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Che cos'è la critica del valore

la Rivista Marburg-Virus intervista Robert Kurz ed Ernst Lohoff

scalaachiocciola5Domanda: Una caratteristica centrale del Gruppo Krisis, è il suo approccio della critica del valore. Potreste descrivermi succintamente che cosa significa per voi la critica del valore, e in che cosa consiste la differenza decisiva di quest'approccio rispetto alle altre teorie tradizionali della sinistra? La "critica della società della merce" è, come recita il sottotitolo della rivista Krisis, la stessa cosa che è la critica dell'economia politica? Cosa significa "valore" e "socializzazione per mezzo del valore?

Risposta: Che cos'è il valore, la sinistra lo sa per mezzo di mille corsi di formazione su "Il Capitale" - e tuttavia ancora non lo sa. Vale perciò la pena ricordare alcuni concetti fondamentali al fine di rendere intellegibile la nuova lettura della critica del valore. E' necessario tornare alle basi logiche della forma-merce. Dal momento che i membri di un sistema produttore di merci sono socializzati soltanto in forma indiretta (attraverso il mercato), essi non si relazionano attraverso una comprensione cosciente dell'utilizzo delle loro risorse comuni, ma soltanto attraverso il dispendio isolato di quantità di forza lavoro umana - che, socialmente allucinato, diventa "lavoro coagulato" (valore), e quindi viene trasformato in merci. Nella misura in cui le quantità di lavoro passato, fittiziamente contenute in queste merci, vengono messe in una determinata relazione di grandezza, esse appaiono come valori di scambio, la cui misura interviene solo a posteriori, attraverso la mediazione del mercato.

Per poter dare un comune denominatore a delle merci qualitativamente diverse, bisogna che esse vengano astratte dalla qualità concreta della loro produzione; nella loro relazione sociale, si tratta solamente di un dispendio astratto di energia umana. Il valore si determina così per mezzo dello sforzo, cioè, della quantità di lavoro astratto che viene spesa per unità di tempo al livello di un determinato quadro di produttività. La forma sociale generale di manifestazione del valore, è il denaro: in quanto merce generale separata, esso serve come mezzo di scambio universale e, sotto la sua forma, tutti i valori vengono espressi come prezzi. Le relazioni sociali indirette delle persone, in questo modo, appaiono, paradossalmente, come universalità astratta del denaro. Ecco quello che Marx chiama il carattere feticista della forma-merce.

Fino a questo punto, i corsi di sinistra di formazione su "Il Capitale" hanno in un certo qual modo inteso criticamente (a quanto pare) questa relazione assurda e feticista, senza tuttavia trarne le conclusioni, e così ogni approccio all'essenza di tale feticismo, da parte di questa critica implicita, ha finito per dimenticarlo prontamente oppure per deportarlo nel "regno delle nebbie filosofiche". In quanto si tratterebbe meramente della "semplice" forma-merce, mentre in realtà si tratta di fare la critica del capitalismo!. In che rapporto si trovano la produzione di merci e la relazione-capitale (ossia, il capitale in quanto relazione sociale)? Come relazione fra produttori indipendenti, nella quale il denaro rappresenta semplicemente un'istanza di mediazione, la produzione di merci non può diventare un sistema sociale che copre tutto il territorio, ed è per questo che nelle società pre-moderna di "economia naturale" rimaneva una semplice forma di nicchia. Soltanto il capitale, in quanto rapporto di produzione, universalizza e totalizza la produzione di merci - vale a dire, il valore (e quindi il denaro, come sua forma di manifestazione universale) - si retro-alimenta e da mezzo diventa un fine in sé stesso (plusvalore).

Si genera, quindi, una macchina sociale, un sistema cibernetico di valorizzazione del valore, ovvero un "soggetto automatico" (Marx), nel quale non c'è più nessun produttore indipendente, ma ci sono soltanto differenti categorie sociali funzionali al processo, sistematicamente chiuso, della valorizzazione, che trasforma, continuamente ed incessantemente, su una scala ingrandita, energia umana astratta ("lavoro") in denaro. Il mercato, di conseguenza non è più in alcun modo un luogo di mediazione fra produttori indipendenti, ma il luogo della "realizzazione" del plusvalore sociale e, di conseguenza, dell'auto-mediazione feticista del "lavoro" astratto che deve riconvertirsi in denaro. Riassumendo, i concetti di capitalismo (della relazione-capitale, o modo di produzione capitalista), di socializzazion per mezzo del valore, di sistema produttore di merci, di economia di mercato, di società del lavoro e di società competitiva, designano soltanto aspetti diversi di una sola costituzione feticista della forma moderna della società.

Per la critica radicale, la conseguenza logica di queste relazioni sociali sarebbe, allora, quella di attaccare e superare allo stesso tempo tutti questi aspetti ed in tal senso - è chiaro - proprio la categoria centrale del valore, al fine di sostituire il feticcio del "lavoro", della merce, del denaro, del capitale e del salario, con l'auto-comprensione cosciente della società nei confronti dell'utilizzo collettivo delle proprie risorse (d'ora in poi connessa in rete e dipendente da dispositivi sociali diretti), al di là delle relazioni di mercato e di denaro. Se il concetto di critica del valore, tuttavia, suona del tutto estraneo alle orecchie della volgare sinistra provinciale, questo è perché essa ha di nuovo rimosso la critica fondamentale del feticismo, e la sua pretesa critica dell'economia non ha mai abbandonato il piano della forma-valore.

