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Uomo bianco perderai la tua Africa nera?

di Sebastiano Isaia

«Potrebbe essere il suo “cortile di casa”, un po’ come l’America latina lo è per gli Stati Uniti. Da anni, invece, il dialogo tra Europa e Africa si è inceppato». Così scriveva Adriana Cerretelli sul Sole 24 Ore del 30 giugno 2009. Il prolungarsi della crisi economica che dal 2008 impazza nel Vecchio Continente ha ulteriormente aggravato lo stato del «dialogo». Inutile dire che la Cerretelli stigmatizzava soprattutto l’idea che «l’Europa oggi possa permettersi il lusso di voltare le spalle all’Africa lasciando campo aperto all’opaca concorrenza cinese». La concorrenza capitalistica che ci danneggia è sempre opaca, per definizione.

L’Europa teme insomma di perdere definitivamente la sua vecchia riserva di caccia: l’Africa, soprattutto quella Nera, secondo la fraseologia geopolitica ancora in vigore. Sarebbe una perdita davvero grave, sotto tutti i punti di vista, a cominciare naturalmente da quello più triviale ma sempre più essenziale per comprendere la politica estera di tutti i Paesi, soprattutto di quelli storicamente molto sensibili all’evoluzione del “quadro internazionale”.

Alludo ovviamente al punto di vista delle esigenze economiche, dal cui soddisfacimento può prendere corpo una politica in grado di aspirare fondatamente, senza concedere troppo alle lusinghe del velleitarismo low cost, alla condizione di Potenza. E la perdita si prospetta tanto più grave nella misura in cui a occupare il posto che fu degli europei si candidano soggetti che hanno una gran fame di potere sistemico, e che quindi avanzano sul terreno della competizione mondiale senza troppi riguardi per gli interessi dei concorrenti: perché questi soggetti dovrebbero cambiare le regole del gioco proprio ora che possono condurlo con successo?

Diamo ancora una volta voce alla paura dell’Imperialismo europeo: «In un secolo in cui le materie prime cominciano a farsi sempre più rare, non bisogna dimenticare che l’Africa ospita la maggior parte delle riserve. E la Cina, così come il Brasile e l’India, ha accesso a esse. I bianchi invece, imbarazzati dalla loro storia coloniale, si fanno da parte. L’aspetto economico presenta un duplice interesse: non solo l’Africa possiede delle materie prime, ma rappresenta anche un mercato in forte crescita per l’industria europea. Le società di consulenza McKinsey e Kpmg constatano che la più alta produttività degli investimenti va cercata proprio nei paesi a sud del Sahara» (Marcia Luyten, UE-Africa: oltre il colonialismo, Nrc Handelsblad Amsterdam,12 febbraio 2013). Materie prime, mercati, profitti: signori, qui ci sono gli estremi per una bella dichiarazione di guerra, altroché!  Ma i bianchi sono diventati persone civili, e hanno messo da parte i vecchi attrezzi del mestiere. Soprattutto essi intendono dimostrare quanto sbaglia chi ancora oggi, nella Società-Mondo 2.0, ciancia di Imperialismo, tanto più se scritto con la i maiuscola – come usa fare chi scrive, e non solo per vezzo stilistico, per la verità.  Perché continuare a lavorare con categorie così obsolete? Già, perché?

Forse per questo: «La Francia ha ragione a impegnarsi nella lotta contro i ribelli in Mali, ma in seguito dovrà esigere – in base alle regole della realpolitik – un trattamento privilegiato per quanto riguarda le concessioni che saranno date per l’uranio o le terre agricole». Questo non basta quantomeno a relativizzare la mia obsolescenza concettuale? Proviamo allora con questo: «Gli europei devono prendere ispirazione dalla realpolitik della Cina e dare forma coerente a una propria politica nei confronti dell’Africa. Per fare questo devono liberarsi del loro pesante passato: non si può aver paura di essere accusati di “neocolonialismo” quando si partecipa alla corsa alle materie prime». Infatti, non si tratterebbe di “neocolonialismo” ma appunto di Imperialismo, semplicemente. Imperialismo sans phrase.

L’ascesa della Cina come grande potenza mondiale aderisce nel modo più fedele al concetto di  Imperialismo, il cui fondamento primo è da ricercarsi nell’espansione planetaria del Capitale colto nella sua variegata fenomenologia: capitali, merci, capacità lavorativa, tecnologia, scienza. Il potere dell’Imperialismo non nasce, in primo luogo, dalla canna del fucile, per mutuare il Grande – e da chi scrime mai osannato né rimpianto –  Timoniere, ma dalla canna fumaria delle imprese, se mi è concessa la metafora. Imprese pubbliche, miste e private, nazionali e internazionali, senza nulla concedere alle risibili distinzioni “qualitative” che usano fare gli ideologi dello statalismo e del liberismo.

La Cina come modello di politica imperialistica: ne è passata di acqua sotto i ponti della storia!

«In realtà la grande potenza asiatica non è mossa da buone intenzioni [non l’avevo ancora capito: ringrazio la bella editorialista dell’Handelsblad!]. I bianchi la vedono di cattivo occhio, e trasformano la propria impotenza in una sorta di riprovazione morale: la Cina è un predatore capitalista che saccheggia l’Africa. Questo punto di vista suscita risate di scherno nelle classi dirigenti africane, che con il progressivo aumento della ricchezza acquisiscono una migliore immagine di sé stesse: “Non è forse quello che avete fatto anche voi occidentali per un secolo!?”». Si rimane senza parole dinanzi a questa suprema dimostrazione di realismo, la cui schiettezza stride con l’odioso politicamente corretto dei progressisti occidentali. C’è del cinismo in tutto questo? Indubbiamente. Ma cinica è innanzitutto la realtà, non certo chi contingentemente le dà espressione in termini più o meno adeguati.

Per sintetizzare, oltre il colonialismo c’è l’Imperialismo.

«L’occidente deve avere un’idea chiara di quello che cerca in Africa. La sua nuova politica nei confronti del continente deve incentrarsi su almeno tre aspetti: geopolitico, economico e umanitario». Può mancare l’«aspetto umanitario» in una realpolitik rispettosa dei sacri valori occidentali? Certo che no! Magari i cugini americani qualche volta lasciano a desiderare quanto a preoccupazioni umanitarie, ma noi europei non possiamo fare nulla, neanche una guerra termonucleare, senza mettere davanti e sopra ogni cosa la Dichiarazione Universale dei diritti dell’uomo. È più forte di noi!

E ciò, fra l’altro, dimostra quanto organica alla prassi dell’Imperialismo (conflitti armati compresi) sia l’azione cosiddetta umanitaria delle ONG e delle altre organizzazioni “indipendenti” mosse da cristalline quanto ammirevoli considerazioni umanitarie. Si può dunque arrecare del male all’uomo cercando il suo bene? La domanda mi suona fin troppo retorica, anche se ne riconosco la grande pregnanza teorica e politica, giacché chiama in causa la radice del Male, refrattaria a ogni considerazione puramente etica.

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