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linterferenza

Cina: “socialismo con caratteristiche cinesi” o “capitalismo con caratteristiche cinesi” (o altro ancora)?

di Fabrizio Marchi

Condivido complessivamente questa analisi di Carlo Formenti su un certo marxismo occidentale, eurocentrico e dogmatico, ma mantengo ancora forti riserve sul giudizio e sulla natura del sistema cinese. Infatti, per quanto riguarda la Cina, è ancora troppo presto per stabilire se, cito testualmente dall’articolo in oggetto, “quel mix di marxismo e confucianesimo che Perulli considera come un “residuo”, destinato a essere riassorbito dallo strapotere delle forme di vita capitalistiche, si è viceversa dimostrato come un potente dispositivo per usare il mercato capitalistico a fini totalmente diversi dalla pura accumulazione di profitti”.

Sarei meno frettoloso nel tirare le somme e aspetterei ancora anche perché sappiamo bene come la duttilità, la flessibilità e la capacità di incistarsi in contesti culturali e sociali molto diversi fra loro costituiscano le più grandi “qualità” e punti di forza del capitalismo insieme alla sua capacità di rigenerarsi e trasformarsi (trasformazione che è tuttora in corso…).

Resta inoltre da stabilire come, perché e in quale misura lo stato/partito cinese è o sarebbe in grado di condizionare in senso socialista il tumultuoso sviluppo (capitalistico) dell’economia e quindi della società cinese.

Ma lo stato non è forse rappresentativo dell’ordine sociale dominante? In parole poverissime e magari anche “vetere”, lo stato non è lo strumento delle classi dominanti? E quali sono le classi dominanti in Cina? L’enorme classe operaia e l’altrettanto enorme classe contadina presenti in quel paese? Il gigantesco apparato burocratico dello stato/partito? E da chi è composto ma soprattutto chi rappresenta e di chi fa gli interessi questo enorme apparato? Sono sufficienti quelle forme di selezione della classe politica dirigente indicate nell’articolo, cioè le elezioni locali aperte a candidati indipendenti (ma certamente non ostili al PCC…) e la Conferenza consultiva (sottolineo, consultiva…) di 3.000 membri (su una popolazione, ricordiamolo, di un miliardo e mezzo di persone…) a costruire, cito di nuovo testualmente “una costante interazione fra istanze sociali e potere politico”?

Ma il potere politico, in uno stato socialista, non dovrebbe essere nelle mani dei lavoratori? Ed è possibile che in presenza di uno sviluppo capitalistico così potente, e quindi con la conseguente e inevitabile formazione di una borghesia capitalista (la Cina è il paese che sforna più miliardari rispetto a tutti gli altri paesi del mondo), questa possa non condizionare fortemente la politica e lo stato se non addirittura arrivare a controllarli direttamente? E’ possibile, in altre parole, che lo stato/partito cinese sia in realtà lo strumento, sia pure inedito, attraverso il quale il capitalismo si è incistato in Cina così come è avvenuto, in forme diverse, in altri contesti (prendiamo ad esempio un contesto completamente diverso come l’Arabia Saudita, un paese governato da una monarchia assoluta (e da una cultura) religiosa integralista e purtuttavia, nello stesso tempo, ultra capitalista)? Ed è possibile che quello cinese sia in realtà un “capitalismo con caratteristiche cinesi” piuttosto che un “socialismo con caratteristiche cinesi” o un “socialismo di mercato” (che, per la verità, mi sembra un po’ un ossimoro…)?

E ancora, mi chiedo se sia possibile la convivenza o il connubio fra marxismo e confucianesimo, ammesso che di questo si tratti, oppure, anche in questo caso, si tratti di una formula ideologica che serve sostanzialmente a coprire una organizzazione fortemente rigida e gerarchica della società e dello stato.

