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Sapienti e mercanti. Dagli umanisti al lavoro cognitivo

di Alberto Sgalla*

sign of cognitive accessibility.jpgCon la rivoluzione umanistica all’inizio dell’evo moderno la conoscenza si è subito manifestata come potenza, che la borghesia ha voluto impiegare come dispositivo di potere.

Nella città, politicamente autonoma, si erano concentrate le attività produttive (artigianale, manifatturiera) e d’intermediazione mercantile, aveva preso figura la borghesia, s’era consolidato un nuovo stile di vita, in un processo di generale riconfigurazione delle classi sociali. Nella città s’era concentrata l’accumulazione primitiva di capitale, come fase di transizione dall’economia feudale all’organizzazione capitalistica della produzione.

Su questa base materiale si era sviluppata una nuova cultura: la coscienza moderna della piena dignità dell’uomo, della “libertas” individuale e collettiva unita alla concezione della “civilitas”, che hanno pervaso le lettere e le arti, l’assunzione del lavoro libero come valore fondamentale del vivere civile, l’esaltazione del valore della vita come godimento dei frutti del lavoro, la valorizzazione della razionalità funzionale come strumento d’organizzazione degli affari e forma propulsiva del vivere civile. Gli intellettuali o “sapienti” hanno contribuito a diffondere il mito positivo della libertas cittadina, un ideale di piena e armonica formazione umana e il valore della vita associativa e industriosa, anche con il sorgere di Università e Accademie. In questo contesto si è affermato l’Umanesimo, che accordava nella formazione dell’uomo colto valore preminente alle humanae litterae o studia humanitatis e manifestava una nuova coscienza storica, per cui l’uomo era visto come artefice, forza attiva, legata alla costruzione storica, da attuarsi mediante il progresso civile e l’educazione, attraverso cui l’uomo rinvigorisce ed estende la sua potenza; la necessità di una rinascita, di un rinnovamento dell’uomo nelle sue capacità e nei suoi poteri, rientrando in possesso di quelle possibilità che il mondo classico ha dischiuso, riportando l’uomo all’altezza della sua autentica natura.

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machina

Una stagione di pensiero militante

di Sergio Bologna

Schermata del 2023 10 19 15 09 36.pngIl seguente testo di Sergio Bologna, tratto dal volume, a cura di Alberto Magnaghi, La rivista «Quaderni del territorio». Dalla città fabbrica alla città digitale. Saggi e ricerche (1976-1981), edito da DeriveApprodi nel 2021, ripercorre le intuizioni teoriche della rivista connesse ai processi di ristrutturazione produttiva compiutisi in quegli anni: dal decentramento produttivo nel quadro di una nuova divisione internazionale del lavoro all’utilizzo della flessibilità come metodo di gestione della forza-lavoro; dalla terziarizzazione – e al suo stretto rapporto con il processo industriale – alla precarizzazione della forza-lavoro. Percorsi di ricerca sviluppati poi negli anni successivi e che spiegano l’importanza ricoperta dalla rivista nel pensiero operaista.

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«Quaderni del Territorio» comincia a nascere nel 1972-73 con i progetti di ricerca che troveranno spazio nel primo numero. Un anno decisivo il 1973, un anno di svolta, che per certi versi rappresenta il punto più alto raggiunto dalle lotte iniziate con il ciclo del ’68 e al tempo stesso il punto di rottura di quel ciclo, provocato da un evento che avrebbe scosso il mondo capitalistico di tutto l’Occidente: la cosiddetta «crisi petrolifera» (ottobre 1973). In aprile si era conclusa la lotta per il rinnovo del contratto dei metalmeccanici, deludente sul piano degli aumenti di salario (erosi in anticipo da circa 200 ore di sciopero) ma importante per il peso che finalmente veniva dato alla questione ambientale, per l’inquadramento unico operai-impiegati e soprattutto per la conquista del diritto allo studio (150 ore).