Il marxismo del movimento operaio, nella sua epoca storica, dal 1848 al 1989, si è sempre riferito solamente ad una critica sociologista, ridotta e limitata alla "appropriazione del plusvalore" da parte dei "capitalisti", senza toccare il carattere sistemico feticista della socializzazione per mezzo del valore. La categoria di valore, e l'economia politica basata su tale categoria, non veniva intesa negativamente, bensì positivamente, nel senso di eliminare l'appropriazione del "lavoro non pagato" e di appropriarsi del pieno valore di per sé, inteso come un oggetto che si presumeva neutro. Il "lavoro astratto" non appariva, anche conseguentemente, come una categoria reale storica del capitalismo, ma era inteso come condizione umana ontologica eterna; valore, merce, denaro e mercato non venivano compresi come forme sociali superabili della relazione-capitale, ma come oggetti positivi della modernità, che dovevano solamente essere occupati in maniera alternativa per mezzo della "lotta di classe" della "classe operaia".

Dal punto di vista della critica del valore, questo è il paradosso di una critica del capitalismo fatta a partire dalla base e dalle forme incomprese del capitalismo stesso. La ragione di una tale comprensione ridotta ed immanente del valore, si trova nel carattere storico del movimento operaio, il quale fa ancora parte della storia dell'ascesa e dell'imposizione del moderno sistema produttore di merci (alias, il capitalismo). Dopo aver represso in maniera sanguinosa le rivolte sociali - avvenute a partire dal 16° secolo e fino all'inizio del 19° secolo - nelle quali i rivoltosi si rifiutavano di venire trasformati in "classe operaia", sotto i dettami della valorizzazione del valore, la relazione-capitale ha raggiunto (dalla metà del 19° secolo in poi) un grado irreversibile di socializzazione. Solo da quel momento ha avuto inizio il cosiddetto movimento operaio, che poteva pensare il suo ideario di emancipazione solamente dentro le categorie capitaliste, diventando esso stesso, ironicamente, motore di socializzazione attraverso il valore (contro i meschini rappresentanti ufficiali del capitale, ad un certo grado di sviluppo).

La libertà di associazione, la riduzione della giornata lavorativa, l'aumento del livello salariale, il miglioramento delle condizioni di lavoro, l'intervento sociale ed economico dello Stato, ecc., sono state tutte conquiste essenziali ed immanenti al sistema, da parte del marxismo del movimento operaio, che allo stesso tempo sono diventate condizioni per la valorizzazione completa del mondo attraverso la produzione capitalista di massa, e che si sono legate alla capacità di assorbimento di quantità sempre maggiori di "lavoro astratto". Nell'Est e nel Sud del pianeta, il marxismo ed i suoi derivati hanno guidato, sotto forma di sistemi di Stati socialisti, i processi di "modernizzazione tardiva", addirittura sotto il loro controllo diretto.

La terza rivoluzione industriale della microelettronica, il collasso della "modernizzazione ritardataria" e la crisi mondiale del "lavoro astratto" marchiano la fine del 20° secolo con una situazione nuova, nella quale le categorie reali reificate del sistema produttore di merci collidono con una barriera storica assoluta ed esauriscono la loro dinamica. Mentre i vecchi movimenti sociali non volevano essere costretti al sistema del lavoro "astratto", oggi si tratta di uscire da questo sistema. Tuttavia, questo non è possibile con i mezzi prevalenti della critica al capitalismo, che sono immanenti al valore - ma si richiede una rottura dolorosa con un'identità di "sinistra" che prendeva ciecamente la forma-valore e tutte le categorie sociali borghesi essenziali come dei presupposti a priori; e così la necessaria critica radicale ed il "superamento", oggi provocano inevitabilmente incomprensione, ripulsa e frustrazione. In quanto in questo modo, tutto il "capitale" teorico, più che centenario, del marxismo del movimento operaio viene anch'esso svalorizzato.

Per quel che riguarda la teoria marxiana, la critica del valore rappresenta, al tempo stesso, una svolta radicale ed un continuazione conseguente insieme ad un esaurimento. In quanto in Marx si trovano entrambi i fili argomentativi (in un certo senso, intrecciati): da un lato, il punto di vista classista, dell'ontologia del lavoro, immanente al valore, che teorizza la modernizzazione, così come si trova, dall'altro lato, la critica radicale del valore e del lavoro, in quanto critica del feticismo sociale moderno. In questo senso, parliamo di un "duplice Marx". Oggi, questi due momenti, o elementi, abbisognano di essere distinti. Mentre il movimento operaio e la sinistra tradizionale si sono collocati sotto il punto di vista dell'interesse condizionato dalla forma merce ed immanente al sistema, e di conseguenza l'altro Marx della critica del valore e del feticcio è stato trascurato (reso inoffensivo fino a non poter più essere riconosciuto), adesso è l'ora di risvegliare quest'ultimo elemento della teoria di Marx dal suo sonno di bella addormentata, nel momento in cui declina il momento riduttore sociologico-classista.