Dico subito che quelle che pongo e mi pongo sono e vogliono essere domande reali, finalizzate all’apertura di un dibattito fecondo, non certo polemiche gratuite né tanto meno propositi opportunisti e politicamente strumentali (e ancor meno immotivate pulsioni anticinesi…), anche perché sono il primo a riconoscere (come potrebbe essere altrimenti?…) gli enormi e innegabili (e poi perché dovrebbero essere negati?…) progressi compiuti dalla Cina in questi ultimi quarant’anni, anche e soprattutto dal punto di vista del sensibile miglioramento delle condizioni complessive di vita di masse enormi di persone, sia pure in presenza di vistose contraddizioni (diseguaglianze molto forti sia fra classi sociali che fra città e campagna; e l’obiettivo di pari opportunità di partenza per tutti, indipendentemente dalla origine e condizione sociale, che mi pare essere ancora lontano…). Progressi che anche i suoi più feroci detrattori – e il sottoscritto non è certo fra questi – dovrebbero essere obbligati a riconoscere.

Ma questi enormi e innegabili successi e progressi non ci danno la garanzia che la Cina stia marciando o marcerà verso una società socialista. E nello stesso tempo è pur vero che non esiste un modello di socialismo astratto, ipostatizzato e decontestualizzato, valido per tutti e per sempre. Per cui non è neanche da escludere (e io me lo auguro ardentemente) che, in linea teorica e, speriamo anche pratica, il processo in corso in Cina possa portare se non ad un superamento del capitalismo, ad una egemonia complessiva, quindi non solo politica ma anche culturale e ideologica (cosa ancor più difficile…) del socialismo o comunque di uno stato socialista in grado di rendere o ridurre il capitalismo a mero strumento di crescita economica e sociale, disinnescandolo dal punto di vista ideologico (cioè della sua capacità “seduttiva” e di condizionamento ideologico e psicologico e di conseguente trasformazione, in senso capitalistico, ovviamente, della società) e impedendo la crescita e l’irrobustimento di una classe sociale capitalistica che, inevitabilmente, prima o poi “reclamerà” anche il potere politico.

In parole ancora più povere, può il socialismo convivere con il capitalismo senza esserne fagocitato e riuscire addirittura ad essere in grado di gestirlo e di domarlo? Ricordo (dal momento che spesso alcuni la citano a mò di giustificazione per quanto sta avvenendo in Cina) che in Cina siamo ben oltre la vecchia NEP di leniniana memoria che prevedeva la reintroduzione di forme limitate di economia di mercato, e siamo in presenza di uno sviluppo capitalistico impetuoso, sia pure programmato e diretto dallo stato, e della crescita di una classe capitalista che non ha nulla da invidiare (anzi…) in termini di ricchezza accumulata a quelle degli altri paesi capitalisti occidentali e/o asiatici. Una classe capitalista che fino ad ora è cresciuta e ha proliferato proprio grazie allo stato/partito ma che prima o poi reclamerà o potrebbe rivendicare anche il potere politico. Ammesso che già non l’abbia e che lo stato/partito cinese non sia la forma e lo strumento, magari inedito, con cui il capitalismo è riuscito ad affermarsi anche in Cina.

Come ho già detto, non ho tirato le somme e considero aperta (e ancora per molto tempo) la riflessione.

