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La generalizzazione della precarietà come meccanismo di de-integrazione di classe?

Alcuni compagni/e di CONNESSIONI

Insomma, chi vede soltanto la superficie, direbbe che tutto si riduce alla confusione, alle liti e alla baruffa tra persone. Il movimento al contrario prosegue sotto la superficie, si allarga e si approfondisce guadagnando sempre nuovi ceti e soprattutto le masse stagnanti, più basse, che –ed il giorno non è lontano- ritrovano improvvisamente se stesse nel momento in cui sono colpite dall’illuminazione che proprio loro costituiscono questa colossale massa in movimento, e questo giorno segna la fine di tutti i vigliacchi e della sterile confusione” (Engels a Sorge, 1890).

Gli attuali meccanismi della crisi non contrappongono, come invece spesso si legge nella pubblicistica di sinistra, la produzione alla finanzia, ma la stagnazione al boom speculativo, che con una diversa dinamica, ma percorrendo la medesima strada si incamminano verso un burrone, in un capitalismo che a forza di drogarsi rischia un overdose. Il fenomeno costante in tutte le crisi, generali o parziali, di sovrapproduzione, è dato anzitutto da un arresto nella crescita dell’indice di produzione industriale espressa in dati fisici, poi –secondo la gravita della crisi- dalla sua flessione e dalla sua brusca caduta. La semplice differenza qualitativa dà la misura del’ampiezza del male. Il meccanismo finanziario in atto, accelerato dentro gli attuali processi di crisi, diventa un vero e proprio virus, che potenzia la droga del capitale e di cui non ne può più fare a meno.

Esiste, ormai, una difficoltà crescente del capitale non tanto a incrementare la forza-lavoro sfruttabile, ma a fare il contrario. E’ ovvio che il capitalismo non può più svilupparsi se in assoluto è esaurita la forza lavoro disponibile, ma non all’opposto, ovvero se continuerà ad esserci forza-lavoro il capitalismo continuerà a svilupparsi. Necessita quindi di una massa sempre maggiore di esercito industriale di riserva, di sempre più masse in eccedenza.

Gli stessi benefici provocati dall’aumento della produttività verranno sempre più assorbiti dalla accanita concorrenza per accaparrarsi i profitti sempre minori della produzione mondiale ampliando ancora la forbice sociale. La stessa previsione di Marx, l’aver preconizzato l’aumento della miseria nel corso dell’accumulazione capitalista, è stata ampiamente confermata, e solo circoscrivendo il campo a limitate statistiche salariali di pochi paesi si è potuto vedere una controtendenza a questo meccanismo, che oggi investe tuttavia anche gli stessi paesi delle moderne democrazie industriali o post-industriali.

Paradossalmente gli stessi livelli elevati di benessere raggiunti da larghi strati di lavoratori nei paesi delle democrazie industriali e post-industriali sono diventati limite stesso all’espansione capitalista. Infatti, il mantenimento di tali livelli in condizioni di decrescente redditività richiede un continuo aumento di produzione non redditizia e spiega la stessa parabola finanziaria oggi in atto. A sua volta questo implica il bisogno di aumentare continuamente la produttività del lavoro, e questo nelle condizioni attuali significa continuo aumento dell’esercito industriale di riserva, sia nel suo tratto di assenza del lavoro, sia nella sua dimensione precaria (gli working poor). L’esigenza di provvedere socialmente a questi settori, per quanto espulsi e gentrificati, crea un aumento di spesa che porta a durissima prova le capacità economiche e tecniche del sistema stesso.

L’aumento vertiginoso e costante dell’esercito industriale di riserva (una massa sempre crescente inghiottita dentro la precarietà sociale) acuisce inevitabilmente la percezione di insicurezza sociale, ed investe sia i moderni dannati della metropoli sia i lavoratori garantiti, mentre il margine tra questi due settori si assottiglia sempre di più.

Già la dimensione dell’insicurezza sociale, e non il manifestarsi della pauperizzazione assoluta, porta importanti conseguenze rispetto alla percezione sociale: non c’è bisogno di ridurre la gente in miseria perché cominci a ribellarsi. La ribellione può nascere non appena la gente vede colpire profondamente il proprio abituale livello di vita o si vede impedire l’accesso allo status che considera proprio. I settorisociali che hanno un buon potere di acquisto trovano difficile sopportare le privazioni ed sonotenacemente attaccati all’abituale livello di vita. Oggi, nella percezione diffusa, le nuove generazioniavranno meno possibilità delle precedenti sia sotto il profilo economico sia sotto quello socialecomplessivo.