Questo non significa che la lotta degli interessi immanenti al valore dev'essere semplicemente abbandonata; ma significa che il riferimento enfatico al preteso carattere trascendente della "lotta di classe" è irrecuperabile. L'interesse immanente costituito dal modo feticista non può essere trasformato linearmente in critica del valore (a differenza del concetto di un "socialismo produttore di merci", cioè, sotto la forma del valore), ma fra i due c'è la rottura radicale con la forma stessa dell'interesse borghese, che dev'essere formulata e realizzata praticamente. Nella misura in cui l'aspetto positivo ed apparentemente ontologico del "lavoro" diviene obsoleto, non esiste più alcuna leva oggettiva, né un qualche soggetto metafisico di emancipazione a priori: i venditori di merce forza lavoro sono "in sé" nient'altro che portatori funzionali del sistema produttore di merci, maschere di carattere del capitale variabile. La presa di coscienza emancipatrice non è la trasformazione di una "classe sociale" oggettivata, di carattere capitalistico, in soggetto "per sé", che svolge la sua "missione storica" oggettivata, ma è ciò in cui le persone - proprio nella distanza del loro luogo sociale funzionale costituito dal sistema - scoprono le esecrabili esigenze capitaliste e si pongono contro tutto questo, senza avere alcuna forza storica positiva e senza la volontà indipendente alle loro costole. Pertanto, questo non è positivo, ma essenzialmente negatorio; non è determinato in precedenza a causa delle "qualità positive" del sistema e delle sue diverse funzioni o categorie sociali, ma è provocato negativamente attraverso delle contraddizioni, delle rotture, dall'impossibilità di vivere e dalle offese insopportabili di un capitalismo che ora non ha più alcun orizzonte di sviluppo davanti a sé.

L'enorme forza esplosiva, tanto teorica quanto pratica, che attiene alla parte storicamente non realizzata dell'opera marxiana, riguarda la critica ed il superamento della logica di un portatore sociale dell'emancipazione aprioristicamente già definito, del tipo di quelli che le nuove sinistre, al di là del marxismo classico del movimento operaio, nominano continuamente per mezzo di tutti i tipi di sostituti: dai movimenti di liberazione nazionale del Terzo Mondo, passando per i cosiddetti gruppi marginali, alle donne, ai malati mentali fino ai gay ed alle lesbiche, o più recentemente ad una sorta di classe di lavoratori dei media e della cultura. Questa logica fondamentalmente non superata, altresì, diventa percettibile proprio grazie a coloro i quali disperavano del gioco per poter dedurre dal fatto che nessun "soggetto rivoluzionario" a priori è identificabile in generale, oggettivamente e sociologicamente, l'impossibilità di una trasformazione radicale della società (pensiamo qui agli adepti della "Teoria critica"). Così, storicamente si è arrivati all'auto-costituzione di un movimento di superamento cosciente contro il sistema produttore di merci, il quale non ha alle costole alcuna determinazione ontologica positiva, ma solamente la crisi del sistema feticista moderno. Il suo compito è quello di abbattere la forma valore interiorizzata, apparentemente naturale. Ogni critica sociale che non si pone esplicitamente questo problema, e non tenta di concretizzarlo, può anche essere immediatamente dimenticata.

 

Domanda 2: Nell'editoriale dell'ultimo numero della rivista Krisis (n°20, 1998), avete scritto che il vostro approccio alla critica del valore col passare del tempo dev'essere radicalizzato. Avete sempre più decostruito concetti per mezzo della critica delle categorie reali del sistema produttore di merci, con i quali, in alcuni numeri precedenti della rivista, vi relazionavate ancora positivamente. Il lavoro, inizialmente, doveva essere superato solamente nella sua forma astratta, poi doveva esserlo completamente. La critica all'enfasi della politica si è gradualmente trasformata in "anti-politica". La critica del soggetto classista è stata radicalizzata nella critica del soggetto. Potete spiegare cosa sta dietro parole-chiave come: "superamento del lavoro", "antipolitica" e "critica del soggetto"?

Risposta 2: E' chiaro che la critica del valore del gruppo Krisis non è caduta dal cielo come un'intuizione improvvisa. Dapprima, abbiamo dovuto, per così dire, deglutire ed attraversare l'ideologia marxista esistente, cosa che è durata approssimativamente venti lunghi anni. Quando abbiamo cominciato a tirare i fili giusti, abbiamo trovato tutta la matassa, o per dirla in maniera diversa: i pezzi del domino cadevano uno dopo l'altro. Siamo stati accusati, molte volte, di negare poco a poco anche concetti che prima avevamo adottato positivamente. Semplicemente non si capisce che non si tratta di inconsistenze o di contraddizioni inconsce, ma di un processo non concluso di critica e superamento di un vecchio paradigma che viene sostituito da uno nuovo. Le tappe precedenti sono relativamente ben identificabili, almeno da tutti quelli che prendono tutto questo sul serio. E' chiaro anche che sono sempre esistite persone che assumono solo una delle tappe, non riuscendo ad attuare completamente l'uscita  dal vecchio marxismo immanente al valore; questi sono quelli che ci odiano più di tutti. Tutto questo continuerà ancora per un po' di tempo, ma probabilmente non c’è altro da fare. La cosa dev'essere portata fino in fondo. Noi intendiamo la critica del valore come un nuovo punto di vista della critica radicale, che va al di là dell'opposizione superficiale fra vecchi lemmings del radicalismo di sinistra e vari maiali realisti pragmatici.

