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Tra urban riots e book blocs

Ovvero: Sulla “generazione della crisi”

written by Federico Campagna

I “giovani” sono in stato di ribellione permanente, perché persistono le cause profonde di essa, senza che ne sia permessa l’analisi, la critica e il superamento (non concettuale e astratto, ma storico e reale); gli “anziani” dominano di fatto ma… après moi le déluge, non riescono a educare i giovani, a prepararli alla successione. Perché? Ciò significa che esistono tutte le condizioni perché gli “anziani” di un’altra classe debbano dirigere questi giovani, senza che possano farlo per ragioni estrinseche di compressione politico-militare.

Era così che Antonio Gramsci discuteva la “quistione dei giovani” nei suoi Quaderni del carcere. La riflessione gramsciana scaturiva dal contesto politico italiano del primo dopoguerra. In quel frangente, il collasso della vecchia classe dirigente liberale aveva visto un’avanguardia consistente delle nuove generazioni esprimere la propria “ribellione” nei confronti dello status quo sotto forma di supporto attivo allo squadrismo fascista. Nei Quaderni, Gramsci interpretava questa convergenza a destra dei giovani come il risultato dell’incapacità – da lui spiegata alla luce di fattori esogeni di natura “politico-militare” – da parte del movimento operaio di esercitare una funzione “dirigente” nel paese. Questo paper nasce dall’assunto che l’analisi di Gramsci sia proficua per descrivere alcuni tratti della situazione politica contemporanea in Italia – e oltre. In particolare, penso che la difficoltà, in un periodo di “crisi”, nel ricambio generazionale all’interno della classe dirigente sia un elemento chiave per comprendere il prepotente ritorno dei giovani sulla scena pubblica europea negli ultimi tre anni; ma anche per capire perché il protagonismo giovanile si è espresso prevalentemente in forme “antagoniste” piuttosto che non “propositive” (la stessa scelta del termine indignados per caratterizzare il movimento di Plaza Catalunya mi pare emblematica).

Utilizzando categorie di matrice gramsciana, cercherò per prima cosa di tracciare un profilo storico e sociale della “generazione della crisi” – vale a dire, quei nuclei di giovani che si sono venuti politicizzando dal 2008 in avanti; quindi analizzerò alcune delle ragioni per cui ritengo possibile una mobilitazione politica radicale tra i più giovani, e i fattori che invece ostacolano questo processo; infine, cercherò di delineare una bozza di programma d’azione per i giovani di sinistra d’inizio ventunesimo secolo.


La “generazione della crisi”
  Rispetto a categorie analitiche come “classe” o “genere”, il concetto di generazione è più difficile da definire. Da un lato, l’importanza del contesto storico-sociale all’interno del quale un individuo viene socializzato alla vita adulta (in maniera assai approssimativa, potremmo dire, quella fase di “formazione” che va tra i quattordici e i trent’anni di età; ma i limiti sono difficili da determinare e possono variare enormemente nel tempo e nello spazio) nel definirne mentalità, interessi e comportamenti appare innegabile. Come già scrisse Goethe a inizio Ottocento, ciascuno di noi sarebbe una persona completamente differente, se fosse nato dieci anni prima o dopo. D’altro canto, i modi in cui gruppi diversi di individui arrivano a sviluppare identità e solidarietà collettive su base generazionale sono difficili da afferrare. Una definizione del concetto di “generazione” basata esclusivamente sul dato anagrafico non è soddisfacente: l’idea che tutte le persone nate ad un dato momento condividano una stessa identità generazionale non resiste alla prova dei fatti. In effetti, è possibile che due individui nati nello stesso giorno, nello stesso posto, finiscano per introiettare identità generazionali differenti, se non contrastanti.

