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Alcune ipotesi contro-fattuali sulla presente crisi[1]

Luigi Pasinetti

Investimenti, profitti, crescita e distribuzione dei redditi

In un ormai famoso articolo nella «Review of Economic Studies» del 1956, Nicholas Kaldor aveva presentato una rassegna delle teorie della distribuzione del reddito.

Cominciava dai classici (Adam Smith e soprattutto David Ricardo), per poi proseguire con Marx, e quindi arrivare ai marginalisti neoclassici (con una lunga sintesi che includeva Walras/Wicksell/Mar-shall/Wicksteed). Ci si sarebbe aspettato che terminasse qui. Ma Kaldor aggiunse a questo punto anche una teoria kaleckiana basata sul grado di monopolio e soprattutto, a se stante e con inaspettata evidenza, una teoria «keynesiana» della distribuzione del reddito. Ciò destò sorpresa, perché nella Teoria Generale di Keynes (1936) non si trova alcuna esplicita formulazione di una teoria della distribuzione del reddito. In effetti, Kaldor aveva concepito una teoria di stampo keynesiano sì, ma nuova ed originale, che combinava e legava il concetto classico della «domanda effettiva», dovuta per la verità a Malthus più che a Ricardo, con le esigenze delle condizioni per il conseguimento della piena occupazione, cioè coi temi di cui si era essenzialmente occupato Keynes.

Il ragionamento di Kaldor era molto semplice, ma ricolmo di radicali conseguenze. Metteva in relazione la distribuzione del reddito tra profitti e salari con le esigenze della effettuazione di quegli investimenti che – incorporando il progresso tecnico e la disponibilità dell’aumento della popolazione lavoratrice – sono necessari per mantenere la piena occupazione in un processo di crescita economica: con questo, introduceva la distribuzione del reddito all’interno di un contesto teorico «keynesiano».

La novità di Kaldor stava nel partire dapprima proprio dall’originaria impostazione di Ricardo, nella quale si assumevano come dati, dalle esigenze della produzione, sia le rendite dei proprietari terrieri sia i salari di sussistenza per i lavoratori; configurando poi i profitti degli imprenditori-capitalisti come il «sovrappiù» di cui il sistema economico può disporre: la ragion d’essere di un sistema capitalista. Poi però – e qui era la novità! – Kaldor, dopo aver accettato come primo passo la formulazione della rendita ricardiana (per i proprietari terrieri), procedeva ad un rovesciamento della catena logica di Ricardo, passando subito alla determinazione dei profitti di equilibrio, definiti come l’ammontare di quei profitti che sono necessari ai capitalisti per effettuare quegli investimenti che assicurano una crescita economica in equilibrio (supponendo naturalmente la detrazione di una quota per i loro consumi, supposta tuttavia non elevata, data l’associazione dei capitalisti col risparmio e l’accumulazione). A questo punto, sorprendentemente, Kaldor proseguiva attribuendo ciò che rimane «in sovrappiù» (non già ai profitti, come avevano fatto Ricardo e poi Marx) bensì ai lavoratori. La sorpresa era evidentemente proprio questa attribuzione del sovrappiù dell’intero sistema economico ai lavoratori, cioè ai salari.

La dimostrazione di Kaldor era abbastanza chiara, ma risultava in termini analitici, piuttosto farraginosa.

[…]

In verità, la proprietà che risultava tanto ostica alla teoria dominante è proprio quella che sta al centro della teoria «keynesiana» che Kaldor proponeva. Si noti innanzitutto che questa teoria mantiene perfetta continuità con la teoria economica di impostazione classica, ma ne rovescia la direzione causale, ribaltando il ruolo contrapposto dei lavoratori e dei capitalisti. C’è una funzione «naturale» riconosciuta ai profitti, che viene individuata subito, e che viene giustificata dagli investimenti di equilibrio, cioè determinati dalle esigenze dell’assorbimento del progresso tecnico e dal mantenimento della piena occupazione. Quella parte del reddito nazionale che poi risulta in sovrappiù – il frutto degli aumenti di produttività dell’intero sistema economico – viene destinata all’intera popolazione lavoratrice. È proprio questo il nocciolo centrale, e originale, del contributo di Kaldor. Evidentemente ci sono importanti implicazioni istituzionali che immediatamente seguono da questa teoria. Si cercherà di accennarvi in seguito.