Originariamente, il nostro approccio è stato una critica del vecchio marxismo di partito, così come dei "movimenti", i quali tramavano una sorta di teoria utilitaristica di legittimazione, sia per le linee politico-partitarie di potere che per le rispettive situazioni dei movimenti sociali. In opposizione, noi enfatizzavamo la completa autonomia della teoria, e soprattutto fuori dall'imprenditoriato accademico, come un'iniziativa indipendente, cosa che ci ha portato ad un rapido isolamento all'inizio degli anni 80. Così, gradualmente, la critica del valore, riguardo al contenuto, si è andata affinando a partire dall'analisi dell'economia sovietica e della sua storia, senza che, tuttavia, le categorie a tutto questo collegate venissero decifrate in quanto tali. Siamo andati abbastanza vicini alla critica delle forme economiche - però ancora relativamente, in maniera ingenua - e ai concetti di "soggetto" del valore. Il valore non è, in alcun modo, come viene frequentemente sottinteso, una mera categoria economica interna; esso è, innanzitutto, il principio formale generale che domina la società come un tutto e dà fondamento alla scissione in sfere separate ("lavoro/tempo libero", "Mascolinità/femminilità, "sfera privata/sfera pubblica", "funzionalità/cultura"), ecc.). La critica del valore problematizza questo processo universale di astrazione che riduce la socialità ad un'interazione di monadi isolate in  quanto supporti funzionali di un mezzo feticizzato, autonomizzato, che è diventato un potere esteriorizzato. Un tale approccio inoltre non possiede solamente una dimensione "teorica della cultura" e del "soggetto" di per sé, ma apre anche un accesso alla critica della moderna relazione con la natura e ad altre problematiche, che sono escluse dall'area di competenza della critica dell'economia politica.

La "critica del soggetto" per noi è cominciata con la critica del "lavoro", la quale rappresenta la categoria-del-soggetto centrale alla socializzazione per mezzo del lavoro. Marx criticava certamente il "lavoro astratto" della produzione di merci (che, ciò nonostante, nel socialismo mercantile divenne dottrina di Stato), ma voleva salvare la presunta "astrazione razionale" - il "lavoro" - come determinazione ontologica. Qui si manifesta di nuovo il "duplice Marx", in quanto l'astrazione "lavoro" è pur sempre "lavoro astratto" ed è presente come determinazione, sia generale che positiva, solamente nel moderno sistema produttore di merci (in precedenza, quest'astrazione non esisteva, o quanto meno, non era ancora positiva, e non era un'universalità sociale).

Ovviamente, il "superamento del lavoro" non significa che nelle società future non verrà più prodotto niente o che non ci sarà più "processo di metabolizzazione con la natura" (Marx). Tanto meno si tratta del fatto che le attività riproduttive umane verranno ridotte solo al minimo o addirittura verranno eliminate completamente e sostituite da un aggregato automatico. Al contrario, questo superamento implica soprattutto due momenti, che si pongono su un altro livello. Vale a dire, in primo luogo, il superamento della relazione astratta col mondo, così come viene rappresentata dall'astrazione "lavoro" (valore), in cui lo sforzo diventa indifferente relativamente agli oggetti sensibili. Il "lavoro" deve sparire perché non è altro che la forma di attività specifica della sfera del fine in sé economico moderno. E' necessario, pertanto, liberare l'attività umana dalla sottomissione alla catena dell'astrazione sociale - "lavoro", valore e forma-merce (e solo allora dalla relazione-capitale) - e non costringere più i diversi contesti di vita e di riproduzione sotto la forma dittatoriale di una universalità astratta, bensì trattarli per mezzo dei criteri di una "ragione sensibile", secondo le loro questioni specifiche. In questo modo, le forze produttive moderne certamente non dovranno essere scartate, ma neanche semplicemente appropriate nella loro forma trafitta dall'astrazione del valore. Si tratta invece di rimodellarle, di selezionarle ed applicarle attraverso dei fini liberi, sulla base di un auto-intendimento sociale cosciente, e non devono più dipendere dalla pseudo-oggettività del "lavoro astratto" e dalla macchina della valorizzazione sociale originata a partire da esso. Ma anche, in secondo luogo, il "superamento del lavoro" significa superare la moderna separazione delle sfere della società all'interno di una relazione mondiale astratta, e pertanto distruttiva, nella quale gli individui non sono altro che meri punti di intersezione dei settori funzionali separati. E' stato il funzionalismo dell'astrazione del valore che ha disintegrato i contesti di vita ed ha ridotto la sfera del "lavoro" a sfera funzionale astratta, cioè separata, rendendolo un dominio di puro dispendio di energia astratta - il che è apparso agli uomini per lungo tempo qualcosa di intollerabile, contro il quale si sono disperatamente ribellati. Oggi, sullo sfondo dell'esaurimento della logica della valorizzazione, è necessario ancora una volta prendere coscienza dell'insopportabilità e della sfrontatezza di queste esigenze eterogenee che sono state interiorizzate in un lungo processo di disciplinamento. "Superare il lavoro" significa quindi anche reintegrare la riproduzione sociale ad un livello più alto (passando per il moderno sviluppo delle forze produttive ed oltre le strutture familiari limitate), come processo vitale integrale di produzione e di residenza, di gioco, di cultura, ecc.. Le forze produttive liberate dall'astrazione del valore rendono possibile, in questo senso, una quantità molto maggiore di "tempo disponibile", così come avveniva in passato.