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Fare analisi, costruire conflitto

Ariella Verrocchio intervista Alisa Del Re

notav 1 720x480Intervistare Alisa Del Re è cosa facile. Il nostro incontro avviene a Padova, il 4 novembre 2022, nello spazio domestico del suo vivere quotidiano dove mi accoglie e accompagna con la sua piena e elegante corporeità. Fatte le dovute presentazioni dei gatti Ercole e Anteo, ci dirigiamo nel suo studio. «Qui – mi dice – faremo la nostra intervista.» In questo spazio fisico che percepisco come il più intimo e separato della casa, iniziamo a conversare. Il dialogo si fa subito fluido e autentico portandomi dritta, dritta dentro la tensione, la passione del suo percorso di studio, di analisi, di lotta. Un percorso intenso, fatto di esperienze anche molto dure e sofferte a partire da quelle legate alle vicende del 7 aprile 1979. Col passaggio dall’operaismo al femminismo marxista nato negli anni Settanta in seno al collettivo Donne, scuole, università, ospedali di Padova, l’impegno di Alisa Del Re resterà sempre focalizzato sulle donne. Docente di Scienza della Politica dal 1968 al 2013 all’Università di Padova, dove nel 2008 fonda il Centro interdipartimentale di ricerca: studi sulle politiche di genere (CIRSPG), la sua produzione scientifica affronta in modo sistematico questioni inerenti i diritti delle donne, il loro accesso alle risorse e alle strutture di potere, concentrandosi specialmente sui temi della riproduzione sociale, delle politiche familiari, della cittadinanza femminile, dei rapporti tra genere e politica locale.

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Rispetto alla tua esperienza, qual è l’eredità politica del Novecento?

Credo ci sia la necessità continua di fare le analisi di quello che sta succedendo. Chi fa politica oggi dovrebbe, come lo si faceva nella seconda metà del Novecento, guardarsi intorno, leggere quali sono le direzioni dei cambiamenti in atto, perché la struttura capitalistico-produttiva e la sua sovrastruttura di comando politico non sono immobili, si adattano continuamente anche alle modificazioni che le lotte comportano.

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Il gig work: lavoro autonomo o dipendente? fatti privati o destini collettivi?

di Bruno Cartosio

gig economy2Nel gig work sono due le flessibilità che si incontrano: quella degli individui e quella del sistema economico. In astratto, dovrebbe essere il felice incontro di interessi convergenti: soldi guadagnati da una parte, prestazione ottenuta dall’altra. Senza strascichi; svolto il compito richiesto e accettato, pagato e ricevuto il compenso pattuito, ognuno padrone di sé come prima. Nella realtà non è così che vanno le cose, né per quanto riguarda i lavoratori, né per le aziende, né dal punto di vista delle leggi che classificano e regolano i rapporti di lavoro. Unica parziale eccezione, anche in termini di potere contrattuale, gli autonomi veri: self-employed o freelancer, meglio ancora se professionisti.  Non c’è dubbio che siano le corporation-piattaforme a trarre i maggiori vantaggi dall’incontro tra precarietà del lavoro offerto e disponibilità dei prestatori d’opera ad accettarla, tra i bassi compensi ricevuti da chi lavora e il minore costo del lavoro per le aziende. Ne sono testimoni i grandi profitti accumulati dalle aziende fino a oggi e il fatto che nessun gig worker risulta essersi arricchito o salito nella scala sociale grazie al lavoro precario-intermittente-connesso. E a cancellare ogni eventuale dubbio sul cui prodest, sta la decisione con cui le aziende si sono opposte finora a qualsiasi tentativo di riclassificare una parte dei gig workers come lavoratori dipendenti invece che autonomi.

Tuttavia i sondaggi dicono che il nuovo precariato “connesso” incontra il favore della maggioranza dei lavoratori che lo praticano. È possibile: il richiamo individualistico della flessibilità, delle possibilità di scelta, dei minori vincoli gerarchici è forte. Tuttavia, altre ricerche mettono le opinioni pro e contro più o meno alla pari.[i]

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Moltitudini, capitalismo molecolare, corpi a lavoro. Discutendo i decenni smarriti