In questo senso si iniziano già a vedere le crepe del consenso, provocate da una limitata ma progressivalimitazione all’opulenza.

Il processo di colonizzazione del mercato e degli apparati statali della vita quotidiana da parte del capitale aveva determinato un processo di integrazione totale, che colpiva sia la sfera diretta della produzione delle merci sia quella della riproduzione (servizi, struttura familiare, regole sociali), che lasciava fuori solo determinate minoranze, gli strati più poveri e per molti versi marginali. Le ribellioni e movimenti di queste porzioni non potevano quindi diventare una forza sociale abbastanza solida per opporsi agli interessi rappresentati dalla ideologia dominante. Le ribellioni dettate dalla disperazione venivano e vengono facilmente dominate dalle autorità che rappresentavano la maggioranza soddisfatta, la quale comprendeva ampi strati di quel proletariato integrato.

Oggi sul piano fenomenologico la contraddizione fra la domanda di consumi e di vita e la miseria dell’esistenza non è una sparata da pessimisti, ma al contrario coglie il tratto del moderno, dove la degradazione sociale (economica, ambientale, politica), crea nuove fratture e aumenta vertiginosamente l’esercito dei precari, che pur ancora dentro a meccanismi legati alla richiesta di beni di qualità accettabili, nell’attuale contesto di crisi, fa apparire all’orizzonte la questione del cosa, del come e del perché produrre, in un contesto contraddistinto dalla stagnazione economica e dalla spirale finanziaria. E’ possibile rimettere prepotentemente in gioco, a livello potenziale, l’ipotesi rivoluzionaria, poiché si può vedere un aumento dei settori proletari de-integrati (la generalizzazione della precarietà) unito a un deficit progettuale del capitalismo stesso in questo contesto di crisi (la stagnazione economica). Dentro a questo quadro la quantità di massa legata all’insicurezza sociale e alla stessa porzione precaria può far diventare qualitativamente diversa la lotta di classe. Per certi versi la stessa dicitura di 99%, slogan dei recenti movimenti di protesta che attraversano gli Stati Uniti, è la prefigurazione di questa dinamica (1).

La stessa mitologia creata da decenni di benessere, se si considera una determinata porzione di mondo, della presunta fine del proletariato sta svanendo. Si era fatto coincidere il proletariato con la classe operaia classica, vale a dire, il proletariato industriale in senso stretto marxiano. E’ vero che solo una minoranza della moderna popolazione lavoratrice è occupata nella produzione, ma la distinzione è ingannevole, perché ciò che differenzia il proletariato dalla borghesia non è una serie determinata di occupazioni, ma la mancanza di controllo sui mezzi di produzione. In questo senso la grande maggioranza dei lavoratori impegnati dentro i cosiddetti servizi sono davanti ai capitalisti nella medesima dimensione sociale dei lavoratori occupati nella produzione vera e propria.

Questi meccanismi ci consegnano un diverso panorama sociale in cui si modificano anche il ruolo delle organizzazioni dei lavoratori e i parametri della loro efficacia.

Pensiamo al dibattito che si sta sviluppando in merito all’Articolo 18, e della utile ma limitata difesa di tutto l’arco sindacale italiano di questo paletto giuridico. Se 20 anni fa la porzione precaria era una minoranza, anche se si poteva già cogliere il suo tratto progressivo quantitativo, oggi il marciare da fermi delle organizzazioni sindacali e delle relative compagini di sinistra appare in tutta la sua evidenza. Il non aver concentrato le proprie energie in questi settori, spesso non organizzabili secondo i meccanismi sindacali-statali classici, era per molti versi inevitabile da parte dei sindacati e delle organizzazioni di sinistra, elementi che partecipavano a pieno titolo al meccanismo di integrazione sociale. Anche quando si affrontava la tematica della precarietà veniva vista come stadio inferiore in un meccanismo progressivo di scalata sociale e di garanzie. Questo veniva giustificato prendendo il dato quantitativo, ma possiamo vedere come la crisi sta accelerando il processo di de-integrazione e di generalizzazione della precarietà, rendendo inefficaci le forme organizzative fin qui adottate, che in alcuni casi diventano addirittura dannose, quando favoriscono una vera e propria guerra tra poveri.

