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Molto da imparare poco da insegnare

di Marco Revelli

I tedeschi, che di filosofia della storia se ne intendono (quantomeno per averla inventata), le chiamano «epoche assiali». Achsenzeit: un tempo in cui il mondo ruota sul suo asse, e ogni cosa si rovescia. E noi ci siamo dentro fino al collo. Basta dare un’occhiata a Roma, mai come oggi caput mundi nel simbolismo del vuoto che ostenta. Vuoto tutto. Vuoto il Sacro Soglio, con un papa arreso al disordine spirituale del mondo e al disordine morale della curia romana. Vuoto il Parlamento, capace forse di rappresentare il mosaico infranto della nostra società ma impossibilitato comunque a produrre uno straccio di sintesi.

Vuoto, tra poco, il Colle dove è vissuto l’ultimo Sovrano tentato di governare lo stato d’eccezione permanente in cui siamo caduti. Vuota persino la poltrona del capo della polizia.

Certo, il combinato disposto di burocrazie e sistema dell’informazione si è messo al lavoro per metabolizzare il tragico nel banale: le prime assorbendo nella continuità procedurale anche le più dirompenti discontinuità reali (non comunica forse un senso di teatro dell’assurdo tutto questo accanimento sui tempi del Conclave, il motu proprio, le modalità dell’arrivo dei Cardinali mentre si è appena schiantato il dogma dell’infallibilità del Capo?

O, si parva licet, l’immagine del povero Bersani, a disquisire in un’estemporanea conferenza stampa sul diritto del perdente arrivato primo a dare inizio alle danze nel salone d’onore mentre fuori, come dopo un’esplosione nucleare, è persino difficile identificare i muri entro i quali raccogliersi…).

Il secondo – il famigerato sistema dei media – pronto, nella sua ingordigia di spettacolarità, a divorare ogni evento consumandolo per lasciarlo alla fine spolpato come se, una volta spenti i riflettori, esso non producesse più effetti. E tuttavia nulla potrà occultare o attenuare la potenza tellurica del mutamento. Il cambio di scenario. La rottura di paradigma – chiamiamolo come vogliamo – che quest’inizio di 2013 ha rivelato in tutta la sua portata.

«È finita», urlava Grillo dal palco. E può apparire un paradosso che sia toccato a un ex comico annunciarlo, nel linguaggio della commedia dell’arte. Le elezioni politiche italiane non hanno certo un valore programmatico, lo vedrebbe anche un cieco che non indicano nessuna via d’uscita. Ma uno diagnostico sì. Ci dicono che è finita una forma della politica. Ridiciamolo nel modo più sgradevole: che è finita la politica del Novecento. Quella in cui una società sostanzialmente aggregata in gruppi e classi si strutturava e riconosceva stabilmente nella forma del partito politico e attraverso questo provava a esprimersi e a contare dentro le istituzioni. Ci dicono anche che il suo tentativo di prolungarsi, e sopravvivere a se stessa nell’ultimo periodo, era diventato insopportabile: un misto di finzione e supponenza. Di filisteismo e rapacità. Tanto più odiosi, quanto più accompagnati al fallimento sostanziale, e trasversale, di un’intera classe politica nella gestione di quella cosa pubblica della cui proprietà pretendeva di mantenere il monopolio.

Non si spiega altrimenti l’intensità torrentizia con cui la forza sradicante del cambiamento si è espressa nelle urne: come di una molla compressa da tempo. O un magma incandescente accumulato sotto un tappo di pietra e d’improvviso tracimato. Non si era mai visto un partito salire, dal nulla, fino a occupare il podio della maggioranza relativa. Lo dicono tutti i commentatori, un po’ col tono con cui si annuncia un Guinness dei primati, senza tuttavia interrogarsi su cosa “ci sia sotto” quel record. In quella moltitudine di portatori di scheda che silenziosamente, in due giorni, hanno smontato un sistema politico che sembrava di pietra, e che evidentemente non aspettavano altro che trovare un canale di sfogo, per esprimere la propria voglia di farla finita con l’esistente. Eppure i numeri parlano chiaro, dovrebbero invitare perentoriamente ad abbandonare ogni vecchia abitudine, ogni continuismo di sguardo e di progetto, ogni pigrizia mentale e ogni tentazione di rassicurazione.

Ho davanti a me la mappa del voto provincia per provincia nel 2013 e nel 2008. E il confronto (un esercizio che consiglio a tutti) ci parla di un paesaggio totalmente trasformato, come dopo uno tzunami, appunto. O un bradisisma sistemico. Ci dice intanto che negli ultimi cinque anni altri 2 milioni e mezzo di “aventi diritto al voto” (quasi tre volte la popolazione di Torino, sei volte quella di Firenze) si sono aggiunti all’esercito degli astenuti che ha superato ampiamente i 13 milioni (più di un quarto dell’elettorato). Ci dice anche che se sommiamo la massa degli astenuti e quella dei voti al Movimento 5 Stelle superiamo di qualche punto la soglia del 50%, come a dire che almeno la metà del corpo elettorale italiano sta fuori dallo spazio politico “ufficiale”. Nega, silenziosamente o in modo partecipato, la propria adesione a “quella” politica.