Intervista ad Aldo Bonomi

0e99dc 2d1422ead85b4dc286c87f39b21a5c7emv2Nell’ambito del programma sui «decenni smarriti», come da intenti di questa rubrica (https://www.machina-deriveapprodi.com/post/il-lavoro-nei-decenni-smarriti-una-bozza-di-programma), si è richiesto ad autori che negli anni Ottanta e Novanta, per diverse ragioni, concorsero nel proporre rappresentazioni e immaginario della transizione, di «ritornare» sulle loro elaborazioni e analisi del periodo. Di Aldo Bonomi, sociologo e direttore del centro di ricerche territoriali Consorzio Aaster di Milano, fondato negli anni Ottanta insieme (tra gli altri) a Lapo Berti e Alberto Magnaghi, riprendiamo tre testi della seconda metà degli anni Novanta, intitolati Il trionfo della moltitudine (Bollati Boringhieri, 1996), Il capitalismo molecolare (Einaudi, 1997), Il distretto del piacere (Bollati Boringhieri, 2000). Volumi in cui, in modo diverso ma con reciproci e continui rimandi, l’autore prendeva programmaticamente congedo dalle macerie del fordismo (nel lessico di Bonomi, «il non più») e si addentrava nel «non ancora» (che perlopiù, all’epoca, ci si accontentava di definire postfordismo) secondo una prospettiva peculiare. Questi libri avevano un robusto sottostante di osservazione empirica delle società al lavoro nel capitalismo che stava cambiando pelle. La chiave di accesso al campo di analisi non muoveva tuttavia da una fredda e «oggettivistica» ricostruzione di queste trasformazioni. I «prototipi mentali» proposti muovevano piuttosto dai cambiamenti soggettivi e procedevano per successivi (e differenti, nei tre libri) gradi di astrazione, mantenendo perlopiù un forte ancoraggio nei luoghi indagati, coincidenti in questi testi principalmente con le piattaforme produttive in formazione del Nord Italia. Erano gli anni del leghismo in ascesa e dell’affermazione elettorale di Forza Italia, fenomeni interni alla politica che non costituivano il bersaglio del lavoro di Bonomi, ma che indubbiamente ne fecero da «quinta».

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Cultura, formazione e ricerca

di Romano Alquati

0e99dc af0a856659854ab99e130afa9511fc61mv2Nel febbraio del 1990 Romano Alquati è stato invitato dagli studenti della Pantera torinese a confrontarsi con i temi e le questioni poste dal movimento universitario. Alquati, com’era sua abitudine e suo metodo, non si preoccupa di blandire chi l’ha ospitato; al contrario, problematizza e mette a critica le parole d’ordine del movimento, approfondendo nodi politici decisivi legati alla scuola e all’università: dalla formazione al sapere merce, dall’industria della cultura alla soggettività studentesca. All’interno della nostra cartografia dei decenni smarriti pubblichiamo alcuni stralci dell’intervento di Alquati, in quanto importanti elementi di riflessione per analizzare il passaggio tra gli anni Ottanta e Novanta. L’intero confronto, successivamente trascritto e fatto circolare da Velleità Alternative nel 1994, a giugno verrà pubblicato nella collana Input di DeriveApprodi.

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L’università è degli studenti?

Non credo che i nostri padroni vogliano privatizzare la ricerca universitaria molto più di quanto già non sia. Però, a differenza di voi quando dite «l’università è degli studenti», quando loro dicono «l’università è nostra», secondo me hanno più ragione loro; e soprattutto quando dicono che l’università è del popolo italiano e tanto più di quella parte che non ne fruisce, è come se dicessero che essa è loro perché lo stesso «popolo italiano» è di fatto loro. Perché il popolo lo possiedono parecchio, sebbene non del tutto.

Quella degli studenti sull’università che appartiene a loro è un’affermazione ridicola, buffa, anche come utopia: la scuola non è degli studenti, non c’è nessuna possibilità neanche a medio termine che lo sia.

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Post-industriale e iper-industriale. Note su un dibattito nei decenni smarriti

di Romano Alquati

0e99dc b0ec7bd07f63462fa9ef27497af8f3cdmv2Apriamo l’esplorazione della rubrica Transuenze dedicata al lavoro nei «decenni smarriti» (cfr. https://www.machina-deriveapprodi.com/post/il-lavoro-nei-decenni-smarriti-una-bozza-di-programma) proponendo un contributo controcorrente di Romano Alquati sulla prima delle categorie sottoposte ad approfondimento, post-industriale. Nei decenni del «post», gli anni ’80 e ’90 del secolo scorso, il senso comune, ma anche la gran parte degli scienziati sociali e ancor più degli opinionisti, convergeva nel ritenere superati i tratti fondativi della società industriale, il cui sottostante più appariscente era il significativo spostamento dell’occupazione dal settore manifatturiero (da allora in costante ridimensionamento) alle attività di servizi variamente intesi (il «terziario»).