Quando parliamo di precarietà lavorativa non possiamo comunque non sottolineare le differenze cheesistono all’interno della stessa massa di precari e i comportamenti che l’organizzazione del lavoro, la dimensione territoriale, il genere e l’età porta con sé, tuttavia questo non inficia la tendenza in atto e il processo di generalizzazione di una simile condizione. E’ indubbio che essere donna e precaria e magari non autoctona porta con sé una percezione diversa e una relativa insicurezza sociale.

Prendiamo le ultime statistiche riportate da DATAGIOVANI per il 2010 che ha stimato il numero di lavoratori del settore privato a cui può essere applicato l’Articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, basandosi sulle Rilevazioni delle forze di lavoro dell’Istat.

Quasi 7 milioni i “protetti”, circa 6 milioni e 400 mila gli “esclusi”. È questa la stima del numero di lavoratori del settore privato a cui può essere applicato o meno l’Articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, che prevede il reintegro del lavoratore in caso di licenziamento senza giusta causa nelle imprese con più di 15 dipendenti. Sono infatti 6 milioni e 962 mila i lavoratori dipendenti a tempo indeterminato occupati in aziende con più di 15 dipendenti; tra gli esclusi si contano invece 4 milioni e 640 mila dipendenti in aziende con meno di 15 dipendenti, 825 mila dipendenti a termine delle aziende mediograndi e poco più di 900 mila collaboratori e partite iva con un unico committente. Il risultato è che il 52% dei lavoratori può essere definito “protetto”.

Più lavoratori protetti al Nord: il tasso di protezione è del 57% circa al Nord (dove il tasso arriva al 75%) con punte del 58% in Friuli Venezia Giulia, Piemonte e Valle d’Aosta, contro il 48% del Centro ed il 44% del Mezzogiorno (si scende al di sotto del 40% in Calabria e Sardegna). Il motivo va ricercato soprattutto nel fatto che al Centro e al Sud è più elevata la proporzione di lavoratori impiegati in piccole imprese. Va però rilevato che in queste ripartizioni la percentuale di lavoratori del pubblico impiego, esclusi da questa analisi, è più elevata nel Nord Italia.

A questo dato si somma il dato sulla popolazione lavoratrice femminile e giovane: le prime scontano una protezione del 12% inferiore agli uomini (45% contro 57%), gli Under 30 vedono poi crescere il divario rispetto agli adulti di quasi il 20% (41% contro 58% / 59%). Donne e giovani sono infatti più presenti nelle piccole imprese dove l’Articolo 18 non vale, oltre che ad avere più frequentemente contratti a tempo determinato in grandi aziende.


Elaborazioni DATAGIOVANI su dati Istat - Rcf

Nota metodologica

- Prima di operare le elaborazioni sui dati medi del 2010 è stato effettuato un controllo di coerenza dei dati 2009 della Rilevazione sulle forze lavoro con i dati dell’ Archivio ASIA 2009 dell’Istat che fornisce il numero di addetti dipendenti ed indipendenti per classe di addetti delle imprese, ottenendo risultati del tutto omogenei.

- I dati sono il frutto delle elaborazioni medie sulle quattro rilevazioni trimestrali del 2010

- Nelle elaborazioni sono stati esclusi i settori dell’agricoltura, della pubblica amministrazione, dell’istruzione e della sanità. La scelta è stata determinata dalla volontà di allinearsi alla stessa impostazione metodologica dell’Archivio ASIA, nonché di mantenere circoscritta l’analisi alle imprese del settore privato.

- Per calcolare il numero di lavoratori protetti, ossia il numero di dipendenti a tempo indeterminato nelle aziende con più di 15 dipendenti, si è tenuto conto sia del numero di lavoratori presenti nella sede dell’azienda in cui è impiegato il lavoratore sia del numero di sedi dell’azienda.

 

Se questi dati ci danno l’idea della tendenza in atto rispetto al mondo del lavoro, la percezione della generalizzazione della precarietà trova anche sotto gli aspetti sociologici più stretti una ennesima conferma.

