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volerelaluna

Clic senza frontiere: cosa c’è alla base dell’intelligenza artificiale

di Claudio Canal

Mi scuso con chi legge questo articolo perché era mia intenzione aprire alla grande con una congrua citazione marxiana dai Grundrisse, quella che si avvia con: «Der Krieg ist daher eine…». Poi ho assistito in TV a una pensosa trasmissione condotta dal noto filosofo con nome primaverile, Fiorello, e ho cambiato idea. Il pensatore ha introdotto la categoria post-postmoderna di Ignoranza Artificiale. A questo punto ho meditato. Grande LLM di GPR-3! Grandissimo PaLM-2 che è addestrato da 340 miliardi di parametri! Grandioso GPT-4 addestrato da un triliardo di parametri! Insomma, una meditazione cabalistica la mia, che decanta le stupefacenze dell’Intelligenza Artificiale (IA) e che avrebbe potuto anche stramazzare nella acerba e sconsolata recriminazione delle sue nefandezze: il degrado del lavoro, il mantra della sicurezza, l’ambigua affidabilità, le decisioni automatiche, i robot pigliatutto, il controllo panottico, la privacy sfasciata, le guerre dei monopoli tecnologici…

 

Proletario ignoto

Posso essere annichilito o eccitato dal vigente culto dell’IA, predicare Redenzione o Apocalisse, ma non riesco a sottrarmi all’Ignoranza Artificiale di cui disquisisce Fiorello il metafisico.

Si tratta di quell’ignoranza applicata per cui vediamo i tipi che ci sfrecciano davanti in bicicletta con gerla colorata in spalle (cabassa, in piemontese) ma non li guardiamo per ciò che sono: proletariato al posto di lavoro, in sella a una bici.

Prendiamo un’azienda australiana, Appen Ltd, che ha come clienti Microsoft, Apple, Meta, Amazon, e Google fino a qualche giorno fa, sedi sparse in 170 paesi, Italia compresa, e più di un milione di… lavorator*? consulenti? intermediatori? hobbisti? freelance? nerd planetari? Tutta questa gente non è stipata in capannoni industriali, ma sta a casa o dove gli pare, a fare cosa? Lo spiega, senza cercare chissà dove, la voce di Wikipedia, autogenerata da Appen: «Affinché le macchine dimostrino l’intelligenza artificiale, devono essere programmate con dati di addestramento di fattura umana che le aiutino ad apprendere. Appen utilizza il crowdsourcing per raccogliere e migliorare i dati e ha accesso a un team qualificato di oltre un milione di lavoratori part-time che raccolgono, annotano, valutano, etichettano, testano, traducono e trascrivono dati vocali, immagini, testo e video per trasformarli in dati di training di machine learning efficaci per una gran varietà di scopi».

Nonostante la traduzione un po’ sgangherata si capisce che c’è bisogno di qualcuno che imbocchi l’algoritmo con l’omogeneizzato giusto. Ma l’algoritmo è famelico, richiede milioni di cucchiaiate. Se deve distinguere un neonato addormentato da un gatto, un cuscino, un pacco o qualsiasi altra seppur vaga somiglianza, gli tocca passare in rassegna una enormità di immagini in cui il neonato c’è o non c’è. Qualcuno le deve etichettare queste immagini: non sono gli ingegneri informatici a farlo né i linguisti computazionali, bensì lavorator* del clic-clickworkers portatori sani di Intelligenza Umana, che ottengono pochi spiccioli di remunerazione, attività a singhiozzo, tutele zero, un lavoro fatiscente. Sparsi e sparse per il pianeta, prevalentemente a Sud, ma non solo. Proletariato occultato di cui noi vantiamo una profonda Ignoranza Artificiale.

Se poi l’algoritmo deve distinguere tra marocchino in quanto cittadino del Marocco e marocchino in quanto bevanda miscela di caffè, cacao e latte, gli deve essere data in pasto una overdose di testi che qualche umano classifica e formatta stando attento a scartare la diffusa sentenza: marocchino di mrd. L’algoritmo così svezzato deve ringraziare il milione di formichine operaie umane che gli hanno fatto digerire la differenza fra i due marocchini. Se poi si tratta di immagini, la machine, l’algoritmo deve saper riconoscere non solo il neonato già evocato o un semaforo (giallo, verde, rosso, spento) o qualsiasi altra cosa, ma anche scene di violenza, stupro, pedofilia, razzismo… per filtrarle ed escluderle una a una. Può farlo solo se qualche omino, m. e f., dopo averle accuratamente visionate frenando i conati di vomito, gliel’ha additate e ostentate. Aziende specializzate gestiscono questo addestramento dell’IA. Una sta in California e delocalizzava in Kenia il lavoro sporco per rimborsi miserabili e garantite débâcle psicologiche. Finché gli Umani Intelligenti di Nairobi si sono incazzati.