[…]



Il teorema dei mercati finanziari perfetti (Modigliani-Miller)

Sta di fatto che, da allora in poi, la teoria dominante su risparmio, investimenti e crescita ha cambiato registro. L’attenzione di gran lunga prevalente della professione economica, specialmente negli Stati Uniti d’America, è stata da allora massicciamente indirizzata in una direzione radicalmente diversa, una direzione che, pur essendo iniziata in sordina, già in precedenza, da quel momento ha attirato un’attenzione del tutto straordinaria, diffondendosi dai dipartimenti di economia alle business schools. Si è trattato dell’elaborazione di un complesso di teoremi diventati famosi nel loro insieme col nome di teorema Modigliani-Miller. (Vennero elaborati da Merton Miller e da Franco Modigliani, in parte separatamente e in parte congiuntamente. Ma nella letteratura si è affermata l’attribuzione congiunta a Modigliani-Miller.) Penso che l’enfasi e l’insistenza con cui il teorema Modigliani-Miller è stato ripreso, elaborato e presentato in una serie davvero numerosa di articoli, libri e manuali della teoria economica dominante abbia contribuito a generare un punto di svolta davvero drammatico nella politica economica, monetaria e finanziaria degli ultimi decenni. Cercherò innanzitutto di dare un enunciato, il più sintetico possibile, di questo teorema.

[…]

Possiamo dire che il teorema Modigliani-Miller dimostra, sotto certe specifiche condizioni ideali – essenzialmente facendo tutte quelle supposizioni che sono necessarie per definire un mercato dell’intermediazione finanziaria assolutamente perfetto, sia in termini di comportamenti micro-economici degli agenti economici, sia in termini di circolazione delle informazioni (tecniche, istituzionali, legali), sia in termini di organizzazione competitiva dei mercati – che il valore di mercato di un’impresa non dipende dalla sua struttura finanziaria, cioè in pratica non dipende dal rapporto tra debiti e mezzi propri.

Il teorema ha così indotto studiosi (e operatori!) a pensare che l’aumento dell’indebitamento non abbia alcuna contro-indicazione, senza con ciò considerare che un’ipotesi assolutamente necessaria per tale conclusione è che le imprese debbano sempre rimanere nella stessa classe di rischio, il che non può evidentemente avvenire se l’indebitamento aumenta. In parole più semplici, immediate e pratiche, il teorema ha indotto a pensare che non esista alcuna differenza tra le due alternative tradizionalmente considerate nella destinazione dei profitti delle imprese, e cioè quella dell’impiego interno degli stessi, aggiungendoli al capitale già esistente, o alternativamente quella di una loro distribuzione immediata ai proprietari del capitale delle imprese. Si noti bene però: perché non ci sia differenza alcuna tra le due alternative, occorre che per la seconda alternativa, «si prendano per scontate, come fanno spesso gli economisti teorici» […], le supposizioni di una perfetta libertà per i managers delle imprese, da una parte, e per i proprietari-azionisti dall’altra, di ricorrere, con decisioni razionali, a mercati finanziari (supposti perfetti), per la raccolta esterna dei mezzi finanziari necessari ad intraprendere i nuovi investimenti, o per l’impiego degli stessi in altre direzioni. Da un punto di vista ancora diverso, decisioni di investimento e possibilità di finanziamento si suppongono tra loro nettamente separate, e indipendenti dalla loro dimensione.

Con l’adesione a questo modo di pensare, è venuta evidentemente a profilarsi una netta contrapposizione tra un modo «classico» di considerare l’accumulazione del capitale, e invece una nuova metodologia basata sull’assegnamento su un supposto comportamento razionale degli agenti economici, in un contesto di mercati idealmente perfetti. Il primo modo, quello «classico» (e per implicazione anche quello «keynesiano»), viene giudicato rozzo e primitivo; la seconda alternativa viene incoronata di bellezza analitica e innalzata sul pinnacolo dell’unica possibilità aperta alla realizzazione della razionalità e dell’efficienza nella conduzione dell’economia e della finanza.