Su questo tema, in specifico, pubblichiamo alcuni frammenti tratti da due testi fuori catalogo o inediti di Romano Alquati, sociologo e militante già ampiamente utilizzato in queste pagine, da non richiedere ulteriori presentazioni (per eventuali approfondimenti introduttivi alla sua figura e al suo pensiero, si rinvia allo «scavi» curato da Maurizio Pentenero e Luca Perrone su questa rivista, https://www.machina-deriveapprodi.com/post/la-riproduzione-del-futuro, o ancora al volume collettivo «Un cane in chiesa», curato da Francesco Bedani e Francesca Ioannilli per Deriveapprodi).

La ricostruzione della carriera del concetto di «società post-industriale» condurrebbe questa introduzione lontano dai suoi circoscritti obiettivi di presentazione del contributo. Per quanto il primo utilizzo del termine sia comunemente attribuito a David Riesman nel 1958, gli autori cui si ricollegano le successive elaborazioni furono, da una parte, Alain Touraine (La société post-industrielle, 1969), dall’altra Daniel Bell (The coming of post-industrial society, 1973).

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Si può ancora dire classe? Appunti per una discussione

di Maurizio Ricciardi

Questo testo riprende e amplia l’intervento del 20 marzo 2023 al Laboratorio di teorie antagoniste, organizzato a Bologna presso l’Ex-Centrale di via Corticella 129

JR01 768x5671. Le classi e la classe

Poniamo direttamente la questione: esiste ancora la classe? Possiamo dare per scontato che esistano le classi. Esiste cioè una classificazione degli individui in base alla differente posizione occupata all’interno del processo di produzione e riproduzione della società. È difficile negare che queste differenze esistano. Il problema è caso mai se è ancora utile ragionare in termini di classe per sottrarsi e possibilmente cancellare questa classificazione. Storicamente l’affermazione e, per un certo periodo di tempo, il predominio del linguaggio di classe è stato il modo in cui milioni di uomini e di donne hanno cercato di farla finita con la classificazione che li collocava in una posizione subordinata all’interno della società. Questo è un primo punto che deve essere sottolineato. Il linguaggio di classe ha un doppio significato: esso è originariamente un linguaggio d’ordine e solo successivamente diviene la rivendicazione di una possibile rivolta contro l’ordine delle classi. Inizialmente esso serve a classificare una molteplicità di fenomeni prima nelle scienze naturali e poi anche in quelle sociali, assegnando a ciascuno e ciascuna il suo posto. Questa ossessione classificatoria del sociale deriva dall’altrettanto ossessiva paura per il caos prodotto dalla presenza simultanea di una moltitudine di individui formalmente uguali senza alcuno status ascritto. I loro movimenti, le loro azioni, le loro stesse parole vengono percepiti come la minaccia di un disordine potenzialmente ingovernabile. La presenza delle classi è in un primo tempo attribuita alla contrapposizione all’interno del popolo di due gruppi divisi dalla loro diversa origine. Al gruppo dei conquistatori viene opposta la rivolta dei conquistati che ristabilisce il giusto ordine.

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machina

Per fare conricerca – Prefazione

di Gigi Roggero

0e99dc 5513f2e8afaa4dd69d9ff8977c907f8emv2È appena stato pubblicato nella collana Input di DeriveApprodi il volume Per fare conricerca di Romano Alquati. Frutto di un ciclo di lezioni da lui tenuto all’inizio degli anni Novanta per studenti e militanti, il testo è un formidabile strumento formativo, un manuale di metodo si potrebbe dire seguendo l’algido linguaggio sociologico, a cui preferiamo il termine utilizzato da Alquati: è una «macchinetta», non solo da leggere ma da studiare, non solo da studiare ma da praticare. Pubblichiamo la Prefazione scritta da Gigi Roggero. 