La stessa sociologia inventa nuovi termini per indicare una porzione giovanile precarizzata e disintegrata: il popolo dei neet. Nei neet confluiscono ampi settori di proletariato giovanile e di scolarizzati del ceto medio. Per la prima volta i figli stanno peggio dei padri, e a differenza degli ultimi non hanno più la percezione di una possibile elevazione sociale. Questo provoca meccanismi di esclusione sociale generalizzata, che arrivano a lambire settori che fino a poco tempo fa erano protetti. Uno studente universitario oggi in Italia non solo subisce un attacco rispetto al restringimento del diritto allo studio,ma alla stessa qualità dello studio e allo sbocco occupazionale relativo allo studio fatto. Non è un caso che accanto alle migrazioni classiche di porzioni di giovani del sud verso il nord o in Europa, si assiste ad una inedita immigrazione: la fuga dei cervelli verso il centro Europa, gli USA e il Giappone. Sul piano empirico le trasformazioni del mercato del lavoro, in adeguamento ai piani economici dettati dall’Europa, hanno portato ad una disoccupazione giovanile che sfiora il 30% ed ad uno sfasamento tra la qualifica del titolo di studio conseguito e le mansioni effettivamente svolte. Uno studio realizzato da Monitor (la banca dati ministeriale dei mercati del lavoro, curata dall’agenzia tecnica Italia Lavoro) ha fatto emergere che esistono 2 milioni di giovani compresi tra i 15 e i 29 anni che sono disillusi, depressi, insoddisfatti e demotivati: non studiano, non lavorano, non frequentano corsi e non sono in cerca di alcuna occupazione. E’ la generazione neet, acronimo che sta a significare: Not Employment, Education and Training,, un settore centrale per quanto riguarda le fasce giovanili. In realtà la ricerca di lavoro è continua, ma l’unico lavoro che esiste è quello precario, percepito come un non-lavoro, perché non esiste la possibilità di alcuna proiezione e programmazione sociale per il futuro.

In Italia, nel 2009, era possibile stimare un numero di neet pari a 2.043.615 il 56,5% femmine ed il 43,5% maschi. I valori più alti, in tutte le regioni, si registrano, sia per i maschi che per le femmine, per giovani in possesso di diploma di scuola superiore di 4-5 anni e per quelli in possesso di licenza media. Questo dato ci fa comprendere come esista una polarizzazione sociale che sta investendo le nuove generazioni e una divisione netta di classe: il dato assoluto dei neet è la prova empirica del processo di esclusione sociale di una generazione. Accanto a questo, sul piano fenomenologico, si legano altri elementi: nel 1983: la quota dei 18-34enni celibi/nubili che viveva in famiglia era del 49%, nel 2000 era arrivata al 60,2%, attestandosi al 58,6% del 2009. Tra i 30-34enni quasi il 30% vive ancora in famiglia, una quota triplicata dal 1983. Sono cambiate anche le motivazioni. Una volta chi continuava a stare in famiglia lo faceva per scelta, adesso la prolungata convivenza dei figli con i genitori dipende soprattutto dai problemi economici 40,2% e dalla necessità di proseguire gli studi 34%; solo per il 31,4% si tratta di una decisione presa in piena libertà. Come sempre i dati statistici vanno presi come dati approssimativi, tuttavia pensiamo che si possa tranquillamente affermare che il dato reale sia ancora più negativo dall’inchiesta riportata e oggi abbiamo uno sviluppo quantitativo del popolo dei neet.

I neet sono la punta dell’iceberg del fenomeno dell’insicurezza sociale, ma parallelamente rappresentano una bomba a mano innescata dentro la società italiana, perché la stessa disintegrazione si può leggere come processo di de-integrazione al capitalismo stesso.

Non deve quindi stupire come oggi, siano proprio le componenti studentesche (e spesso le più garantite), ad animare le mobilitazioni mettendo al centro la parola d’ordine della funzionalità, del merito, della mancanza di valorizzazione del ruolo del loro lavoro cognitivo in potenza per la valorizzazione del capitale, preoccupati dall’attuale stagnazione sociale che li porta verso il basso, dove perdono oltre a determinati interessi materiali anche lo stesso ruolo sociale. Un disperato colpo di coda di una borghesia (nelle sue mansioni imprenditoriali, creative, intellettuali, ecc…) in attesa di una scalata impossibile, che non trova il suo ruolo in un meccanismo capitalistico sempre più totalizzante e stagnante. Questa ricerca di scalata/ruolo sociale cozza con un meccanismo di disintegrazione creato dal capitale stesso. Lo stesso proletariato scivola dentro un meccanismo di de-integrazione, e le continue ricerche di integrazione (e relative difficoltà) portate avanti dai corpi sociali intermedi (partiti-sindacati-movimenti) dimostrano questa dinamica.