Alla base delle identità generazionali possono esservi valori e ed esperienze assai eterogenei. Negli anni venti del secolo scorso, il sociologo tedesco Karl Mannheim ha contribuito a superare alcune di queste difficoltà euristiche, ri-concettualizzando l’idea di generazione. A detta di Mannheim, è necessario distinguere tre diversi piani: la “collocazione generazionale”, che è un dato universale derivante dal fatto di essere nati e cresciuti in uno specifico contesto-storico sociale; il “legame generazionale”, che è il vincolo che si può creare tra un gruppo di individui che, condividendo una stessa collocazione generazionale, si trovano ad affrontare nella fase di passaggio alla vita adulta un determinato problema storico (ad esempio: una guerra civile, la necessità di un rinnovamento culturale, una profonda trasformazione economico-sociale etc); e infine l’”unità di generazione”, che è costituita da coloro che danno una stessa risposta collettiva a quel problema storico (per es., nel caso della guerra civile italiana del ’43-’45, i partigiani, o i repubblichini). Concentrandosi sul contesto storico-sociale in cui una generazione viene socializzata, questo modello consente di spiegare l’esistenza di identità generazionali differenti in un gruppo di coetanei, e le modalità attraverso cui queste identità di definiscono.

Prendendo le mosse dall’analisi di Mannheim, mi pare che si possa parlare, per gli ultimi tre anni, della comparsa di una “generazione della crisi” sulla scena pubblica occidentale. Il “problema storico” che ha portato al nascere e al consolidarsi di nuovo legami generazionali è innanzitutto la crisi finanziaria esplosa nel 2007-2008 – una crisi trasformatasi ben presto in una fase di profonda e prolungata recessione economica, a causa delle politiche di taglio della spesa pubblica e austerity adottate dai governi occidentali. La crisi ha finito per rendere evidente l’indadeguatezza delle istituzioni della democrazia parlamentare fondata sullo stato-nazione, come provano l’insediamento di governi tecnocratici in Italia ed in Grecia. In generale, penso che si possa descrivere la crisi che i paesi occidentali stanno attraversando come una crisi sistemica – laddove per sistema intendo quel connubio di capitalismo neoliberista e mediocrazia (più o meno venata di populismo, a seconda dei diversi contesti nazionali) che ha caratterizzato gli ultimi trent’anni.
 
La crisi ha colpito in maniera diretta, e profonda, i giovani. I dati sulla disoccupazione giovanile sono eloquenti. In Inghilterra, all’inizio di settembre del 2011 , più di un quinto dei giovani tra sedici e ventiquattro anni – pari a oltre un milione di persone – risultavano disoccupati (il dato più alto di sempre). In Spagna, si arriva a un mirabolante 45% per quelli nella fascia di età 16-29. In Italia, il dato ufficiale si attesta attorno al 27,8%, a cui si devono sommare almeno un altro 7,7% di “sottoccupati” – persone costrette ad accettare un lavoro a tempo parziale in mancanza di altro. Nel complesso, la probabilità che un giovane italiano sia disoccupato è tre volte quella di un adulto. Questi dati attestano in modo inequivocabile come la crisi economica sia anche un fenomeno di natura generazionale – un aspetto talmente evidente da essere riconosciuto persino da cocchieri del neoliberismo europeo come Mario Draghi o Mario Monti.
 