Comments

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Eros Barone
Monday, 18 January 2021 19:21
Riguardo alla questione del giudizio sulla Cina, posta da Fabrizio Marchi, reputo che per un’adeguata valutazione occorre comprendere innanzitutto come si è sviluppata la situazione economico-sociale di questo grande paese asiatico. Dopo il XX Congresso del PCUS nel 1956, il Partito Comunista Cinese, sotto la guida di Mao Zedong, sottopose ad una critica radicale, coerentemente con la teoria marxista-leninista, il revisionismo kruscioviano in URSS, definendolo “revisionismo moderno” per distinguerlo dal revisionismo di matrice bernsteiniana e kautskiana. Tuttavia, nel periodo immediatamente successivo alla morte di Mao avvenuta nel 1976, con la liquidazione della cosiddetta Banda dei Quattro, un gruppo di dirigenti del Partito che aveva avuto un ruolo determinante nella Grande Rivoluzione Culturale Proletaria, un nuovo tipo di revisionismo incarnato dall’ala destra del PCC, il cui maggiore esponente era Deng Xiaoping, si manifestò in Cina. Questi, come è noto, elaborò la teoria del “socialismo di mercato”, che è poi quella a cui si sono ispirati tutti i suoi successori (da Yang Zemin a Xi Jinping). I sostenitori di parte comunista delle attuali politiche della Cina paragonano le riforme di Deng alla NEP, la politica economica applicata da Lenin nell’URSS dopo il primo conflitto mondiale e la guerra civile. Questo paragone, però, è fuorviante, perché, mentre la NEP prevedeva limitate concessioni al capitalismo perseguendo l’obiettivo immediato di risollevare l’industria nazionale devastata dalla guerra, mirava ad accumulare le forze necessarie per un balzo in avanti verso il socialismo e – particolare, questo, non marginale – fu attuata nel quadro della dittatura del proletariato tenendo, per così dire, il fucile puntato sulla testa dei capitalisti, in Cina il socialismo di mercato è venuto configurandosi come un processo di transizione dal socialismo ad una sorta di capitalismo, definito giustamente da alcuni osservatori “keynesismo pesante” . Per quanto riguarda i dati oggettivi che avvalorano tale definizione, non essendo uno specialista mi sono servito delle fonti a me accessibili (Wikipedia, il Centro Studi sulla Cina contemporanea, Cinaforum e, in genere, la Rete), dalle quali risulta che circa il 70% della produzione industriale cinese proviene da imprese non statali, che oltre l’80% della forza-lavoro industriale lavora nel settore privato e solo il 13% dei lavoratori urbani sono dipendenti pubblici. Da tali fonti risulta inoltre che il ritmo di crescita delle imprese private è di gran lunga superiore a quello delle imprese statali, cosicché negli ultimi decenni il 95% dell’aumento della forza-lavoro urbana è stato generato da aziende private. Sulla base di questi dati dovrebbe essere palese che, sia pure sotto il controllo del Partito e dello Stato, l’espansione del capitalismo privato in Cina (capitalismo che, in misura molto più ridotta e controllata, per la verità esisteva già nel periodo maoista ed era rappresentato dalla cosiddetta “borghesia nazionale”) è vasta e profonda. Dal canto suo, Mario Galati ha giustamente notato che, da un punto di vista leninista, quello che conta nel formulare il giudizio che qui si discute non è soltanto la struttura economica, ma anche l’orientamento dell’azione politica esplicata dalla Cina. Questo significa adottare il criterio dell’analisi differenziata, riconoscendo la specificità e, in qualche misura, l’originalità del sistema economico-sociale cinese rispetto ad una modellistica schematica e riduttiva che, relegandolo nella hegeliana “notte in cui tutte le vacche sono grigie”, lo omologa ‘tout court’ alla categoria pura e semplice del capitalismo (con o senza la ossimorica specificazione “di Stato”). D’altra parte, le alleanze internazionali della Cina, orientate verso la Russia e l’Iran, il sostegno prestato a Cuba e al Venezuela, la cooperazione economica con i paesi africani, il progetto denominato “Via della Seta” che coinvolge l’Europa, e in particolare il nostro paese, hanno essenzialmente un carattere economico e un significato difensivo, poiché costituiscono altrettante risposte alla crescente aggressività bellicista, espansionista, protezionista e sciovinista dell’imperialismo americano nei vari scacchieri mondiali. Inoltre, dettaglio questo non da poco, la Cina è finora rimasta del tutto estranea a conflitti militari regionali sia diretti sia per interposta persona, la qual cosa dimostra, fino a prova contraria, l’ispirazione pacifica e progressiva della sua azione politica nel campo delle relazioni internazionali. Insomma, quello rappresentato dal Dragone sembra essere il classico esempio dell’ircocervo, un animale mitologico per metà capro e per metà cervo costruito apposta, con la finezza dialettica propria degli antichi greci, per confondere chi si propone di classificarlo in modo unilaterale: nel nostro caso, a livello fenomenologico e non più mitologico, una formazione socio-economica concreta con una struttura di tipo misto, capitalistica statalistica e cooperativistica, con un potere centrale dirigista e con una politica internazionale progressiva. Dato il ritmo di accelerazione della crisi storica in atto, gli eventi di un futuro non lontano ci diranno se questo equilibrio sia destinato a durare e a consolidarsi senza scosse e senza rotture o se sia destinato a scontrarsi ed infrangersi contro le barriere di marmo dell’imperialismo contemporaneo.
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