Il secondo passo della critica del soggetto si riferisce al livello della cosiddetta politica. Giacché le merci, come dice Marx, non possono andarsene da sole al mercato, i proprietari di merci (incluse quelli che possiedono solamente la forza lavoro) devono stringere relazioni nell'inversione assurda della loro propria relazione sociale in quanto qualcosa di incorporata nelle cose, ed anche come persone giuridiche contraenti. In quanto tali, essi sono, però, sempre già presupposti a priori come soggetti-merce e come soggetti del "lavoro"; cosa che, al di là di questo, li relaziona fra loro attraverso la concorrenza sul mercato. Pertanto, necessitano della sfera del diritto e di altre condizioni generali di base del sistema produttore di merci, le quali si trovano riunite sotto la forma di Stato.

Tuttavia, relativamente a questo, non si tratta esattamente di un'istanza di auto-comprensione sociale cosciente. Poiché la socializzazione attraverso il valore, disintegrata in interessi privati antagonistici, non può relazionarsi direttamente con sé stessa. Per questo, abbisogna di una sfera che rimanga a lato dell'imprenditoria sociale e nella quale ci si occupi delle condizioni e delle forme del percorso della "guerra di tutti contro tutti". In questo modo, il soggetto-merce astratto si separa in una persona del "lavoro" ed in una persona giuridica, in un essere privato ed in un cittadino o in una cittadina, nel "homo economicus" e nel "homo politicus". Così, insieme all'universalità astratta del denaro arriva l'universalità astratta dello Stato, che si contrappone alla stessa maniera esterna ed estranea agli individui, come manifestazione della loro stessa schizofrenia sociale. E la relativa sfera particolare della attività, o delle dispute relative al diritto ed allo Stato, è proprio quella della famigerata politica in quanto momento di socializzazione attraverso il valore. Si percepisce allora che il valore non è in alcun modo limitato all'economia, ma rappresenta piuttosto una categoria usurpatrice, da cui decorre sia l'economia che la politica in quanto necessità logica.

Il pensiero moderno, fra cui il marxismo, ha ontologizzato erroneamente nella stessa forma lo Stato e la politica, così come ha fatto con il "lavoro". Per il marxismo del movimento operaio, immanente al valore, il mezzo politico è addirittura diventato il campo centrale di azione. Così la lotta per la libertà di associazione e per il miglioramento delle condizioni di vita, sulla base del sistema produttore di merci, include la trasformazione dei salariati in soggetti di diritto e in cittadini uguali. Anche sotto questa prospettiva, il movimento operaio e la sinistra si sono trasformati in pacemaker della socializzazione per mezzo del valore. In tale contesto, si è dato origine all'illusione che si potesse regolare politicamente la forma valore insuperata nel senso dell'emancipazione sociale, cosa che anche oggi appare in maniera fantasmagorica in varie versioni. Questo paradigma ha acquisito una certa razionalità immanente nello Stato sociale keynesiano, da una parte e, dall'altra, nei sistemi orientali "socialisti di Stato" della modernizzazione in ritardo, dove lo Stato funzionava addirittura come un imprenditore generale.

Questi diversi politicismi, però, rimangono molto al di sotto della soglia dell'emancipazione sociale, in quanto vogliono solo correggere i guasti per mezzo di una sfera funzionale interna alla forma valore (questo vale anche, a sua volta, per l'anarchismo, che, al contrario, ha messo al centro della critica lo Stato e la politica, cadendo così solo nell'illusione inversa di una pretesa produzione autonoma di merci, senza chiarire il nesso interno delle due sfere del valore). Fino ad oggi, la sinistra rimane aggrappata all'illusione della politica, estendendo il concetto di politica a casaccio e quasi ignorando il concetto di critica o di movimento sociale in generale. E' perciò centrale l'uso enfatico del concetto di democrazia o di "democratizzazione", in cui si riassume l'illusione politica. Democrazia, tuttavia, non è niente di più della forma statale sviluppata sul piano del valore, in cui pertanto anche le contraddizioni specifiche del sistema produttore di merci esprimono la loro forma più pura. I suoi concetti, così come la sua semantica immediata, sono essenzialmente quelli della forma del dominio e, in realtà, in termini tipico-ideali, quelli dell'auto-dominio e dell'auto-sottomissione dei portatori funzionali, sotto la forma collettiva del feticcio, o macchina mondiale del capitale.

Di conseguenza, la critica del valore implica, come necessità logica, la critica della soggettività politica ed una critica radicale della democrazia. Anche in questa prospettiva, si incontra di nuovo il "duplice Marx": cioè, da un lato, il teorico della modernizzazione, che auspica la politica e la democrazia; e dall'altro lato, il Marx critico radicale della politica e della democrazia, per il quale il superamento del feticismo moderno include il superamento dello Stato. Nella misura in cui il movimento operaio e la sinistra hanno rinviato quest'obiettivo ad un futuro immaginario - e praticamente non lo hanno preso sul serio - critica del valore significa anche il riscatto di questo momento non realizzato. Su questo punto, siamo abbastanza "dogmatici", cioè, non siamo disposti ad accettare, in forma indefinita e screditata, la relazione del valore feticista e le categorie della politica e della democrazia ad essa inesorabilmente legate. La critica del valore o è antipolitica, o non esiste.

