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socialpress

L’accumulazione è precaria?

A cura di Andrea Fumagalli*

123216509 ce47ff64 cd25 4efa bda8 ded36f8ddf7a thIl meccanismo di accumulazione e produzione di ricchezza di oggi si basa sempre più sulla produzione a rete, sia diffusa sul territorio (esterna), che nei singoli luoghi di lavoro (interna). Una produzione reticolare che, a differenza del taylorismo, non viene mediata esclusivamente dalla macchina, ma richiede anche coordinamento e cooperazione umana.
Non si tratta cioè di una produzione rigidamente meccanica, ma “umanamene e linguistamente flessibile”.

Alcuni esempi: il funzionamento e organizzazione di un supermercato nel ciclo di produzione che va dal trasporto merci, ordini di subfornitura, scaffalatura, e servizi di vendita diretta al cliente (banco e casse). Oppure, l‘organizzazione di una rete di trasporto o, ancora, il funzionamento di una redazione giornalistica. Lo stesso funzionamento dei servizi di terra di un aeroporto richiede coordinamento flessibile (non meccanico né automatico) tra le varie fasi. Lo stesso dicasi per la strutturatemporale di un call-center e le varie specializzazione di risposta (tasto 1, 2, 3, 4, 5 ecc. a seconda del tipo di richiesta).

Nel lavoro di cura, poi, la struttura a rete diventa struttura relazionale.

Il primo risultato che consegue da queste nuove modalità organizzative è che scompare una figura lavoratrice egemone, ma piuttosto si mettono a sfruttamento differenti soggettività del lavoro. Sono proprio queste differenze, rese molecolari e individuali, spesso fra loro artificialmente messe in contrapposizione, a consentire la produzione di ricchezza. Tra queste, i fenomeni più importanti del mondo del lavoro oggi sono costituiti dalla diffusione del lavoro migrante e dal processo di femminilizzazione del lavoro.

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nazione indiana

"Eppur si muore”

di Sergio Bologna

infortuni sul lavoroIo non credo che interventi legislativi o misure organizzative (come ad es. la creazione di un pool di magistrati specializzato) possano produrre effetti di una qualche rilevanza nella lotta agli incidenti mortali sul lavoro. Com’è possibile prescrivere una terapia quando non si conoscono le condizioni del paziente? Posso peccare di presunzione, ma sono quasi certo che le istituzioni non hanno presente la mappa del mercato del lavoro in Italia, nemmeno a grandi linee. E quindi non hanno la più pallida idea della mappa del rischio. Cominciamo da un dato: il differenziale di circa 2,4 punti percentuali tra l’incidenza dei morti sul lavoro in Italia rispetto al resto dell’Europa è dovuto al fatto che da noi si muore “in itinere”, cioè mentre ci si sposta per lavoro o per andare o tornare dal luogo di lavoro. Quindi “il luogo” di lavoro di per sé, concepito come luogo fisico, non sarebbe più rischioso in Italia di quanto sia quello di altri Paesi europei. E’ lo spazio della mobilità quello più rischioso. Perché?

La rivoluzione postfordista ha agito in due direzioni: 1) ha man mano “dissolto” il luogo di lavoro come spazio fisico separato mischiandolo sempre più al luogo di vita privata e lo ha dilatato nello spazio (despazializzazione del rischio), 2) ha – come in nessun altro Paese d’Europa – affidato la gestione del rischio a un’entità particolarissima, quella che forma la caratteristica più tipica dell’Italia, cioè la microimpresa. E quando intendo microimpresa intendo un’entità talmente piccola che stento a riconoscere in quella le caratteristiche istituzionali di un’impresa – cioè di qualcosa che ha bisogno almeno di tre ruoli sociali, il capitale, il manager e l’operaio.

Io vorrei prendere per mano il Ministro Damiano, il dottor Epifani e il dottor Guariniello e metterli di fronte a quella semplice tabella ISTAT che sono solito riprodurre in tutte le mie presentazioni. Da cui risulta che più di 6 milioni di persone – su un totale di 24 - lavora in unità impropriamente chiamate “imprese” la cui dimensione media è 2,7 addetti. Ma c’è qualcosa di più recente. Il 29 ottobre 2007 l’ISTAT pubblicava una nuova serie di dati, cito: “Nelle microimprese (meno di 10 addetti), che rappresentano il 94,9 per cento del totale, si concentra il 48,0 per cento degli addetti, il 25,2 per cento dei dipendenti, il 28,3 per cento del fatturato ed il 32,8 per cento del valore aggiunto. In esse il 65,1 per cento dell’occupazione è costituito da lavoro indipendente”.

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centrorifstato2

Individui sociali nella rete del comando

Christian Marazzi

«Ceti medi senza futuro?», un libro che raccoglie saggi e interviste di Sergio Bologna. Dalla deindustrializzazione al «divenire rendita del profitto», analisi e proposte di coalizione per il lavoro autonomo di seconda generazione

ceti mediIn questo libro, che raccoglie saggi, interviste e articoli scritti nel corso degli ultimi dieci anni, c’è tutta l’intelligenza e la lucidità di Sergio Bologna (Ceti medi senza futuro?, DeriveApprodi, pp. 282, euro, 19). Bologna è giustamente conosciuto, non solo in Italia, per essere stato il primo a prendere molto sul serio l’emergenza socio-professionale della figura del lavoratore autonomo di seconda generazione, espressione del passaggio dal fordismo al postfordismo, effetto dei processi di riorganizzazione dei modi di produrre a mezzo di esternalizzazione (outsourcing), di flessibilizzazione del mercato del lavoro, di digitalizzazione e globalizzazione, ma anche di esodo dal lavoro dipendente, cioè di scelta soggettiva, di rifiuto del lavoro subordinato.

L’individuazione di un soggetto emergente al di fuori della griglia cognitiva di gran parte della sociologia del lavoro accademica, secondo la quale il lavoro autonomo o atipico va interpretato dal punto di vista del lavoro dipendente, ha posto Bologna in una posizione critica - per così dire - nei confronti sia della baronia universitaria e delle organizzazioni sindacali, sia, anche, della sinistra radicale che nella trasformazione del lavoro ha voluto vedere soprattutto la dimensione precaria.