La “crisi”, tuttavia, non ha investito solo l’economia capitalista, ma anche la politica, per lo meno nelle sue forme canoniche (la democrazia parlamentare). La situazione di crescente disagio sociale, e l’incapacità da parte delle classi dirigenti dei paesi occidentali di dare una risposta convincente al malessere diffuso, hanno gettato ulteriore discredito su sistemi politici già da tempo percepiti come distanti dagli interessi e dalle vite dei cittadini. Il crescente astensionismo, e il successo di movimenti di protesta come il Piratenpartei in Germania (secondo un sondaggio della ZDF, votato prevalentemente da giovani sotto i 30 anni, per lo più diplomati), o il Movimento cinque stelle di Beppe Grillo in Italia, confermano il crescente rifiuto delle forme tradizionali della politica, soprattutto da parte dei più giovani. Stando ad un sondaggio commissionato da SWG nella primavera del 2010, ben il 32% di quelli nella fascia di età 18-34 si dichiaravano tendenzialmente favorevoli all’astensione, a fronte di un 17% tra quelli nella fascia di età 45-54. Una successiva indagine condotta nel settembre 2011 ha rivelato che circa un terzo della popolazione italiana (e, ancora una volta, soprattutto i giovani tra i 18 e i 29 anni) manifesta scetticismo nell’idea stessa di democrazia. Un senso di sfiducia nelle istituzioni parlamentari e - in misura forse ancora maggiore - la percezione di non essere rappresentati sembrano essere largamente diffusi tra i giovani europei. Sarebbe errato, tuttavia, pensare che questa sfiducia porti semplicemente all’apatia e al distacco dalla politica, laddove per quest’ultima s’intenda una presa di posizione riguardo alle strutture e alle pratiche della vita associata; al contrario, la mobilitazione giovanile c’è stata, ma ha assunto forme nuove e tendenzialmente oppositive, al di fuori da - e tendenzialmente in opposizione a - i canali e le modalità proprie della politica istituzionale o di partito.
 

Riots, book bloc
e apatia
 
Nell'ultimo anno, per due volte i giovani britannici si sono riappropriati dello spazio pubblico, mettendo in discussione il vecchio adagio "be young and shut up". Nell'autunno del 2010, il paese è stato scosso da un'ondata di manifestazioni di piazza e occupazioni studentesche, di proporzioni probabilmente superiori persino a quelle del mitico 1968 (secondo stime attendibili, oltre 100 mila studenti britannici avrebbero partecipato attivamente alla protesta). La scintilla che ha fatto divampare la rabbia giovanile è stata la decisione del governo di alzare le tasse universitarie, portandole da 3 a 9,000 sterline l'anno, e di abolire l'Educational Manteinance Allowance, un sussidio di 30 sterline la settimana per gli studenti medi di estrazione working-class tra i 16 e i 18 anni. Significativamente, queste misure sono state introdotte da un governo il cui vice-premier, Nick Clegg, si era impegnato in campagna elettorale a rendere l'accesso all'università gratuito e a promuovere maggiore mobilità sociale. La percezione che vi sia un abisso incolmabile tra giovani generazioni e politica istituzionale non poteva essere più marcata.
 
A pochi mesi di distanza, nell'estate del 2011, alcuni dei quartieri popolari di Londra sono stati sconvolti da un'ondata di disordini e violenze. Nell'immediato, i media britannici hanno motivato le riots alla luce di una presunta gang culture diffusasi negli ultimi vent’anni tra i giovani delle working-classes e, in specie, tra i black Britons. In realtà, un'analisi del profilo sociologico di quelli che sono stati processati per crimini legati alle sommosse rivela uno scenario differente. Non più del 13% dei processati è stato riconosciuto come membro di una qualche gang; significativamente, il 46% dei processati è di colore (un dato molto più alto rispetto al peso dei black Britons sulla popolazione dei distretti sconvolti dalle violenze: a Nottingham il 62% dei processati erano coloured, a fronte di un 9% di abitanti di colore sul totale), più della metà hanno meno di 20 anni, e ben il 42% è composto da studenti cui era stato riconosciuto il diritto ai free school meals (buoni mensa gratuiti dati ai ragazzi di famiglie povere). Questi dati vanno letti tenendo ben presente la natura impudentemente classista della politica britannica: basti pensare che su 29 membri del governo britannico, almeno 23 sono miliardari. Un senso di rabbia e di frustrazione nei confronti di una società governata da persone radicalmente altre (per età, estrazione sociale, e background etnico) ha sotteso (in maniera più o meno consapevole) alla scelta dei giovani proletari di partecipare alla violenza urbana, come è emerso in diverse interviste condotte tra i rioters.
 