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A quel che è accettato / dagli il fuoco del tuo odio. Paul Éluard 

Per fare conricerca è il frutto di un ciclo di lezioni tenuto da Romano Alquati per il seminario sui «comunicanti» svoltosi nei primi anni Novanta alla facoltà di Scienze politiche di Torino, a cui parteciparono studenti e militanti dell’ex movimento della Pantera e dell’allora neonata Radio Blackout, emittente creata dai centri sociali del capoluogo piemontese. Nelle intenzioni originarie, le lezioni erano finalizzate all’impostazione di un percorso di conricerca sul nodo della comunicazione e dei comunicanti. Indipendentemente dagli sviluppi successivi, a noi resta un volume fondamentale, edito per la prima volta dalla Calusca nel 1993 e che oggi riproponiamo, non casualmente, nella collana di DeriveApprodi dedicata alla formazione politica. Per fare conricerca, infatti, è innanzitutto uno straordinario strumento formativo, unico nel suo genere. È un manuale di metodo si potrebbe dire seguendo l’algido linguaggio sociologico, a cui preferiamo il termine utilizzato da Alquati: è una macchinetta, non solo da leggere ma da studiare, non solo da studiare ma da praticare. 

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lavocedellelotte

La scomparsa delle fabbriche? Appunti sui cambiamenti nella geografia di classe in Italia

di Carlotta Caciagli, Gianni Del Panta

italia nord 768x533L’idea che non esista più la classe operaia è diventata da anni pervasiva, anche a sinistra. Ciò nonostante la classe operaia viene chiamata in causa spesso: per spiegare la vittoria di Trump, la Brexit oppure l’avanzata della Lega di Salvini. Grazie all’utilizzo di un approccio spaziale, questo articolo mostra come ciò che è stato etichettato come la scomparsa della classe operaia sia in realtà un processo di riorganizzazione della struttura di classe in Italia, socialmente e geograficamente. A differenza del recente passato, quando le grandi fabbriche fordiste si concentravano nelle aree urbane delle principali città del nord-ovest, la manifattura ha prevalentemente sede oggi nelle aree semi-urbane delle città di provincia del nord-est e di alcune zone del centro. Questa, come altre trasformazioni, hanno decretato un’accresciuta centralità del settore logistico, dove alcune delle più significative vertenze si sono sviluppate negli ultimi anni. Più in generale, i cambiamenti del tessuto produttivo e della sua geografia interrogano l’azione degli anticapitalisti, chiamati a “decolonizzare” la propria azione militante oltre le aree urbane delle principali città.

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Introduzione

In un articolo pubblicato su Il Fatto Quotidiano nell’ottobre del 2020, Paolo Ferrero, segretario di Rifondazione Comunista dal 2007 al 2017 e attualmente uno dei massimi esponenti di quel partito, dava notizia di un convegno a Torino sulle ragioni della rivolta operaia del 1969–70, a cinquant’anni di distanza da quegli eventi. Secondo Ferrero, per quanto lo sfruttamento dei lavoratori sia brutale oggi come allora, un paragone sarebbe però impossibile.

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cumpanis

Poche note sulla questione delle classi

di Alessandro Visalli

Tema della "composizione di classe": dopo gli interventi, nei numeri scorsi di "Cumpanis", di Alessandro Testa e Carlo Formenti, pubblichiamo questo articolo di Alessandro Visalli, architetto, docente all' Università degli Studi "La Sapienza" di Roma

laclasseoperaia. Locandina.1In questo breve intervento sarà prodotta qualche divagazione a partire dai numerosi stimoli che derivano dai lavori di Alessandro Testa, “La lotta di classe oggi: tra teoria del valore ed organizzazione del lavoro”, e Carlo Formenti, “Composizione socioeconomica e composizione sociopolitica, questioni di metodo”.

Il mio omonimo Alessandro Testa parte dal concetto di “lotta di classe” (formula composta che, come proveremo ad argomentare, è utile pensare come inerente non già al suo apparente oggetto, ‘classe’, quanto al sostantivo ‘lotta’), e lo collega a modalità ‘tipiche’ del capitalismo e ‘specifiche’ del modo in cui questo crea il ‘valore’. Ovvero, in altri termini, a come questo organizza il lavoro a partire da specifici rapporti sociali.

