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cumpanis

Mutazione antropologica e paradigma produttivistico

Il caso-Taranto e l'analisi marxista

di Ferdinando Dubla

dubla fotoChi parlerà di voi uomini rossi
senza età senza bestemmie?
Chi parlerà dei vostri Natali
accanto alla ghisa lontano dai canneti
ove vivono gli ultimi gabbiani?
Pasquale Pinto è solo un uomo
costantemente denunciato
dai rivoli delle vostre fronti
Pasquale Pinto, Il capo sull’agave, Edizioni Centro sociale Magna Grecia Taranto, 1979
Pasquale Pinto, poeta-operaio, (1940/2004)

Il caso Taranto e la produzione di acciaio dell'industria “pesante” a ridosso del centro abitato di una città con tutt'altra vocazione produttiva, e che deve subire l'aggressione all'ambiente e alla salute di lavoratori e cittadini, chiama in causa diversi piani di analisi intrecciati tra di loro: il piano politico e sociologico, come quello economico e finanche antropologico. È, cioè, la crisi di un vero e proprio paradigma legato indissolubilmente al modello di civiltà industrialista e al sistema capitalistico e ai suoi dis/valori. Da un altro versante, chi quel modello di civiltà e quel sistema mette in discussione, la cultura politica marxista in primis, per molto, troppo tempo, ha preferito una lettura positivista del paradigma (modello di civiltà e sistema) consistente in una visione quantitativa piuttosto che qualitativa: laddove si forma una classe operaia consistente e numerosa, lì si sviluppa l'antagonismo conflittuale necessario alla trasformazione rivoluzionaria. Il caso-Taranto dimostra, per di più e ancora una volta, che non è così.

La distruzione del retroterra socio-culturale non è specifico di Taranto, ma dell’intero sistema del profitto capitalista della in-civiltà industriale su cui basa l’intera sua impalcatura finanziaria e speculativa.

Non bisogna replicare con una nostalgia passatista fuori tempo, come alcune venature della sensibilità ambientalista dell'ecologia radicale, ma la constatazione che questa in-civiltà, così ben analizzata da Marx, ha come conseguenza una mutazione antropologica degli esseri umani. È necessario un doppio sguardo per svelarne la natura: la critica al “sistema” e al “modello di civiltà industrialista” di matrice positivistica, deterministica e quantitativa. L’espressione “mutazione antropologica” è di Pier Paolo Pasolini (Sollazzo, 2016) e, come categoria interpretativa, appartiene al piano filosofico, esistenziale e antropologico. Ciò che può cogliersi dall’officina poetica e politica pasoliniana, è che la critica alla società borghese deve cogliere l’onnipervasità dei suoi dis/valori in crisi di legittimità, non solo in termini di classe, perché concernono una modificazione della natura umana permanente, sebbene questa trasformazione avvenga in senso culturale. Il nodo è però marxiano: reificazione e alienazione, “arcano” della merce, estraneazione come spossessamento non solo del prodotto, ma della stessa relazione intersoggettiva, sono tratti distintivi del sistema capitalista e, se si analizzano come “modello di civiltà”, costituiscono un “paradigma” (modello+sistema) [1] che deve essere trasformato strutturalmente e sovrastrutturalmente, in senso rivoluzionario; rimandano anche al necessario nuovo umanesimo che de Martino tracciava come escatòn (riscatto) di fronte alla possibile apocalissi. Il dibattito sul “paradigma” industrialista all'interno del “pensiero della complessità" per un diverso modello di civiltà ecologico, è stato rilanciato di recente da Edgar Morin, Il paradigma perduto. Che cos'è la natura umana?, Mimesis, 2020. Nell'ottica di un confronto con il marxismo, in questa traccia di ricerca c'è però la costante pretesa di un “superamento” dello stesso, piuttosto che un fecondo incontro sulla base dei fondamenti teorici e delle conseguenti prassi politiche da condividere. Sul rapporto “paradigma” e “mutazione antropologica” (in un significato ancora più estensivo rispetto all'utilizzo pasoliniano del termine) si veda anche la raccolta di saggi Paradigma antropologico di Arnold Gehlen, a cura di M. T. Pansera, Mimesis, 2005.