In Italia, un nuovo ciclo di lotte studentesche è iniziato nell'autunno del 2008, in opposizione alla riforma Gelmini, con la nascita dell'Onda. Nel 2010, il movimento ha raggiunto un picco di mobilitazione e conflittualità, con l'invenzione della pratica dei book blocs e  gli scontri di Via del corso. Dopo alcuni mesi di riflusso, sull'onda lunga delle proteste degli Indignados e di Occupy, la rabbia giovanile è tornata prepotentemente ad occupare la scena pubblica con gli scontri di Piazza san Giovanni del 15 ottobre. A novembre, a pochi giorni di distanza dall’insediamento del governo tecnocratico di Mario Monti, sono stati ancora una volta i giovani a guidare la protesta di piazza.
 
Crisi economica e mancanza di rappresentanza nelle istituzioni creano una miscela esplosiva, che fa dei giovani di inizio ventunesimo secolo un soggetto sociale marginale, potenzialmente ribelle, e persino rivoluzionario. Allo stesso tempo, una serie di fattori di carattere sia strutturale che sovrastrutturale contribuiscono a smorzare le tensioni generazionali e a indurre i giovani europei a rientrare nei ranghi.
 
Su un piano strutturale, va considerato il peso dei legami familiari, soprattutto nei paesi dell'Europa mediterranea, come rete di protezione sociale alternativa rispetto al welfare state. In Italia, in particolare, i livelli di indebitamento privato delle famiglie italiane sono decisamente bassi (nel 2009, pari al 77% del reddito disponibile, a fronte del 93% della Germania e di un dato medio del 105% tra i paesi dell'area euro). Questo significa che esiste una riserva nascosta (che spesso fugge pure a qualsiasi accertamento fiscale) che può essere impiegata dagli adulti per sostenere i più giovani e smorzare l'impatto della crisi. Si può azzardare che è proprio il carattere economico, welfaristico dei legami intergenerazionali che spiega certi comportamenti di matrice "familistica" particolarmente diffusi in Italia. A fronte di una profonda sfiducia nello stato e nelle istituzioni, è la famiglia a provvedere gli ammortizzatori sociali di base ai più giovani. Ovviamente, un sistema del genere sul lungo periodo non può che accentuare le differenze di classe, e costringere i giovani a una costante dipendenza economica, ma anche morale, nei confronti degli adulti. In mancanza di una proposta alternativa che offra ai giovani un supporto pubblico minimo garantito, la predisposizione a una mobilitazione politica in senso radicale viene attenuata dalle reti familiari.
 
La questione della mancanza di una proposta alternativa riemerge con forza quando si va ad analizzare la dimensione sovrastrutturale della crisi. Sicuramente, un senso crescente di sfiducia nei confronti sia del capitalismo neoliberista che di un sistema politico fondato sullo stato-nazione e sulle istituzioni della democrazia parlamentare si sta diffondendo tra le popolazioni europee, e in particolare tra i giovani. In questo senso, tornando a Gramsci, si potrebbe azzardare l'ipotesi che quella che stiamo attraversando è una fase di "crisi di egemonia": il rapporto tra istituzioni pubbliche e società civile è in profonda crisi, e il potere politico ed economico esercitato dalle classi dirigenti sul resto della società è sempre meno fondato da un consenso di natura egemonica, e sempre più basato su forme di dominio coercitivo (in questo senso, la farsa del referendum greco sulle misure di austerità ha un valore emblematico). Allo stesso tempo, la mancanza di una proposta contro-egemonica chiara e definita (vale a dire, un modello alternativo di strutturazione del rapporto tra potere politico e società civile, fondato su una configurazione differente dei rapporti di forza tra le diverse classi sociali) rappresenta l'ostacolo più difficile da superare per le sinistre. Al momento, è chiaro a tutti contro cosa si lotta, a nessuno per cosa si lotta esattamente.
 