Gratta gratta alla base dell’IA c’è una estesa e capillare IU-Intelligenza Umana di cui quella artificiale non riproduce gli abissi di complessità, ma si accontenta, si fa per dire, di un gigantesco calcolo delle probabilità. Mai in passato la statistica era stata la base e il motore di una innovazione tecnologica così decisiva. L’idea che per ottenere IA fosse necessario copiare e riprodurre il funzionamento del cervello umano e il relativo linguaggio sapiens è morta solo tre decenni fa. Più l’algoritmo si rimpinza di testi, immagini, suoni, e più li potrà ricombinare autonomamente. È il deep learning, il pozzo senza fondo. Da qui la travolgente corsa all’oro dei dati. Un redivivo Pelizza da Volpedo non saprebbe dove trovare i modelli per un suo Quarto (o Quinto) Stato. Neanch’io. Sono milioni, invisibili e invisibilizzat*. La forza lavoro più astratta di tutti i tempi. Nella sua concreta corporeità.

 

L’amazzone e il turco

Il sonnambulismo della produzione occulta chi rende possibile gli incantesimi dell’IA. È attivo un sistema industriale pre-postfordista che gestisce questo proletariato inafferrabile e pre-postfordista: non è un errore di stampa perché l’apparato produttivo dei dati di addestramento-allenamento incorpora modi di produzione che sottintendono la servitù della gleba tutt’uno con quelli che incarnano il Capitalismo Cognitivo o, da altro versante, il Capitalismo delle Piattaforme.

Per accalappiare le formichine umane è necessario che abbiano una severa necessità di procurarsi un reddito o di integrare quello insufficiente che hanno. In quanto formichine devono essere adattabili a lavorini con compitini realizzabili in momentini. “Quante finestre accese nei palazzi della via?” / ”oggi è una… giornata” ecc. Micro tasks per micro works, che evolvono ovviamente in compiti più complessi, su cui l’algoritmo si applica estraendo regolarità e anomalie da una smisurata quantità di casi. Le formichine sono indispensabili per la Grande Opera dell’IA. Se le contendono a suon di pochissimi centesimi grandi imprese del comparto digitale che al solito esternalizzano dove gli conviene. Ci sguazza, insieme a molte altre, una nota Amazzone e il suo Turco Meccanico di servizio. Al quale Turco andrebbe eretto un monumento in ogni borgo per ricordarci quanto siamo clamorosamente creduloni, noi e le élite che ci governano.

Il sultano del commercio mondiale, Jeff Bezos, lo sa e spinge per allargare e differenziare la forza lavoro necessaria all’IA, gli human contractors. In questa fase storica una rete densa di siti, piattaforme, aziende è all’opera per reclutare i lavoratori adatti ai diversi stadi di sviluppo dell’IA, un Caporalato tecnologico planetario di subappaltatori. Bisogna aggiornare, correggere, revisionare, indirizzare la machine. Per esempio, aggiustare l’IA quando ha, quasi fosse umana, le hallucinations ossia quando fornisce una risposta che si presenta come vera invece non lo è. Non sono i robot a intervenire, sono umani che sembrano robot.

 

Microlavoratori di tutto il mondo…

Facile a dirsi. Si tratta proprio di tutto il mondo. Uno sta a Bangkok, l’altra a Caracas, una a Gallarate, l’altro a Lagos. Stanno nelle loro enclosures, nei loro recinti domestici e non, aspettando che arrivi la comanda/commissione dalla Piattaforma. È questo Digital Labour che crea una quota notevole del valore dell’IA. I loro clic non sono neutri, come i miei, risalgono la catena produttiva e trasformano il dato finale in merce pregiata di cui il mercato globale si premura di esaltare meriti e virtù, dimenticando chi sta alle fondamenta. Pallidi tentativi di sindacalizzazione appaiono qua e là, incentivati dall’esempio della forza lavoro consorella, quella dei Food Riders. La nostra collettiva e personale IA, Infatuazione Artificiale, sorvola sulla fragilità del mito dell’Intelligenza Artificiale perché non vede né riconosce le solide basi di lavoro umano su cui è impiantata.


Nota: un’ampia letteratura accompagna e segue il fondamentale Schiavi del clic. Perché lavoriamo tutti per il nuovo capitalismo? di Antonio Casilli, Feltrinelli, 2020. Di questo testo è annunciata per l’autunno negli Stati Uniti l’uscita aggiornata. C’è da augurarsi che in tempi brevi segua l’edizione italiana.

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