Per entrare subito nel tema si può prendere un esempio. Come sottolineato anche da Carlo Formenti nel secondo capoverso la giusta istanza di analisi rigorosa dei mutati termini di formazione del lavoro e della classe consente, nella sua formulazione, al lettore meno attento di scivolare sul rischio sempre presente di oggettivare la ‘classe’. Accade perché viene auspicata una ‘analisi scientifica’ di essa. Sovrapponendo con ciò la confusa incertezza su cosa si intenda esattamente con ‘scienza’ a quella su cosa sia la ‘classe’ e quale materialmente sia. Intendiamoci, Testa fa bene a dirlo. Una ricerca sistematica, razionale, ben fatta, della sociologia e socioantropologia delle relazioni e rapporti sociali e dell’organizzazione del lavoro è utile e necessaria. Ma il lemma della (o delle) “lotte di classe”, o della/e lotta/e della/e classe/i è guidato dal sostantivo ‘lotta’ (e dal verbo “lottare”) e non dall’oggetto ‘classe/i”. Esiste quindi un limite insuperabile alla sua oggettivazione come conoscenza data.

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cumpanis

Sulla composizione di classe

Composizione socioeconomica e composizione sociopolitica. Questioni di metodo

di Carlo Formenti

Con questo intervento di Carlo Formenti si apre il dibattito sul tema della composizione di classe lanciato dall'articolo di Alessandro Testa, della redazione di "Cumpanis", nel numero scorso del nostro giornale

IMMAGINE PRIMO PEZZO SEZIONE SCUOLA QUADRI FORMENTIProvo a rilanciare gli stimoli che ci ha offerto Alessandro Testa con il suo articolo sul tema della composizione di classe. In questo intervento mi concentrerò su alcune questioni di metodo che considero decisive per dire qualcosa di sensato in merito. Testa parte da un dato di fatto: le mutazioni del modo di produzione capitalistico dai tempi di Marx a oggi sono tali e tante che il modello “classico”, fondato sull’opposizione bipolare capitale-lavoro, non è più una chiave interpretativa sufficiente: il secondo fattore del binomio è talmente cambiato (il che vale anche per il primo, ma indentificare le classi dominanti è relativamente più facile) che solo un’accurata indagine scientifica può aiutarci a darne un’adeguata rappresentazione “oggettiva” (il significato delle virgolette si capirà più avanti). Dopodiché aggiunge che, a rendere ulteriormente difficile l’impresa, contribuisce il fatto che la comunità scientifica che potrebbe realizzarla – fondi, ricercatori, istituti universitari, ecc. – è totalmente controllato da élite economiche, politiche e accademiche che non hanno alcun interesse a promuoverla (anzi hanno interesse a impedire che ciò avvenga, o a indirizzare la ricerca verso falsi obiettivi). Posto che l’osservazione è corretta, mi viene da osservare che, per quanto utile, il contributo di analisi empirica che ci potrebbe arrivare dalla ricerca accademica, qualora potessimo disporne, potrebbe integrare ma non rimpiazzare l’analisi teorica di un partito rivoluzionario.

Sono convinto che uno degli errori più gravi del marxismo dogmatico e accademico sia stato attribuire alle scienze sociali borghesi pari dignità rispetto alle scienze naturali, e ciò in particolare in campo economico, al punto che molti intellettuali marxisti – o sedicenti tali – hanno finito per convertirsi in altrettanti esperti di economia politica, dimenticando che l’intento di Marx non era fondare una nuova economia politica, bensì gettare le fondamenta di una critica dell’economia politica, scoprire, cioè, non le leggi dell’economia capitalistica, bensì le “leggi” della lotta di classe.

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Il Circolo Panzieri di Modena e l’enigma dell’organizzazione

L’operaismo emiliano dalla fabbrica al territorio

di Matteo Montaguti*

0e99dc ca4d2490be6d4427b301029347731c19mv2La recente scomparsa di Marcello Pergola, protagonista insieme a Paolo Pompei e Guido Bianchini della vicenda dell’operaismo emiliano, può essere l’occasione per ricordare un patrimonio di esperienze per molto tempo relegato ai margini della ricostruzione e della memoria sugli anni Sessanta e Settanta, che solo da poco tempo, grazie all’interesse crescente di giovani ricercatori e iniziative editoriali, comincia a essere riscoperto. Al centro di questo scritto si Matteo Montaguti è infatti il Circolo Panzieri, qui considerato non come luogo fisico ma come percorso politico di una collettività militante, tra le esperienze più significative del «lungo Sessantotto» di Modena. Animato da figure intellettuali dallo spessore di Pompei e Pergola, ha saputo esprimere tratti di originalità politica non solo a livello locale: è stato infatti protagonista, fin dalla seconda metà degli anni Sessanta, di traiettorie di respiro nazionale nell’ambito della costellazione operaista poi cristallizzatasi in Potere operaio, contribuendo a forgiare e sperimentare quel «pensiero del conflitto» ancora oggi preziosamente inattuale.