A mio avviso, è proprio la mancanza di una visione politica alternativa che è alla radice delle recenti esplosioni di violenza giovanile, tanto in Inghilterra, quanto in Italia. Nel momento in cui si esperisce una condizione di marginalità e precarietà sociale, da cui non si vede alcuna possibile via d'uscita, la rabbia monta, fino a sfociare in forme di conflittualità distruttiva - vale a dire, non finalizzata ad alcun altro scopo se non quello di esprimere un'estraneità radicale al sistema. Come è stato notato dagli stessi servizi di informazione italiani, i livelli di violenza sin qui espressi dai giovani sono sorprendentemente bassi, rispetto alla condizione di disagio sperimentata nel quotidiano (in questo senso, agiscono sia fattori strutturali - i sovracitati legami di natura intergenerazionale - che sovrastrutturali - un trentennio di egemonia neoliberista durante il quale l'idea stessa di conflittualità politica e sociale è stata rimossa dal discorso pubblico). L'impressione è di trovarsi di fronte a una bestia dormiente, che se viene stuzzicata può scatenarsi e mordere ferocemente, senza riuscire però a strapparsi di dosso il giogo che la attanaglia. Ritornando alla citazione iniziale di Gramsci, si può ben dire che al momento "I giovani sono in stato di ribellione occasionale [piuttosto che non permanente], perché persistono le cause profonde di essa, senza che ne sia permessa l’analisi, la critica e il superamento (non concettuale e astratto, ma storico e reale)".  Gli eventi del 15 ottobre a Roma dimostrano con chiarezza che “l'indignazione non basta”, come giù era stato notato da Pietro Ingrao, "in mancanza di una lettura del mondo e di una adeguata pratica politica che dia loro corpo. Che l'indignazione possa supplire alla politica e, in primo luogo, alla creazione delle sue forme efficaci è illusorio." La domanda quindi, è come si possano costruiredelle proposte e delle forme efficaci per mobilitare una parte significativa dei giovani della "generazione della crisi" a sinistra, e formare una nuova "unità generazionale" che risponda alla crisi con una proposta di cambiamento radicale.
 

Giovani intellettuali, giovani proletari
 
In un post pubblicato nel febbraio 2011, nei giorni della caduta di Ben Ali e di Tahrir, il giornalista della BBC Paul Mason individuava venti ragioni che erano alla radice dell’esplosione dei nuovi movimenti di protesta a livello globale. Mason notava come il soggetto sociale di riferimento delle nuove proteste fosse “il laureato senza futuro”, in grado di organizzarsi e fare politica al di fuori dei canali tradizionali, attraverso i nuovi social media. Il giornalista puntava l’attenzione sul ruolo centrale giocato dai giovani di estrazione middle class, sottolineando lo scarso peso delle organizzazioni sindacali nei nuovi movimenti.
 
Senza dubbio, molti degli aspetti messi in evidenza da Mason sono centrali nello spiegare le ragioni e le forme della protesta giovanile. L’assenza di prospettive (esistenziali ancor prima che occupazionali) per i giovani del ceto medio con un elevato livello d’istruzione sta radicalizzando una nuova generazione di intellettuali - laddove, con Gramsci,
 
per intellettuali occorre intendere non solo quei ceti comunemente intesi con questa denominazione, ma in generale tutto lo strato sociale che esercita queste funzioni organizzative in senso lato, sia  nel campo della produzione, sia in quello della cultura, e in quello politico-amministrativo.
 
La radicalizzazione dei giovani intellettuali del ceto medio è il prodotto dell’incapacità delle classi dirigenti di garantirsi una successione, co-optando le elites delle nuove generazioni all’interno delle proprie istituzioni e reti di potere. Si tratta di un fenomeno che attesta in maniera inequivocabile il carattere strutturale della crisi: il sistema non è in grado di riprodurre se stesso.
 
