si dipana prendendo la via che gli antichi scartarono. Ripensarla daccapo significa tornare all’origine e, modificando le antiche scelte, vedere che nuova storia si apre, sottrarsi alla dipendenza dal percorso dandoci un nuovo percorso, quindi una indipendenza da ciò che fino ad oggi è stato. Tale indipendenza sembra necessaria per quel salto di mentalità che precede ed accompagna l’innovazione istituzionale, politica, economica, geopolitica dei nostri modi di abitare il mondo,  senza il quale il fallimento adattivo è rischio con molte, troppe, probabilità. Il tempo è poco.


Note
[1] Su F. Braudel: https://pierluigifagan.wordpress.com/2013/07/01/la-concezione-realistica-della-storia-in-fernand-braudel/
[2] Della tradizione braudeliana, fa parte anche Giovanni Arrighi: http://www.sinistrainrete.info/globalizzazione/7506-vincenzo-marineo-quanto-e-lungo-un-secolo.html
[3] Diversamente da gli apparati analitici che privilegiano l’innovazione economica (tanto liberali che marxisti) come motore della storia, qui si ritiene che le grandi soglie del’evoluzione delle società umane, sono comparse al raggiungimento di certi volumi demografici in rapporto al territorio, cioè alla densità. Da cacciatori  raccoglitori a stanziali (la stanzialità non fu effetto dell’agricoltura ma causa), da stanziali ad agricoli, da tribù agricole a società che fondevano più tribù, al sistema della città, poi regni, poi stati con fiammate imperiali nei vari passaggi di fase delle ultime tre forme. Tutto ciò è avvenuto in vasti spazi e bassa densità. Ora, il gradino successivo, dovrà tener conto del fatto che gli spazi sono ristretti e la densità molto alta.
[4] La differenza sostanziale tra l’impostazione di K.Marx e quella di K. Polanyi è che Marx riteneva questa forma (materialismo storico), una sorta di legge della natura sociale umana di ogni tempo e luogo mentre invece Polanyi la riteneva l’essenza propria solo del moderno occidentale, di quei cinque/sei secoli relativi alla nostra specifica storia. Noi concordiamo con Polanyi.
[5] La visione “economicista” della storia, non può spiegare il suo stesso movimento. Anche solo esaminando il trapasso delle varie fasi storiche del capitalismo occidentale, se si levano le leggi, gli eserciti, il ricircolo e reinvestimento del prelievo fiscale, cioè il ruolo del potere politico, statale, colonial-imperiale, si sarebbe avuto un sistema amorfo che si sarebbe disintegrato al primo tornante della storia.
[6] Marxismo, economia neo-classica pensiero liberale, socialdemocrazia, l’individualismo metodologico, l’imperialismo, tecno-scienza come motore dello sviluppo, democrazia rappresentativa sono tutte idee e pratiche del XIX secolo. Nel XIX secolo, il mondo era abitato da un miliardo di persone che sciacquavano nei suoi vasti spazi.
[7] https://pierluigifagan.wordpress.com/2016/01/26/una-nuova-eta-assiale-storia-e-complessita/
[8] https://pierluigifagan.wordpress.com/2013/10/28/logica-della-conoscenza-complessa-12/
[9] Se l’individualismo è sez’altro fondamento del liberalismo e l’organicismo lo è nella visione politica che da Platone arriva a vari tipo di comunitarismo, la concezione politica dell’Uno-Molteplice risale, in parte, ad Aristotele che tendeva a coimplicare le due istanze, poiché questa è in definitiva ed al di là degli estremi in cui si balocca il pensiero astratto, la natura umana, né solo sociale, né solo individuale.
[10] http://www.cnas.org/sites/default/files/publications-pdf/CNASReport-EAP-FINAL.pdf
[11] https://pierluigifagan.wordpress.com/2016/04/07/logica-del-limite-per-una-etica-della-complessita/
[12] https://pierluigifagan.wordpress.com/2013/07/29/la-vita-nasty-short-and-british/
[13] Il passaggio evolutivo più importate tra i precedenti della nostra storia, fu quando la raggiunta maggior dimensione dei gruppi umani, impedì un libero nomadismo ed impose una progressiva stanzialità dalla quale emerse il modo agricolo e successivamente le società gerarchiche e complesse. Così come passammo dalla spensierata caccia e raccolta alla più ragionata agricoltura con esternalizzazione bellica delle contraddizioni, oggi sembra necessario superare questa spensierata esternalizzazione, l’introiezione dei problemi adattivi, la condivisione e contrattazione della soluzioni, la convivenza ed una serie di ragionate auto-limitazioni previa ampia redistribuzione di oneri ed onori. La chiamerei “società corta”. La “società aperta” (Popper) è un concetto impreciso e tautologico, come già detto tutti i sistemi sono né completamente chiusi, né completamente aperti, per definizione. Il problema oggi è restringere la piramidalità delle opportunità, delle conoscenze, della partecipazione, accorciare la scala sociale, compattarsi, unirsi, condividersi.