In sostanza possiamo dire che, fino alla formulazione del teorema Modigliani-Miller, l’idea era che la funzione tradizionale dei «capitalisti» – meritoria, per Ricardo, storicamente imposta, per Marx – fosse quella di non distribuire i profitti, ma di trattenerli all’interno delle imprese produttrici e accumularli insieme al capitale pre-esistente, generando quel processo di accumulazione del capitale che caratterizza le nostre società capitaliste. Il teorema Modigliani-Miller introduceva una netta rottura con l’intero approccio classico – e per implicazione con quello «keynesiano» – e indirizzava tutte le argomentazioni economiche nel canale di un presunto processo microeconomicamente fondato di comportamento razionale degli agenti economici, alla ricerca dell’efficienza nelle decisioni per gli investimenti interni o esterni all’impresa, avendo associato l’efficienza, non tanto alla massimizzazione dei profitti, che potrebbero dar luogo a complicazioni in regime di incertezza, ma alla massimizzazione del valore di mercato dell’impresa (cioè del valore delle azioni quotate in borsa), in un contesto culturale di perfetta conoscenza e perfetta comunicazione delle informazioni e in un contesto istituzionale di liberi mercati auto-regolantisi.


Le premesse storiche di questo teorema


Ma come si è mai potuto arrivare a questo insieme di convinzioni? Sembra doveroso chiederselo. E la risposta non è facile da dare. Occorre almeno brevemente rammentare un processo intellettuale cumulativo, lungo un secolo, nella storia del pensiero economico.

Va ricordato che la teoria prevalente – erede di quella che è stata anche chiamata la «rivoluzione marginalista» di fine Ottocento (e poi di inizio Novecento) – aveva nel frattempo elaborato un elegantissimo modello logico-matematico (il modello dell’equilibrio economico generale), fondato su una concezione dell’analisi economica contrapposta a quella dell’economia classica. La political economy di Smith e dei classici come «indagine sulla natura e le cause della ricchezza delle nazioni» era stata rimpiazzata dalla economics di Marshall e dei neoclassici, come scienza basata sulla ricerca dell’ottima allocazione delle risorse disponibili[2].

All’inizio, i fenomeni monetari vennero lasciati fuori dal modello. Sono stati poi gli economisti «monetaristi» (la cui leadership venne assunta da Milton Friedman) ad introdurli, e così a chiudere l’unico grado di libertà che il modello teorico ancora aveva; un’operazione logica questa che manteneva salda l’impostazione logica del modello teorico, purché si aggiungesse la supposizione di una perfetta neutralità della moneta (cioè la supposizione che la moneta agisse solo come «un velo» e non influisse sui fenomeni reali).

Il teorema Modigliani-Miller veniva a far compiere un ulteriore, cruciale, passo finale, nella logica di questo stesso modello. L’idea ritenuta geniale (e che personalmente ritengo sia stata folle) è stata quella di estendere lo stesso modello teorico, concernente l’ottima allocazione delle risorse, con l’aggiunta di tutte quelle supposizioni ulteriori che diventano all’uopo necessarie, non solo ai fenomeni monetari, ma anche (e soprattutto) a quelli finanziari. La deriva di questa estensione non si è più fermata. È proseguita verso nuove configurazioni, con la «finanza innovativa», con l’invenzione continua di sempre nuovi strumenti e artifici finanziari di ogni sorta, con libertà assoluta e indipendente da pur necessari controlli istituzionali: un iper-liberismo che ha portato a un fenomeno veramente nuovo – una finanziarizzazione dell’economia a livelli che non si sarebbero mai immaginati in precedenza.


Un atto di fede nella realizzazione di un ideale contesto istituzionale


Si è trattato, bisogna ammetterlo, di una vera «rivoluzione» sul piano analitico e sul piano istituzionale. Si è indubbiamente proceduto, in termini analitici, ad esaminare accuratamente le scelte che bisognava fare e le numerose supposizioni che occorreva aggiungere per costruire modelli formalmente ineccepibili. Ma non si sono valutate sufficientemente, o si sono ignorate, o si sono prese implicitamente come assenti o non esistenti, le conseguenze di un eventuale, e sempre possibile, nonsoddisfacimento delle supposizioni fatte. Soprattutto – e qui vengo al piano istituzionale – a me sembra non sia stato considerato il fatto, praticamente molto rilevante, che introducendo in questo modello supposizioni di un quadro ideale, e palesemente irrealistiche, equivaleva a chiudere il sistema logico così costruito a possibilità alternative, e soprattutto a perdere qualsiasi libertà di scelta con riferimento all’assetto istituzionale da adottare, aspetto questo di cruciale importanza, ma inspiegabilmente sottovalutato. Ci si è preoccupati che il modello portasse teoricamente a situazioni di ottimizzazione, ma non ci si è preoccupati del fatto che ciò comportava una unicità della configurazione istituzionale su cui bisognava fare assegnamento. L’unica configurazione istituzionale ammissibile risultava infatti quella dei mercati perfetti, senza però che si precisasse come questi mercati perfetti si sarebbero potuti formare o più semplicemente supponendoli come auto-creantisi e auto-regolantisi. È stato semplicemente compiuto una specie di atto di fede in tutte quelle condizioni, supposte automatiche, che sono necessarie per la realizzazione di un ideale contesto istituzionale, tra l’altro caratteristico di una fase storica che a me sembra ormai superata. Soprattutto non si è considerato il processo di esclusione che si veniva automaticamente ad introdurre. Ci si è effettivamente, e automaticamente, sbarrata la strada per la ricerca e l’esame di altre soluzioni alternative.