La rivolta dei giovani intellettuali è un serio pericolo per lo status quo. La loro prossimità culturale ai valori e ai linguaggi propri delle classi dirigenti rende inefficace la strategia della demonizzazione mediatica (e classista), ampiamente messa in atto nel caso delle riots agostane. I giovani intellettuali sono in grado, almeno sino a un certo punto, di appropriarsi di alcuni degli strumenti egemonici del sistema neoliberista (i mezzi di comunicazione) per portare avanti le proprie rivendicazioni. Si spiega così l’attenzione spropositata che un movimento di stampo “neo-situazionista” (e fortemente middle-class) come Occupy ha avuto da parte dei media, soprattutto nel mondo anglosassone. Rispetto ai giovani delle working-classes, per i giovani intellettuali è più semplice decostruire il discorso egemonico neoliberista, perché hanno una conoscenza diretta (all’università, sul lavoro, e attraverso le loro reti di relazioni) delle istituzioni, degli strumenti e delle pratiche che ne costituiscono il fondamento.
 
Allo stesso tempo, sarebbe superficiale pensare che i giovani intellettuali possano, da soli, rappresentare un soggetto politico rivoluzionario. Una serie di fattori di carattere sia culturale (quella stessa vicinanza alla mentalità e ai valori delle classi dirigenti di cui sopra) e strutturale (una disponibilità economica “occulta”, sotto forma di beni e capitali accumulati dai genitori) rischia di trasformare la loro protesta in una mobilitazione di tipo implicitamente corporativo. In questo senso, l’implosione del movimento studentesco britannico nel 2011 è emblematica: piuttosto che sostenere le battaglie condotte dai sindacati, o cercare di investigare nello specifico le cause delle riots di agosto, i vari gruppi nati dalle lotte studentesche si sono ripiegati su se stessi, mentre la massa degli studenti considera le lotte del 2010 come una battaglia persa.
 
Se l’obiettivo (e la necessità) è quello di costruire un’alternativa ad un sistema neoliberista in inesorabile decomposizione, la vera sfida sta nel cercare una saldatura con le istanze dei giovani del proletariato urbano, nell’intento di costruire un nuovo soggetto sociale potenzialmente egemonico. Non si tratta di assumere un atteggiamento messianico, ponendosi nella prospettiva di “andare al popolo”, “redimere” le working-classes, o di svolgere una funzione maieutica che consenta a queste ultime di sviluppare una coscienza rivoluzionaria. Non si tratta neppure di fingere che le differenze di classe non esistano, mascherandosi dietro slogan come quello del 99% - ottimo per la propaganda, assai superficiale da un punto di vista analitico.
 
Al contrario, l’obiettivo deve essere il raggiungimento di un’unità dialettica tra le due componenti di questo nuovo blocco generazionale – vale a dire una sintesi politica che scaturisca dal riconoscimento delle reciproche differenze, e delle ragioni e gli obiettivi di una lotta comune contro l’ordine esistente. Ma come?
 
In questo senso, mi pare che una soluzione possa venire da un’analisi ravvicinata del concetto di intellettuale in Gramsci. Come abbiamo visto, per Gramsci è intellettuale chiunque eserciti una funzione direttiva e organizzativa. Ma Gramsci va oltre e nota anche che in realtà
 
ogni gruppo sociale, nascendo sul terreno originario di una funzione essenziale nel mondo della produzione organica, si crea insieme, organicamente, uno o più ceti di intellettuali che gli danno omogeneità e consapevolezza della propria funzione non solo nel campo economico, ma in quello sociale e politico.
 
In effetti, l’idea per cui le classi popolari sarebbero strutturalmente incapaci di produrre un loro gruppo dirigente, e necessiterebbero quindi di una “supplenza” da parte degli intellettuali del ceto medio, mi sembra una semplificazione. La mia impressione è che anche nelle realtà del proletariato urbano (dalle gang di strada, alle curve degli stadi) esista una precisa distinzione di ruoli, e dei gruppi dirigenti, o quanto meno delle figure di riferimento – degli “intellettuali di strada”, per così dire. A un primo sguardo, l’intellettuale di formazione accademica può essere portato a passar sopra a queste distinzioni, a causa della distanza culturale rispetto ai linguaggi e alle pratiche della strada. Eppure, questi “intellettuali di strada” svolgono certamente una funzione di carattere organizzativo rispetto alla loro base sociale di riferimento, ed agiscono sulla base di logiche tutt’altro che irrazionali (una categoria utile per comprenderne le strategie mi pare sia quella thompsoniana di “economia morale”). La ricerca di uno scambio con gli intellettuali delle classi subalterne è il punto di partenza indispensabile per la realizzazione di una nuova unità generazionale. Come esempio di questo processo in atto, si può pensare alla cosidetta red-green alliance che è nata in Inghilterra dall’avvicinamento tra gruppi della sinistra radicale e associazioni islamiche.
 