[14] https://pierluigifagan.wordpress.com/2014/02/18/essere-una-relazione/
[15] Riflessioni sul crollo delle civilizzazioni in una recensione ad un libro dell’archeologo E. H. Cline: https://pierluigifagan.wordpress.com/2015/01/12/complessita-e-crollo-delle-civilizzazioni/
[16] Sulla divergenza degli interessi tra l’Occidente americano e quello europeo: https://pierluigifagan.wordpress.com/2014/10/29/geopolitica-dei-trattati-di-libero-asservimento/ e sulla strategia americana nei confronti dell’Europa: https://pierluigifagan.wordpress.com/2015/11/29/pivot-to-europe-il-piano-che-non-ce-ma-si-vede/
[17] Sulle nuove forme politiche che può darsi l’Europa  https://pierluigifagan.wordpress.com/2015/07/24/tra-leuropa-impossibile-e-la-nazione-impotente-ridefinire-il-progetto-per-i-tempi-a-venire/
[18] Una articolata riflessione su i rapporti tra Tempo e Politica, in particolare per quanto attiene al modo democratico: http://www.sinistrainrete.info/teoria/7173-pierluigi-fagan-tempo-e-politica.html
[19] Riflessione su un’etica del limite che sia adattiva https://pierluigifagan.wordpress.com/2016/04/07/logica-del-limite-per-una-etica-della-complessita/
[20] Sull’intenzionalità del noi: https://pierluigifagan.wordpress.com/2016/06/16/coopero-quindi-sono-racensione-del-libro-di-m-tomasello-unicamente-umani/
[21] Si torni al topos delle due vie che la Dea mostra nel poema Sulla Natura di Parmenide ed alla critica che ne fece Gorgia. Se è discorso che crea la nostra idea di realtà, questo discorso può e deve esser contratto tra tutti, da cui la “democrazia dei pensanti”.
[22] La parte finale del “Sulla rivoluzione” di Hanna Arendt, Einaudi, 2006-2009, il sesto ed ultimo capitolo, ha titolo “La tradizione rivoluzionaria e il suo tesoro perduto”. Questo “tesoro perduto” è la collezione dei casi di democrazia spontanea ed auto – organizzata (le comuni, i consigli, le assemblee di comunità, i soviet) che sono state le prime forme politiche che il movimento del cambiamento si è sempre, spontaneamente dato. Proprio perché spontaneo ma soprattutto perché contrario di principio alla “ferrea” legge dei Pochi su i Molti, questo naturale principio democratico è stato sistematicamente, successivamente cancellato. Forse la teoria politica, dovrebbe vedere meglio cosa è possibile fare per non farlo cancellare, proteggerlo e dargli condizioni di possibilità per lo sviluppo. Le forze sociali, politiche, intellettuali del cambiamento, dovrebbero forse abbandonare i loro dogmi eterogenei ed inconcludenti e dire cosa non gli va della democrazia reale. Se non ci sono obiezioni, allora si cominci a lavorare sullo sviluppo di idee e sistemi che sono stati da lungo tempo orfani di pensiero e volontà pratica. Cambiare, a volte, non è produrre cose che prima non c’erano, novità assolute, ma rimuovere gli ostacoli che non hanno permesso condizioni di possibilità per l’affermazione di cose che già si producevano.  L’uomo che domina il mondo è un di cui dei mammiferi ma i mammiferi si son potuti esprimere solo dopo che un evento accidentale ha tolto di mezzo i grandi sauri. Per portare in atto ciò che è solo in potenza, s’impongono sottrazioni, rimozioni, riformulazioni.
[23] https://pierluigifagan.wordpress.com/2016/03/13/dell-origine-della-disuguaglianza-come-che-nati-liberi-finimmo-in-catene-1/

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