Questo significa che c'è bisogno di sviluppare un movimento sociale che operi già immediatamente al di là del politicismo e dell'illusione democratica, pur non rinunciando, è pacifico, alla prospettiva dei "diritti" immanenti. Ma, l'autocoscienza e gli obiettivi di emancipazione di un futuro movimento di superamento, non possono più essere pensati secondo le categorie politico-democratiche. Questa prospettiva, tuttavia, ci riporta all'attuale "crisi della politica" - invocata e temuta (sebbene rimanga non concettualizzata) in tutto il mondo - che è una componente integrale della crisi assoluta della socializzazione attraverso il valore. I sintomi possono essere facilmente compresi. Ma qui non si tratta del fallimento dei politici, bensì della politica stessa in quanto sfera funzionale. Il concetto di "antipolitica" riflette esattamente tale situazione. Allo stesso tempo, quello che in questo modo viene espresso è che non si tratta di inventare una "altra politica", indipendentemente da quale sia la sua colorazione; senza partecipare, d'altra parte, alla corsa generale alla privatizzazione. Inoltre, è necessario un intervento sociale diretto che smantelli il dualismo schizofrenico della socializzazione attraverso il valore.

Infine, il terzo passo, ancora incompleto della critica del soggetto, ha come obiettivo il concetto stesso di soggetto. Non solo il soggetto del "lavoro" e la soggettività politica diventano superati, dal punto di vista della critica del valore, ma anche il soggetto stesso in generale. Nella misura in cui la forma valore fa della relazione sociale degli uomini una forza oggettiva separata, allora questa costellazione è già inscritta nella nozione stessa di soggetto. Logicamente, un soggetto può esistere soltanto in opposizione ad un non-soggetto, quindi, un oggetto. Laddove l'uomo si relaziona come soggetto con la natura e con la società, egli le tratta, e quindi tratta il suo proprio contesto, come oggetto. La soggettività, in questo senso, include già sempre l'auto-oggettivazione di questo soggetto, il quale si sottomette inconsciamente alle oggettivazioni del sistema produttore di merci, che formano il "soggetto automatico", al di là delle azioni volontarie astratte individuali. In rapporto alla macchina mondiale capitalista in quanto tale, il soggetto è, quindi, per definizione inesistente [gegenstandslos: senza oggetto]. Detto in altre parole: la soggettività può significare sempre e solo un soggetto inerente alla forma feticcio, che si occupa delle opzioni preconfezionate dalla logica del valore.

Così sintetizzato, tutto questo può forse sembrare un linguaggio arbitrario ed irritante, dal momento che si pone in contraddizione con abitudini profondamente radicate, trattando l'azione irriflessa e la soggettività come sinonimi. Se si tiene conto della genesi storica del soggetto moderno, allora, ci sono di fatto abbastanza ragioni che suggeriscono di non pensare la liberazione della moderna socializzazione attraverso il valore per mezzo degli stessi concetti fondamentali di azione e di coscienza e che provengono dalla formazione di questa socializzazione stessa. La genesi del cosiddetto soggetto non solo è aggrovigliata con il moderno processo di oggettivazione, ma è semplicemente identico ad esso, come mostra anche la storia del concetto di soggetto. Nella filosofia premoderna, il termine "soggetto" (Subjekt) significa quasi esattamente quello che oggi chiamiamo "oggetto" (Objekt). Questo significato del termine, si trova ancora presente, ad esempio, nel francese (e nella teoria della letteratura) dove, come si sa, "soggetto" significa "oggetto" (Gegenstand). Originariamente il "soggetto" è il sottomesso, perfino il suddito; e questo corrisponde meravigliosamente agli attuali servi incoscienti dell'economia di mercato e della follia concorrenziale della "posizione produttiva".
Quello che è nato insieme e che si appartiene reciprocamente, deve anche sparire insieme. L'enfasi della sinistra sul soggetto, sull'essere soggetto ecc., si riferisce solamente al concetto generale del proprio inconscio feticizzato, così come viene espresso nell'enfasi sul "lavoro" e sulla "politica". Lasciandosi alle spalle la forma sociale feticista, un movimento di emancipazione deve piuttosto superare, insieme alla relazione generale di valore, anche la forma-soggetto in quanto tale.

 

Domanda 3: Veniamo ora alle questione dei mezzi teorici. In altre riviste, come ad esempio "17 Grad", per la quale la decostruzione è anche una preoccupazione, viene sostenuta la tesi secondo la quale in relazione alla discussione sulle categorie come nazione, razza, genere, l'approccio teorico ispirato a Judith Butler offre più di quanto offra, ad esempio, la tradizione teorica marxista. Anche voi ritenete che tali approcci potrebbero diventare fertili anche rispetto alla critica del valore?

Risposta 3: Il cosiddetto post-strutturalismo o decostruzionismo è, a nostro avviso, una semplice teoria di moda nel contesto della postmodernità e non porta in alcun modo lontano, ma oscura soltanto il compito specifico della critica del valore. La decostruzione postmoderna e l'elaborazione concettuale della critica del valore rappresentano orientamenti del tutto contrarie. La decostruzione tenta di decifrare alcune categorie come "prodotti del discorso" e, attraverso questo, le relativizza. Inversamente, rispetto alla relativizzazione simbolica, non si tratta della storicizzazione e del superamento reale. Noi tentiamo di ridefinire quale ruolo abbiano determinate astrazioni nella socializzazione del valore, e come questo si sia prodotto storicamente. Per esempio, il fatto che l'astrazione "lavoro" non sia per noi sovra-storica, non cambia il fatto che essa continui ad essere, nella società fondata sul valore, nella realtà, un momento sostanziale. Questo non è semplicemente frutto di un discorso nebuloso, ma è il prodotto di 500 anni di storia dello sviluppo capitalista assassino e rappresenta, in quanto astrazione reale, il paradosso di una relazione sociale reificata convertita in una sostanza. Una simile astrazione non può essere eliminata dal mondo per mezzo di alcuni cambiamenti discorsivi superficiali, ma soltanto attraverso delle trasformazioni sociali di fondo che avvengano ad un livello del tutto diverso degli scherzetti decostruttivisti, fatti per hobby, circa il carattere sociale capitalista postmoderno, sul quale tutta questa pseudo-teoria è regolata.