Un nuovo capitalismo «finanziario»?

[…]

Lasciando da parte i «motivi» e cercando di concentrarsi sulle «conseguenze», provo ad elencare alcune delle più evidenti caratteristiche che si sono recentemente manifestate delle nostre economie in seguito alla diffusa accettazione del teorema Modigliani-Miller, innalzato a «classico della letteratura economico-finanziaria»:

1) una corsa sfrenata ai profitti immediati e alla rapida distribuzione di dividendi. È infatti all’annuncio del livello dei dividendi che prontamente rispondono le quotazioni delle azioni in borsa (classificate come esprimenti «ricchezza»);

2) una corsa affannosa, da parte delle imprese, al reclutamento di managers abili in queste operazioni (essenzialmente di breve periodo), e una remunerazione di questi dirigenti con stipendi favolosi, con l’aggiunta di ulteriori privilegi, preferibilmente esenti da oneri fiscali: bonus, stock-options e una parafernalia di benefici di ogni tipo;

3) (su un piano più socialmente rilevante) una diminuzione di interesse per le ricerche, che vengono fatte o stimolate o raccomandate, sul fenomeno della distribuzione dei redditi: non solo con riferimento alle quote distributive a livello macroeconomico, ma anche, e soprattutto, con riferimento alla distribuzione «personale» dei redditi. Mi pare abbastanza diffusa la costatazione che le disuguaglianze nei redditi personali si siano accentuate – tra categorie, tra mansioni, oltre che geograficamente tra regioni. Le disuguaglianze vengono naturalmente giustificate con motivazioni meritocratiche, ma non sempre ci si preoccupa di dimostrarle;

4) parallelamente, negli ultimi decenni, mi pare si sia anche verificata, nella comunità degli economisti e dei politici, una diminuzione di preoccupazioni per il fenomeno della disoccupazione. Secondo gli autori delle teorie del cosiddetto «ciclo reale» – economisti come Edward Prescott o Robert Lucas, per citare solo due personaggi insigniti del premio Nobel per l’economia – si sostiene addirittura che la disoccupazione involontaria non esiste. Si sostiene cioè che, esaminando le decisioni e motivazioni dei singoli individui, si può argomentare che i lavoratori rimangono disoccupati perché, per scelta razionale, preferiscono non lavorare e rimanere disoccupati. Per quanto inverosimile suoni questa affermazione, essa viene elaborata in termini di logica inerente ai comportamenti razionali, normalmente dando per scontato l’assetto istituzionale dei mercati perfetti.

5) Mi sembra in ogni caso acquisito il riconoscimento dell’enorme aumento di un processo di finanziarizzazione delle nostre economie. Il settore «finanza», che nel quarantennio 1950-’90, rappresentava in media il 10% dei profitti societari (corporate profits), negli anni Novanta, è drammaticamente salito al 22%, ossia è più che raddoppiato. E nei cinque anni successivi (i primi cinque del nuovo millennio), è addirittura salito al 34% di tutti gli utili societari[3]. Mi sembra difficile non guardare a queste cifre se non come quelle di un fenomeno patologico.



La finanziarizzazione dell’economia


È naturale chiedersi: a che cosa stiamo assistendo? Ad una mutazione genetica del capitalismo?