Di più, se non ci accontentiamo delle percentuali misurate sui soli votanti, o sui voti validi, ma calcoliamo in valori assoluti il peso dei due schieramenti “ufficiali” – centrosinistra e centrodestra – all’interno dell’intero corpo elettorale, scopriamo che insieme non raccolgono, oggi, più di 19.900.000 voti su quasi 47 milioni di “aventi diritto” (poco più del 40 per cento). Tutti e due insieme hanno perso, rispetto al 2008, qualcosa come 12 milioni di elettori, per effetto dell’emorragia che ha colpito soprattutto i due principali partiti: il Pd, che ne ha smarriti quasi 3 milioni e mezzo (è passato dai 12.095.000 del 2008 agli 8.642.000 del 2013, con una flessione del proprio “capitale elettorale” vicina al 30%). E soprattutto il Pdl – la cui euforia successiva al voto si spiega solo con il precedente terrore della scomparsa -, che ne ha mollati addirittura 6 milioni e 300mila (dai 13.629.000 del 2008 ai 7.332.000 di oggi). Erano, fino a ieri, i playmakers assoluti: i due pilastri di un sistema politico che come un tormentone continuava a definirsi idealmente bipolare, egemonicamente maggioritario, in un’autonarrazione stucchevole ma pervasiva, tanto che i riflettori dei media erano accesi solo su di essi. Si sono rivelati congiuntamente minoritari. Confinati in un settore parziale dello spazio politico, e tendenzialmente in via di regressione. Contenitori bucati il cui liquido in parte si disperde nell’ambiente, come nell’acquedotto pugliese (l’istituto Cattaneo calcola che quei due milioni di astensionisti in più provengano proprio dai due dioscuri falliti). In parte viene intercettato dall’outsider assoluto, quello che i professionisti della politica trattavano con sufficienza come “antipolitico” e che ha stravinto politicamente, prelevando quote massicce di voti dall’uno e dall’altro, alternativamente, con una precisione chirurgica, da tosatura d’artista. A Torino, per esempio, nella Torino gesuitica del TAV di regime, ha salassato il Pd, prendendosi quasi il 40% dei propri voti di lì, oltre a un altro 20% dagli ex dipietristi. E a Reggio Calabria stremata dalla malavita berlusconiana si è ciucciato quasi un 50% di successo dal Pdl. Nella Brescia ex padana, ha distribuito equamente il prelievo tra Lega Nord (un 30%) e Pd (32%), ma a Padova è andato giù più duro, conquistandosi un 47% di consenso tra i leghisti orfani di Bossi, mentre a Firenze ha fatto il pieno tra gli ex Pd (il 58% dei voti arriva di lì), un po’ come a Napoli (44%) dove comunque non lascia indenne il Pdl (26%).
Si sarebbe tentati di immaginare che sia stata all’opera una grande regia, capace di ridisegnare la mappa del consenso con astuzia mefistofelica. Ma sappiamo che non è così. Dietro questo capolavoro non c’è un “soggetto”. Né tantomeno un apparato (non per nulla Grillo definisce il suo “un non-partito”). Non c’è una “forza politica”, come novecentescamente avremmo detto. C’è la forza delle cose. Un processo selvaggio che ha usato la breccia aperta da Grillo con la sua espressività radicale per forare l’involucro in cui era stato compresso. E sgombrare il campo. Per questo non si possono neppure immaginare le vecchie pratiche (e i vecchi trucchi). E fa un po’ ridere l’idea stessa che si possa ragionare in termini di alleanze, “assi” (Grillo-Bersani???). “accordi di programma” (???) o spartizione delle cariche istituzionali, come se Grillo e Casaleggio fossero come Bersani e Letta, o come Alfano e Cicchitto. Non lo sono – guardategli i capelli e lo capirete – non solo perché vengono da un’altra galassia (hanno vinto per quello), ma perché stanno dentro (o davanti, o sopra) a un’altra cosa: un “non-partito” che non sanno neppure loro che cosa sia realmente. Che gli è cresciuto sotto, o dietro, o davanti, d’improvviso. Che solo vagamente “guidano”. E che non sappiamo neppure se e fino a quando resterà insieme, né come e in quale direzione scaricherà la sua spaventosa energia.

Quello che sappiamo è che d’ora in poi si gioca un’altra partita, su una scacchiera in frantumi e con altri pezzi. Possiamo oscillare tra l’horror vacui che inevitabilmente ci prende se si pensa al futuro e il senso di liberazione per questo brusco e salutare ritorno alla realtà che il voto ci rivela. Ma una cosa non possiamo più permetterci: illuderci che si possa ritrovare presto un qualche equilibrio, e che qualcuno di noi abbia la ricetta giusta da prescrivere. Attrezziamoci pure, perché dovremo abituarci a convivere a lungo con il terremoto. E avremo molto da imparare, quasi nulla da insegnare.

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