- Il capitalismo modifica incessantemente l’essere umano, ne determina una mutazione antropologica: nella sua forma industrialista, che connota una fase della “formazione economico-sociale” (Luporini, 1977) tende alla mercificazione, che si allarga alle relazioni umane. Il feticismo delle merci diventa simbolo (feticcio) dell’alienazione stessa, conseguenza di una reificazione globale. Il solo sguardo economico e “scientifico”, non basta, e un materialismo ‘volgare’ degrada nell’economicismo e nel positivismo, feticismo ‘rovesciato’. È necessario, appunto, un doppio sguardo per svelarne la natura. È la lezione del Marx del 'general intellect', è il Gramsci della “riforma intellettuale e morale” per la società “autoregolata”. (note Marx, Gramsci, ad nomen)

L'arcano delle merci si pone all'interno della categoria di reificazione, un punto forte di congiunzione con il giovane Marx dei Manoscritti del 1844 e la categoria di alienazione, dimostrazione concreta che nel filosofo di Treviri è indisgiungibile la metodologia dello scienziato dell'economia politica da ciò che aveva costituito la sua “anteriore coscienza filosofica”, l'impostazione umanistica dell'analisi sociale. Disvelare la struttura dei rapporti di produzione diventa compito rivoluzionario unitario nella prassi cosciente, in quanto la coscienza (di classe) si libera di apparenze fenomeniche che ne occultano il ruolo mai astrattamente teoretico di dinamica storica della trasformazione, effettiva e concreta. Indubbiamente l’essere umano determina la realtà e trasforma con il lavoro la natura esterna, costruendo la storia. Ma uomo-realtà-lavoro-natura sono dialetticamente unite nella storia. “Condizioni materiali di vita”, “rapporti di produzione” e “forze produttive” sono le categorie centrali dell’analisi marxiana, che concepisce la ‘natura interna’ umana non assoluta, ma relativa alle modalità sociali delle relazioni.

L’intervento umano sull’oggettività fisico-naturale è avvenuta in un determinato quadro di rapporti produttivi, a partire dalla rivoluzione industriale borghese del XIX secolo, in cui il rapporto uomo/ambiente sovrintendeva allo sfruttamento dell’uomo sull’uomo. Se non si accetta che l’arcano delle merci subordina una particolare produzione sociale, l’intera critica ambientalista rischia di rimanere ancorata ad una indispensabile ma improbabile trasformazione della coscienza collettiva, senza intaccare i prodotti reali di quei miti scientisti (e neopositivistici) che pur si vogliono destrutturare.

- La vicenda dell’Ilva di Taranto è effettivamente emblematica di come il modello (non più di sviluppo) economico del capitalismo a egemonia finanziaria, possa ostacolare la soluzione della contraddizione ambiente-salute/lavoro e tentare di scaricare la stessa addosso ai lavoratori e ai cittadini. Sono inutili tutti gli altri esercizi di compatibilità: non saranno i protocolli d’intesa né politiche concertative a dare risposte adeguate, né il lento intervento della magistratura.

L’interesse primario è la tutela della salute dei cittadini e dei lavoratori, senza che questo significhi la perdita anche di un solo posto di lavoro: è compatibile il raggiungimento di questo obiettivo con una pur radicale ristrutturazione in chiave di ambientalizzazione dell’impianto siderurgico più grande, ma anche più obsoleto, d’Europa? Con l’attuale modello economico, volto al massimo profitto e all’utile commerciale immediato, noi crediamo di no.

Il punto che a noi sembra decisivo, infatti, è l’apparente scissione che il dominio capitalista pone in essere: quella tra lavoro/sviluppo delle forze produttive ed equilibri eco-sistemici. L’apparenza consiste nel fatto che rimane immutato, sempre, il quadro delle relazioni industriali e dei rapporti di classe: se si rimane all’interno dei processi di accumulazione e dei cicli della riproduzione di capitale, ogni trasformazione del prodotto subordinerà la sostenibilità ambientale alla dinamica del profitto; la classe operaia non solo produrrà, ma accetterà l’inquinamento come prezzo, pur doloroso, da pagare, per mantenere i livelli occupazionali. A dettare le condizioni sono, con l'egemonia delle classi dominanti capitaliste, i parametri quantitativi, non qualitativi.