Che si sia cominciato a prendere atto degli elementi di instabilità «reale», prima ancora che finanziaria, nelle economie industrializzate mi pare sia ormai riconosciuto. Ma gli ulteriori elementi di instabilità finanziaria, su cui Keynes non ha mai desistito dall’insistere, sono radicati nelle economie di mercato capitalistiche. L’analisi empirica ha confermato che la storia del capitalismo è ricca di casi di instabilità finanziaria, anche acuta, pure quando si è riusciti ad evitare instabilità nell’economia «reale». E tuttavia l’irrompere, nei lineamenti recenti, di un capitalismo abnormemente finanziarizzato mi pare troppo evidentemente patologico. Che la crisi attuale riveli che le istituzioni e le strutture da ri-esaminare e da ri-strutturare più in profondità siano proprio e soprattutto quelle del mondo finanziario mi sembra ormai quasi comunemente accettato.

Devo dire che la mia forte impressione è che – alla luce degli eventi recenti – sia diventato molto difficile sostenere che tutto questo non abbia avuto una qualche relazione con l’avvenuta diffusione della convinzione della rilevanza effettuale – probabilmente oltre le intenzioni originarie degli stessi autori – del teorema Modigliani/Miller. E se questo è effettivamente il caso, mi sembra altrettanto difficile pensare che proporre

[…]

questo teorema come «il nucleo delle finanza aziendale (the core of corporate finance)» non debba destare forti preoccupazioni.


Requisiti e necessità del sistema finanziario all’interno dei sistemi industriali


Considerando il punto dal quale siamo partiti, sorge spontanea a questo punto la domanda: si possono almeno indicare aspetti sui quali il paradigma nel quale rientra il modello logico dell’analisi keynesiana, troppo sommariamente messo da parte, possa dare indicazioni utili per capire gli eventi della crisi economica in cui ci troviamo attualmente immersi?

Io penso che ce ne siano molti, che dovrebbero essere scandagliati e esaminati attentamente.

Voglio qui almeno accennare ad uno di essi, rilevante per i fenomeni finanziari, che balza subito all’occhio e che è di particolare evidenza e di particolare interesse, proprio perché mette in luce la criticità dei fenomeni finanziari, relativamente ai fenomeni reali, in un sistema di produzione industriale, e proprio perché illustra la necessità di una «separazione», sulla quale ho recentemente avuto occasione di insistere[4].

Ho trovato a questo riguardo utile riferirmi ad un modello estremamente semplice – il «modello di puro lavoro», con produzione esclusivamente di beni di consumo deperibili e quindi non accumulabili. Esso serve

[…]

a rendere logicamente chiara la separazione tra le relazioni concernenti i fenomeni economici fondamentali e quelle che concernono i fenomeni che richiedono analisi di carattere istituzionale.

In un modello di puro lavoro, ogni bene e servizio viene prodotto, per ipotesi, da solo lavoro e, per convenienza di analisi, possiamo supporre che debba essere consumato alla fine di ogni periodo produttivo. In un tale schema logico, quindi, ci sono soltanto beni di consumo. Non ci possono essere beni capitali, perché per ipotesi non sono necessari al processo di produzione. Ciò significa che tutto il prodotto nazionale (netto o lordo non importa, perché le due versioni vengono a coincidere) viene consumato alla fine di ogni periodo produttivo. Non si allarmi il lettore: queste supposizioni vengono fatte solo come espediente logico per far emergere in modo chiaro e semplice alcuni concetti importanti ai nostri fini. La loro funzione è semplicemente quella di operare una netta separazione tra gli stock dei beni reali e gli stock di natura monetaria e finanziaria.

Chiaramente, avendo ipotizzato che non ci siano beni capitali reali, non esistono stock reali nell’intero modello. Ma ciò non esclude affatto che ci siano stock monetari e finanziari. I vari agenti economici possono benissimo scambiarsi titoli di credito, con i quali intrattenere tra loro rapporti di debito e credito, denominati in termini di una unità convenzionale di potere di acquisto. Tali titoli di credito possono avere scadenze concordate, in base ad accordi prestabiliti (appunto con contratti di debito e di credito), in modo che i prestiti possano ritornare a coloro che li hanno accordati a scadenze di tempo per le quali sono desiderati, con varie configurazioni inter-temporali. L’aspetto rilevante da sottolineare è che ci possono essere stock che rappresentano debiti e crediti per scambi di potere di acquisto nel tempo pur non essendoci stock di natura reale.