Il postmodernismo/decostruttivismo non ha alcun concetto del valore e del feticismo nel senso della costituzione della società (quando è il caso, il concetto di feticcio appare ad altri livelli). Lungi dal portare a termine il programma della sua anti-ontologia superficiale, gira solo intorno ad una "ontologia del potere" diffusa da  sistemi di codici discorsivi, nei quali possono esistere solamente dislocamenti simbolici e ricodifiche, ma dove non può esistere alcun superamento reale. Il preteso anti-ontologismo della decostruzione in realtà concorre solamente ad una destoricizzazione della società e delle sue strutture, cosa che è anche la tendenza reale della stessa forma valore, sempre ripristinata. L'anti-essenzialismo, così posizionato, non è per niente dissolvente e liberatore, ma, al contrario, cementa la struttura feticistica del "discorso" su di esso basato - struttura che "non può" neppure essere nominata. Col pretesto dell'anti-essenzialismo, il problema sostanziale reale della costituzione feticista del valore diventa quasi un tabù. Per questo serve anche una teoria superficiale della conoscenza, che non vuole nemmeno più essere tale, e che rende uguale ogni differenza fra realtà e simulazione, fra essenza e apparenza, ecc.. Qualsiasi critica alla superficialità senza concetto viene sistematicamente gettata nei rifiuti, giacché per il postmodernismo/decostruzionismo quello che esiste, alla fine, è soltanto "superficie". La relatività storica delle formazioni sociali viene tradotta senza mediazioni nelle relazioni e nelle storie interne della moderna socializzazione per mezzo del valore, e, quindi non solo il capitalismo viene destoricizzato ma, in quanto struttura totale, viene semplicemente reso invisibile.

Pertanto non esiste più relazione fondamentale e sostanziale feticista in un senso relativo, storico, ma esistono unicamente relazioni superficiali, puramente "relazionali". In altre parole: la "critica" è possibile solamente nel contesto delle relazioni capitaliste interne, nel contesto dei loro eventi e delle loro condizioni, mentre il sistema referenziale costitutivo viene magicamente eliminato, reso inaccessibile. Questo "relazionismo" si basa sulla teoria linguistica di Ferdinand Saussure, il quale vaga come un fantasma per tutte le teorie strutturaliste, postmoderne e decostruzioniste. Saussure, da parte sua, ha relazionato il suo livellamento teorico-linguistico della differenza fra significato e significante - già formulato all'inizio del 20° secolo (e che i postmoderni trasportano ad altri livelli, e generalizzano per mezzo della teoria della conoscenza) - direttamente all'economia politica borghese del suo tempo. E' questa la teoria utilitarista che, in un redirezionamento polemico contro la critica del capitalismo di Marx, ha dissolto il concetto sostanziale del valore in una relazione puramente "relazionale" di valutazioni utilitarie soggettive. Non esiste più valore, ma solo prezzi e relazioni di scambio; la relazione del valore e la sua relativa forma-soggetto sono pertanto presupposte a priori, e qualsiasi tematizzazione, e così anche qualsiasi critica, viene elusa.

Dopo le variazioni fatte rispetto a Saussure, questo "relazionismo", in origine economico ed ora universalizzato, diventa il metodo generale postmoderno. A questo si accompagna anche il rifiuto delle "grandi teorie", o "grandi narrazioni". Si assume in questo modo che il momento violentatore e sfrontato dell'universalità astratta non si incontra nella forma sociale reale, ma soltanto nella sua riflessione teorica. In questo modo, il disarmo della riflessione critica viene trasfigurato in condotta "francamente emancipatrice", mentre la grande sfrontatezza sociale reale della violenta astrazione del valore esce dalla linea di tiro, in quanto le "grandi strutture" non "possono" più essere comprese dalle "grandi teorie". Tutto questo è talmente semplicistico che dovrebbero quasi vergognarsi di discutere seriamente una cosa del genere. Dalla prospettiva della critica del valore, è vero che nel marxismo dev'essere criticato il fatto che esso si sia inteso come una "grande teoria" positiva, poiché esso stesso si relazionava positivamente con la forma valore e voleva recuperarne positivamente la totalità. Ma la conseguenza di questo è che la "grande teoria" può essere cambiata negativamente (cioè, cambiare segno alla comprensione concettuale della totalità feticista e alla sua pretesa reale), più o meno nel senso dell'aforisma di Adorno per cui "il tutto è il non-vero"; senza che semplicemente si desista, bandendo il sistema di riferimenti sociali reali dallo sforzo teorico concettuale della teoria.