- F. Engels, già nel 1843, (note, ad nomen) negli scritti raccolti ne La situazione della classe operaia in Inghilterra, visitando Manchester, denunciava la vera ‘ratio’ dell’accumulazione capitalista e nello sfruttamento operaio e nell’inquinamento esplicitava la vera essenza di un modello di civiltà caratterizzante l’industrialismo legato al massimo profitto dei pochi e allo sfruttamento dei molti. D’altra parte, il giovane Marx, nei Manoscritti parigini degli stessi anni, descriveva, grazie al concetto-chiave di alienazione, la soppressione, in regime di proprietà privata, dello spazio vitale degli uomini, così come sottolineava il carattere del lavoro alienato; concetti che saranno ripresi in particolare nel I libro de Il Capitale, ma legati anche a una più compiuta concezione materialistica della storia, alle categorie di divisione del lavoro, critica dell’economia politica e più in generale al conflitto capitale/lavoro. Non si possono naturalmente ricavare dai fondatori del marxismo tutti gli elementi indispensabili alla comprensione delle società del nostro secolo e della crisi delle relazioni uomo/natura/scienza, ma sicuramente, ponendosi dal loro stesso osservatorio interpretativo, è possibile annotare la genesi di un atteggiamento irresponsabile fra una determinata organizzazione di relazioni umane e sociali e le risorse naturali da cui quella stessa organizzazione dipende.

Non è vero che in tutti questi anni siano mancati investimenti in innovazione e ricerca per l’Ilva di Taranto: il problema è che, sul mercato capitalistico, le quote di profitto reinvestite non hanno riguardato né la salute dei lavoratori né l’ambientalizzazione. L’Italsider di Stato ha consegnato ai privati, oggi Arcelor Mittal, un acciaio speciale di grande qualità, con caratteristiche particolari e in alcuni casi uniche e coperte da segreto industriale. Il rovello è sempre stato il miglioramento dei risultati operativi, dunque innanzitutto ritmi di lavoro più intensi e misure di sicurezza ridotte, specie per le giovani maestranze assunte con contratti precari. Prebende e corruttela per la propaganda in città attraverso organi di informazione compiacenti, vere e proprie ‘voci del padrone’, sindacalizzazione cosciente intimorita con i reparti-confino (il caso della palazzina-LAF). Tutto questo ha consentito di integrare e sfruttare al meglio la fabbrica in ogni sua componente (organizzazione, logistica, informatica, elettronica ed elettromeccanica, impiantistica), dando maggiore flessibilità al ciclo produttivo. Nonostante l’avvio di questi processi, però, la caduta tendenziale dei saggi di profitto della siderurgia a livello mondiale avviene per eccesso di produzione e a causa dell’ingresso sul mercato di nuovi prodotti sostitutivi dell’acciaio. Lo scopo di gran parte degli investimenti nei processi e nei prodotti, l’utilizzo di sistemi avanzati di gestione e di controllo della produzione, in questo quadro, è di assicurare competitività internazionale, ricerca di commesse con più servizi al cliente. Altro che salubrità dell’aria! Innovazione e investimenti sono stati finora finalizzati al miglioramento del prodotto, alla sua maggiore quantità in tempi ridotti, al minor prezzo sul mercato in rapporto alla sua qualità. Non certo in ammodernamento degli impianti in chiave di ambientalizzazione.

Ma che l'ex Ilva ritorni in mani statali è un primo passo, ma, per l'appunto, è il primo, seppur indispensabile. Che chiudano gli altoforni e l'area a caldo, come è stato realizzato a Cornigliano, è possibile solo con l'intervento pubblico. Che non venga perso un solo posto di lavoro, perché la fabbrica e il territorio hanno bisogno di bonifiche, può essere realizzato solo in un ambito di programmazione generale (quella che veniva chiamata seria "politica industriale"). Purtroppo ciò non sarebbe neanche ancora sufficiente per riportarci ad un paradigma nuovo, qualitativo, di sviluppo delle forze produttive e di relazioni sociali.

- Taranto è Sud del mondo ma, come nell'approccio di un “pensiero meridiano” (Cassano, 1996), Sud del mondo sono destinati a diventarlo non i confini geografici delle attitudini e longitudini di un pianeta sferico, ma i luoghi della civiltà industrialista dove si consuma il dominio del capitale. La stessa “ambientalizzazione” interviene a valle del processo.