La strategia dell’unità tra intellettuali di diversa estrazione sociale non può tuttavia prescindere da un più ampio lavoro di sintesi culturale. Per formare una nuova unità generazionale a sinistra, è indispensabile elaborare forme di cultura contro-egemonica che siano la espressione dei linguaggi e delle sensibilità dei diversi soggetti coinvolti. In questa direzione, Internet offre grandi opportunità: sia perché consente la circolazione e riproduzione di ogni genere di messaggio (testuale, visivo, audio) a costo zero; sia perché consente di minimizzare quella distanza (di classe) che separa gli spazi della socialità caratteristici delle middle e delle working classes. Tra le possibili iniziative in cantiere, c’è quella della creazione di nuove “università popolari”- strutture allo stesso tempo reali e virtuali, accessibili a tutti, dove costruire e condividere forme alternative (controegemoniche) di sapere. In quest’ottica, spazi come le Officine Corsare, Bartleby o la Bank of Ideas, l’edificio di UBS occupato recentemente a Londra, rappresentano una risorsa fondamentale. E’ soltanto mettendo in discussione il “senso comune” neoliberista (ben sintetizzato dallo slogan TINA – There Is No Alternative) a livello di massa che si può arrivare ad una trasformazione radicale dell’esistente.
 

Conclusioni
 
La crisi economica globale apertasi nel 2008 ha creato le condizioni per una radicalizzazione a sinistra delle nuove generazioni. Disoccupazione, precarietà esistenziale e lavorativa, percezione di una forte marginalità sociale, profonda sfiducia nelle forme della politica tradizionale sono tratti condivisi da gran parte dei giovani delle classi medio-basse del mondo occidentale; volendo, si può dire che essi rappresentino il denominatore comune di una “generazione della crisi”. Una mobilitazione a sinistra, finalizzata ad un cambiamento radicale, di una porzione consistente dei giovani europei è realmente possibile. Tuttavia, per poter trasformare il disincanto e la rabbia anti-sistema di giovani e giovanissimi in partecipazione attiva alla costruzione di un mondo nuovo è indispensabile anzitutto elaborare un progetto controegemonico chiaro e condiviso. Senza dubbio, i giovani intellettuali delle classi medie possono fornire un contributo fondamentale alla decostruzione e al sabotaggio del senso comune neoliberista: per formazione ed estrazione sociale, sono coloro che meglio ne conoscono i presupposti, i linguaggi e gli strumenti. Tuttavia, l’alternativa non può darsi, se non come il frutto di una sintesi dialettica tra le rivendicazioni e i linguaggi dei giovani di classe media e di quelli di estrazione proletaria. Questa sintesi deve essere realizzata non solo a livello di avanguardie, ma anche, soprattutto, a livello di massa, attraverso un lavoro di tipo politico-culturale. L’obiettivo ultimo deve essere la costruzione di nuovo blocco storico, che sia in grado di dare una risposta radicalmente alternativa alla crisi:
 
solo se il rapporto tra intellettuali e popolo-nazione […] è dato da una adesione organica in cui il sentimento-passione diventa comprensione e quindi sapere […] il rapporto è di rappresentanza e avviene lo scambio di elementi individuali tra governati e governanti, tra diretti e dirigenti, cioè si realizza la vita d’insieme che sola è la forza sociale, si crea il “blocco storico”.

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