La critica sociale e teorica disarmata del postmodernismo corrisponde alla fine della storia dello sviluppo capitalista; non rappresenta alcuna riflessione, ma è solamente un riflesso di tale fine. Dopo che la socializzazione per mezzo del valore si è trasformata in un sistema planetario che copre il territorio, non essendoci più alcun luogo per uno sviluppo storico, nello stesso momento in cui si esaurisce la sua dinamica, si perde necessariamente anche interesse per la legittimazione teorica e per l'auto-riflessione. La teoria critica del tutto, che nella sua forma positiva è stata parte della storia dell'imposizione capitalista, non viene connotata negativamente e, a sua volta, superata criticamente, ma viene solo gettata nella spazzatura come superflua. La forma feticista dominante vuole eternizzarsi nella misura in cui rimuove il concetto teorico di sé stessa e della storia; d'ora in poi devono esistere solo eventi e dislocamenti all'interno della totalità della forma-merce, non più identificabili in quanto tali.

Questo obiettivo di eliminazione della spazzatura teorico-concettuale serve anche al culturalismo postmoderno, ossia, in senso duplice. In primo luogo, la dialettica fra natura e cultura, o natura e società, viene eliminata a favore di una "culturizzazione totale" delle relazioni naturali. Il problema posto dal valore e dalle relazioni naturali astratte, e pertanto distruttive, il problema del "processo del metabolismo sociale con la natura" sparisce, senza lasciare traccia, nella culturizzazione relativistica di tutti gli oggetti. In secondo luogo, anche l'economia del sistema feticista come fine in sé viene reinterpretata e cancellata culturalisticamente.
In questo modo, anche le contraddizioni sociali spariscono in una "culturalizzazione totale" del sociale; povertà e crisi vengono disattivate dall'estetizzazione. Culturalizzazioni ed estetizzazioni, nel postmodernismo, si uniscono al "relazionismo" in una sindrome totale di riduzione della teoria della società ad un gioco superficiale di sistemi simbolici che lascia in pace la macchina mondiale del valore  ed il suo processo catastrofico: la totalità negativa realmente esistente viene "de-realizzata" in una metafisica "discorsiva" culturalisticamente ridotta.

In quanto teoria, il postmodernismo/decostruzionismo in sé non dovrebbe essere preso troppo sul serio. Tutt'al più, può essere letto come satira reale, tanto nella forma della coscienza capitalista alla fine della sua storia dell'imposizione, quanto come critica immanente del sistema finora esistente. Questa teoria acquista importanza a causa del suo carattere funzionale alla persistenza cieca della costituzione feticista, nonostante la sua crisi. Il postmoderno rappresenta un breve interregno storico in cui la socializzazione attraverso il valore, per così dire, superando le rapide lungo i bordi del canyon, "prosegue la sua corsa verso la cascata", prima di cadere, alla fine, nell'inferno. Questa "cascata" si stabilisce economicamente come capitalismo da casinò, cioè come creazione di "capitale fittizio" (Marx) nelle condizioni di una sovraccumulazione di capitale strutturale irreversibile. A questo corrisponde un carattere sociale coercitivamente flessibilizzato, con un enorme potenziale di allucinazione, che estetizza la sua propria miseria, insieme ad una cultura di apparenza e di simulazione, di messinscena mediatica e di auto-messinscena - in una parola: di ignoranza che tutto pervade.

Per la sinistra, un simile postmodernismo/decostruzionismo è attraente, in quanto ha apparentemente permesso di schivare le sgradevoli esigenze di un cambiamento fondamentale di paradigmi - critica del valore - riguardo alla teoria. Col pretesto di una critica dello "economicismo", tutta la vecchia ed insuperata critica sociale immanente al valore si maschera culturalmente, rinnovata ed abbellita esteticamente. In questo travestimento, il sociologismo ridotto può presumibilmente continuare a strisciare, e anche la partecipazione animata alla cultura postmoderna della simulazione e della messinscena è assicurata.

Al posto di categorie come nazione, razza, genere, ecc. vengono messi in moto, attraverso la mediazione critica, dei principi formali e appartenenti alla storia della socializzazione attraverso il valore, che vengono riferiti "relazionalmente" alle "rispettive forme destoricizzate del processo del discorso. In altre parole: antinazionalismo ed antirazzismo diventano culturalizzati superficialmente e svincolati sistematicamente da qualsiasi critica fondamentale del capitalismo, il quale vaga ancora al secondo piano, nella sua forma insuperata, sussurrando parole alla moda. Così, in un certo senso, anche il marxismo sociologistico del movimento operaio, simultaneamente, "prosegue la sua corsa verso la cascata". Le sue aporie teoriche non vengono risolte, ma riappaiono in forma culturalista, trasformate in un "linguaggio", ed i suoi codici discorsivi, o sistemi simbolici, in forme irriconoscibili.

Mentre il marxismo del movimento operaio e la sinistra politicista, nella sua forma classica di manifestazione immanente al valore, sono difficilmente capaci di rispondere e abbandonano senza pianti e lamenti l'ideologia pseudo-raffinata di smaltimento rifiuti e di deviazione del postmodernismo/decostruzionismo sinistrorso entra in competizione diretta con la critica del valore. Nella lotta per l'evoluzione e la trasformazione adeguata della critica sociale, dopo un'epoca di rottura, arriverà, in un futuro prossimo, per così dire, la prova finale di questi due approcci diametralmente opposti. Il fatto che l'ideologia decostruzionista sia di moda, oggi appare innegabile, dacché ogni impettito damerino accademico, ogni carrierista ed ogni DJ la persegue, e questo non ci spaventa, in quanto questa futilità teorica inflazionata non resisterà a lungo.

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