Se un Sud esiste, è perché è il Sud del capitale. Diversamente, l'unica legittimità viene dalla sfera sovrastrutturale: le differenze sono culturali, di tradizione etnica, ecc.., ma ciò non differenzia, semmai unisce i popoli, quando non interviene la secessione cancerosa dei processi capitalistici. Nel gioco dei centri concentrici, come tentò di avvertire il migliore Andrè Gunder Frank degli anni '70 a proposito del ‘lumpenproletariat’ dell'America Latina (A. G. Frank, 1971), il capitale ha sempre bisogno di un Sud. Il ‘Sud del mondo’ non lo troverete in alcuna cartina geografica, ma semmai inscritto nel codice genetico di un capitalismo che può cambiare le sue ‘forme’ (monopolistico/trans-nazionale, ecc..), mai i fondamenti della sua struttura e questo perché ha la capacità, in quanto egemone, di piegare ogni innovazione alla funzionalità del suo sistema, non solo convivendo, ma addirittura alimentandosi con la crisi quando le forze soggettive antagoniste non riescono a organizzare una lotta di classe che ponga all'ordine del giorno la questione del potere e dei poteri e di un nuovo paradigma, non genericamente ‘ambientale’ e ‘compatibile’, ma risultato di un umanesimo nuovo, quello della qualità dei rapporti umani e degli esseri umani con la natura esterna ad essi.

Ci spetta d'indagare con la stessa metodologia con cui Gramsci indagava l'americanismo e il fordismo (A. Gramsci, note ad nomen): la caduta del saggio di profitto costringe il capitale ad un profondo rivolgimento dell'ordinamento sociale, ordinamento su cui aveva realizzato la precedente forma di egemonia; tutt'uno con la ‘rivoluzione passiva’, la modernizzazione neocapitalista è la stessa barbarie del protoindustrialismo. Il presupposto su cui si basa è la mercificazione, l'omologazione. Queste ancelle del capitalismo, proto e neo, entrano comunque nelle basi del nuovo modello, basi che si ritrovano non nell'empireo della teoresi del paradigma, ma nel fuoco delle officine. Certo anche Gramsci, anzi, soprattutto Gramsci, era consapevole della difficoltà a cogliere il nesso articolato di economia e politica in occidente per le forze del movimento operaio, se non si dialettizza correttamente l'analisi della struttura e lo spessore funzionale della sovrastruttura.

Ciò che importa è analizzare, tramite la ricerca e l'inchiesta, la combinazione tra modello macrosistemico (il capitalismo e le sue forme, e le forme delle sue contraddizioni, e la sostanza delle sue crisi, e i contenuti dei suoi modi di dominio diretto-indiretto) e le peculiarità territoriali e/o le sedimentazioni storiche. Dal nostro osservatorio, la città di Taranto, noi ci accorgiamo della piega che può prendere un determinato modo di produzione capitalista, ma anche un modello di civiltà, quello dell'industrialismo alimentato da una cultura neopositivista.


Riferimenti bibliografici
F. Engels, La situazione della classe operaia in Inghilterra, 1945, Editori Riuniti, 1972 (IV ed. 1978 (pdf) in undefined
K. Marx, Manoscritti economico-filosofici del 1844, Einaudi, Torino, 1968 (1ed. originale 1932) in undefined
K. Marx, Il Capitale, libro I-Il processo di produzione del capitale, pubblicato nel 1867, quando l'autore era ancora in vita, aveva come sottotitolo Critica dell'economia politica. Oltre le edizioni cartacee (tra cui Il Capitale. Critica dell'Economia Politica, a cura di Delio Cantimori, Roma, Editori Riuniti, 1964) è possibile leggerlo e scaricarlo in undefined
A. Gramsci, Quaderno 22, Americanismo e fordismo, introduzione e note di Franco De Felice, Einaudi, 1978; Ernesto de Martino, cap. VI “Antropologia e marxismo” par. “Marxismo e religione”, in La fine del mondo - Contributo all’analisi delle apocalissi culturali, Einaudi, ed. 2019
A. G. Frank, Sul sottosviluppo capitalista, Jaka Book, Milano, 1971
C. Luporini, Per l'interpretazione della categoria 'formazione economico-sociale', in Critica marxista, 1977, XV, 3, pp. 3-26
F. Cassano, Il pensiero meridiano, Laterza, Roma-Bari, 1996, nuova edizione 2005
F. Sollazzo, La “mutazione antropologica” di Pasolini senza equivoci, (2016) in undefined
A. Leogrande: Passando per forza da Gramsci, in Minima e Moralia novembre 2012, in undefined
“La sua forza deriva dall’essere stato l’interprete di un peculiare laboratorio della società capitalistica, in cui centri dell’impero e periferie terzo-mondiali convivono all’interno degli stessi confini nazionali”.
A. Leogrande, Dalle macerie-Cronache dal fronte meridionale, (a cura di Salvatore Romeo-prefazione di Goffredo Fofi), Feltrinelli, 2018
“Solo il racconto dei margini e dei frammenti permette di aprire uno squarcio e di comprendere qualcosa. Comprendere come si intersecano tra loro cose vecchie e cose nuove.” Le cronache sul fronte meridionale di Alessandro Leogrande, scritti editi postumi da Feltrinelli curati e introdotti da Salvatore Romeo ricordano in più di un tratto gli Scritti corsari e le Lettere luterane di P. P. Pasolini, opere nelle quali l’intellettuale friulano propone la categoria di “mutazione antropologica”, che, allargata e contestualizzata insieme, come una ricerca sul campo, spiega “molecolarmente” le trasformazioni non solo strutturali, ma esistenziali, di un’epoca e di una “civiltà“ intere. Sia P. P. che Alessandro, non tentarono solo di capire, ma ‘sentivano’ emotivamente ciò che tentavano di comprendere (Gramsci).