Lo stesso meccanismo di de-integrazione che colpisce il proletariato assume tratti di disintegrazione quando porta determinati settori sociali all’interno di una dimensione di sotto-proletariato, ma per quanto vasto sia questo fenomeno (la sotto-proletarizzazione) oggi il tratto distintivo è l’aumento dell’esercito industriale di riserva e la relativa precarietà sociale diffusa.

Sarebbe utile iniziare a rovesciare l’apparente apatia sociale proletaria in un contesto di de-integrazione, come risposta attiva di fronte alla insulsaggine delle ricette economiche sociali per il presente. I sindacati e i diversi corpi intermedi della società, rimangono schiacciati in questa dinamica, meccanismo che coinvolge sia le componenti complici sia quelle rimaste su un piano di concertazione (2). E’ indubbio che per la sinistra il problema non era il capitalismo, ma la regolamentazione dello stesso in unaforma più razionale, più efficace, più moderna, meno ingiusta, meno anarchica. Anche le parti più antagoniste parlavano e parlano di impadronirsi del denaro dei ricchi, e distribuirlo ai poveri.

Il tema della regolamentazione si situa comunque sul terreno del capitale, questa soluzione non è mai contro la legge del valore. Se in passato la regolamentazione poteva trovare uno sbocco e praticità, e questo è dimostrato dallo sviluppo dei diversi corpi intermedi della società a sinistra, ora un tale meccanismo si inceppa di fronte ai processi della crisi, dove i margini della stessa regolamentazione e distribuzione si assottigliano con il montare della precarietà sociale diffusa. Va letto in questo senso il vuoto che ha colpito la sinistra, che vedeva in Berlusconi un anarchico-capitalista.

Se decliniamo questi processi alle dinamiche formali di rappresentazione possiamo scorgere nel passaggio dal movimento dei tetti a quelli delle tenda un esempio, non tanto simbolico, di questa rincorsa e difficoltà. Dopo la tenda si arriva alla strada….dove i margini dell’economia politica si fanno sempre più assottigliati e il confine di cosa difendere, cosa prendere e cosa volere cozza contro un meccanismo di de-integrazione di classe che stravolge tutti i paradigmi precedenti, ma al tempo stesso apre, se sviluppate, prospettive inedite e altamente pericolose per il capitale stesso.

Bologna, inverno 2011 http://connessioni-connessioni.blogspot.com/

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Note
1) Lo slogan 99% è ovviamente contradditorio, e spesso nasconde un disperato tentativo da parte dei settori in via di proletarizzazione di difendere il loro status a scapito dei settori proletari, tuttavia possiamo scorgere i tratti positivi: la ricerca di una generalizzazione e la percezione di non essere più minoranze o marginali. Gli attuali movimenti si differenziano inoltre notevolmente dai precedenti, pensiamo all’epopea no-global, avendo sfumato notevolmente i tratti etici, perché oggi la contraddizione viene vissuta direttamente e non traslata sul terzo mondo.
2) Al di là di slogan e proclami, il meccanismo della concertazione statuale è proprio della forma sindacale legata ad una specifica epoca figlia di meccanismi di integrazione, che coinvolge basisti o centralizzatori, riformisti o rivoluzionari. Dove la concretezza e lo strappar vittorie è legato all’accettazione del piano della concertazione-integrazione con il capitale stesso. Non è utile valutare il sindacalismo, il meccanismo della concertazione rispetto ad una presunta purezza ideologica programmatica, occorre invece capire quando questa forma diventa immediatamente reazionaria, come espressione di un riformismo in mancanza di meccanismi di ridistribuzione generali.

Bibliografia:
Les Amis de 4 Millions de Jeunes Travailleurs, Un monde sans argent: le communisme
P.Mattick, Marx e Keynes, i limiti dell’economia mista
J.Barrot, Capitalismo e Comunismo,
Edizioni 1975,
La crisi storica del capitale drogato
Harry Braverman, Lavoro e capitale monopolistico
G.Carchedi, Dietro e oltre la crisi
P.Giussani, Vizi privati e pubbliche virtù


 

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