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A Paolo Pompei (1937-2003) 
e Marcello Pergola (1933-2021) 

Operaismo sotto la Ghirlandina: breve storia del Circolo Panzieri [1] 

Il primo nucleo di operaisti modenesi, essenzialmente costituito da intellettuali-militanti per la gran parte insegnanti e provenienti dalle file del Psiup, comincia a muovere i primi passi a partire dal 1965, nel tentativo – ancora sotto le rispettive sigle partitiche – di stabilire un approccio diretto con gli operai di alcune fabbriche attraverso l’attività della conricerca, elaborata negli anni precedenti intorno alla rivista «Quaderni rossi».

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Guerra di classe

di Graziella Molonia*

industria bangla 660x4002xEsiste una guerra che non è combattuta con armi più o meno convenzionali, che non prevede droni né missili intelligenti, che non ricorre a bombardamenti mirati, che uccide nella legalità entro il quadro dell’ordine democratico. E’ la guerra di classe, a cui i lavoratori sono chiamati a partecipare non da una libera scelta ma dal bisogno e dalla necessità che impongono al lavoratore di doversi scegliere il proprio aguzzino.

Nessuno ha scelto di vivere come schiavo del lavoro salariato, né di dedicare la propria esistenza all’arricchimento di parassiti sociali.

“La fame da lupi mannari di pluslavoro”,1 come la chiama Marx, ha bisogno di sacrificare sempre più lavoratori per saziare il bisogno di realizzare profitti.

“L’economizzazione dei mezzi sociali di produzione, che giunge a maturazione come in una serra soltanto nel sistema di fabbrica, diviene allo stesso tempo, nelle mani del capitale, depredazione sistematica delle condizioni di vita dell’operaio durante il lavoro, dello spazio, dell’aria, della luce e dei mezzi personali di difesa contro le circostanze implicanti il pericolo di morte o antiigieniche del processo di produzione, per non parlare dei provvedimenti miranti alla comodità dell’operaio” 2

Ecco perché, dietro i veli delle garanzie dello stato di diritto, e delle costituzioni democratiche che proliferano nei paesi a capitalismo avanzato, resta, nuda e cruda, la guerra a cui proletari sono costretti nel momento stesso in cui diventano parte, tramite il loro lavoro, del ciclo produttivo.

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Vent’anni invano

di Militant

g8 Genova Stato di Polizia1A vent’anni di distanza da Genova, riproponiamo l’intervento che Paolo Cassetta svolse all’assemblea fondativa della rete politica nazionale “Noi saremo tutto” (maggio 2012). Nonostante la distanza temporale tanto dall’oggi, quanto da Genova, potrebbe apparentemente rendere superata la diagnosi, molte delle questioni centrali dell’estrema sinistra italiana dell’ultimo quarantennio sono qui evocate e affrontate con rara precisione. I problemi del movimento operaio italiano si confermano dunque sistemici, forse irrisolvibili. Vent’anni di smobilitazione sembrano ormai costituire qualcosa di più di una semplice fase transitoria, costringendoci in qualche modo a fare i conti non più (solo) con i nostri limiti soggettivi. Che pure, in questa ritualistica celebrazione mainstream dell’”evento” Genova, permangono ancora imperturbati. Come evidenzia l’autore, continuiamo a pensare le giornate di mobilitazione genovesi come “evento” generazionale, e non come esperienza – una delle tante – del movimento operaio e anticapitalista italiano, da cui ricavare lezioni e smentite. Il ricordo, dunque, degenera immediatamente nell’epopea, alimentando quel presentismo incapace di fare i conti con se stessi e con il proprio passato. Delegando a Repubblica o al Corriere della Sera quella critica dell’evento, ovviamente sviante e interessata, che alle nostre latitudini continua a partorire apologie commemorative inutili a capire tanto Genova quanto il futuro della sinistra anticapitalista italiana.

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Nosce te ipsum

Appunti sulle condizioni soggettive della sinistra anti-capitalistica italiana

di Paolo Cassetta

Il dato da cui vorrei partire, macroscopico, innegabile, e anche un po’ scontato, è quello della crisi attuale. Si tratta evidentemente della più seria crisi economica degli ultimi anni.