Appendice
Il metalmezzadro
Lo scrittore Alessandro Leogrande (Taranto,1977/+Roma, 2017) in Fumo sulla città (Fandango, 2013), ripartiva dall’inchiesta pubblicata sul “Corriere della Sera” del 15 ottobre 1979 di Walter Tobagi sulla figura del “metalmezzadro”; anche Marcello Cometti se ne era ricordato sulle colonne della “Gazzetta del Mezzogiorno” del 2 dicembre 2012, quando scrisse: “Solo pochi – Walter Tobagi, ad esempio, nella sua memorabile metafora del «metalmezzadro», o Giorgio Bocca – capirono che quella foresta di ciminiere rappresentava una sorta di brusca mutazione genetica dentro il Dna rugoso della gente, un passaggio disarticolato e brusco dal rapporto con la Grande Madre (la terra, il mondo contadino) a quello con un Grande Padre (la fabbrica tecnologica) capace di promettere molto a tutti”.
D’altra parte, lo storico Roberto Nistri aveva riproposto quella figura tra metalmeccanico e contadino nel volume da lui curato nel 2011 per Mandese L’età dell’acciaio-Taranto negli anni ‘70 e, a ritroso, il senatore del PCI, Antonio Romeo, aveva intitolato proprio con quel nome il suo libro (Lacaita ed., 1989) sugli anni della crisi e dello sviluppo dell’area jonico-tarantina.
Infine, recentemente, lo ricorda Salvatore Romeo, storico e appassionato lettore dello scrittore tarantino morto troppo prematuramente, Alessandro Leogrande e curatore anche di una sua raccolta di scritti per Feltrinelli, nel suo lavoro di ricerca L’acciaio in fumo (Donzelli, 2019).
Così ha scritto de Martino nell'epilogo alla ricerca sul tarantismo, riecheggiando il suo stesso pellegrinaggio e le Egloghe di Virgilio (“Tu canti (o Virgilio) per i boschi di pini dell’ombroso Galeso”, Properzio):
“Se la Terra del rimorso è la Puglia in quanto patria elettiva del tarantismo, i pellegrini che la visitarono nell'estate del '59 provenivano da una più vasta terra cui in fondo spetta lo stesso nome, una terra estesa fino ai confini del mondo abitato dagli uomini, e forse oltre, verso gli spazi che gli uomini si apprestano a conquistare: una terra tuttavia che è bella, perché la vita è bella, almeno nella misura in cui, secondo il destino umano, è soccorsa dalla vigile memoria del passato e dalla prospettiva dell'avvenire; una terra, infine, che anche in questo ricorda la siticulosa Apulia, dagli ampi orizzonti segnati dalla polvere delle transumanze, ma che al termine del viaggio si apriva all'improvvisa fioritura degli orti di Taranto e al dolce Galeso ombreggiato di pini e bianco per le greggi che vi si specchiavano”. (da Ernesto de Martino, La terra del rimorso, Milano, 1961, pag.273)
Le proprie radici culturali affondate nel cosmopolitismo e non ritrovate, producono l’agnosticismo etico dell’uomo senza più qualità, se non i rituali dell’espiazione dei sensi di colpa: un deserto della coscienza se non interviene la coscienza di classe.
Oggi il “metalmezzadro” è diventato l’esorcista della memoria, l’uomo senza qualità che affonda nel cosmopolitismo le sue radici culturali, espiando la colpa sociale della cancellazione dell’identità.
Così nacque ed è già morta l’urbe operaia siderurgica.
E da qui dobbiamo ripartire.

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