La caratteristica interessante è proprio che si è ipotizzato un sistema economico in cui, pur non essendoci stock di beni fisici reali, possono venire in esistenza serie variegate di stock finanziari. Evidentemente, questi stock finanziari, nel loro complesso, si annullano. Possono costituire ricchezza finanziaria per i creditori, che viene tuttavia annullata dalle uguali passività dei debitori. In aggregato, in un modello di puro lavoro, non esiste nessuna ricchezza finanziaria netta. Per la società nel suo insieme, la somma dei crediti e debiti è zero. Ci possono naturalmente essere varie giustificazioni per l’esistenza di tali stock finanziari (positivi e negativi). La più ovvia e semplice, nel modello semplificato che è stato ipotizzato, è che ciascun agente economico può godere di flussi positivi di potere di acquisto (tipicamente salari per il proprio lavoro) e flussi negativi di cessione di potere di acquisto per provvedersi beni per il suo consumo. Nel modo più naturale, i flussi dei salari possono non coincidere nel tempo con i flussi di consumo desiderati. C’è quindi la necessità che moneta e i titoli di credito di vario tipo possano esser messi in esistenza da parte di istituzioni monetarie e finanziarie, che svolgono un servizio di intermediazione per facilitare i collegamenti nel tempo dei flussi dei salari in entrata e dei flussi di acquisto beni di consumo in uscita nei bilanci individuali, in modo da dar luogo a una rete inter-temporale che corrisponda ai desideri e alle preferenze degli agenti economici considerati.

Si possono introdurre nel modello tutte le complicazioni che si vogliono sui titoli di credito e di debito, con stipulazioni di contratti che coinvolgono la corresponsione di interessi dai debitori ai creditori, nei modi più variegati e sofisticati che si possano immaginare.

La caratteristica che, ai nostri fini, emerge come rilevante è che, già in un semplice sistema economico di puro lavoro in cui per ipotesi non esistono beni fisici capitali – ossia non ci sono stock reali – si possono instaurare rapporti di debito e credito a non finire, anche se nel loro complesso si annullano. Si possono in effetti creare stock finanziari senza che per gli stessi esistano limiti fisici.

È proprio questa la caratteristica rilevante. A differenza di ciò che avviene per i beni capitali fisici, non esistono limiti fisici a operazioni finanziarie: esistono solo quei limiti che possono essere imposti dalle configurazioni istituzionali esistenti, che tra l’altro sono soggette ad essere modificate, in modi e maniere sempre aperte all’innovazione e all’invenzione di nuove caratteristiche.

È interessante notare la radicale differenza rispetto alle caratteristiche inerenti all’esistenza di stock reali. In ogni sistema economico appena un po’ più complesso, in cui la produzione è il frutto dell’impiego non solo di lavoro ma anche di beni capitali, ogni unità di produzione viene necessariamente ad essere dotata di beni capitali specifici, che sono caratterizzati da una specifica dimensione di capacità produttiva per i beni che vengono prodotti. È importante sottolineare che, in questo caso, gli stock reali hanno un limite fisico; non possono andare oltre quella capacità produttiva che assorbirebbe la piena occupazione del lavoro disponibile. Se andassero oltre, rappresenterebbero capacità produttiva inutilizzata, e quindi inefficienza. Ossia, la dimensione degli stock reali dei beni fisici capitali ha un limite fisico che non può essere superato, pena l’inefficienza nel sistema.

Non è così per gli stock finanziari. Questi possono essere creati ad libitum e, proprio recentemente, con lo strumento della leva finanziaria, è stato messo in mostra fino a quali livelli possono essere spinti! Anche nel caso – come avverrebbe in un modello di puro lavoro – in cui non esistano assolutamente stock di beni capitali reali, debiti e crediti possono crescere a dimensioni favolose, anche se dietro agli stessi, di «reale», non c’è nulla!

Non sfuggirà l’importanza di queste proposizioni.

Esse sollevano la questione di quale sia la funzione ultima delle operazioni finanziarie, e quindi delle stesse istituzioni finanziarie. Chiaramente, è soltanto la definizione di una configurazione soddisfacente di questa funzione, ossia una specificazione di quale sia il «servizio» che ci si aspetta venga svolto da tale funzione, che la stessa potrà essere invocata per giudicare, avvalorare, valutare l’adeguatezza dell’intero insieme delle istituzioni finanziarie a soddisfare le esigenze del mondo post-industriale in cui stiamo vivendo.

Non sembra che queste esigenze possano essere soddisfatte nel solco irrealistico (e al limite irresponsabile) in cui «teoremi», come quello di Modigliani-Miller , hanno concorso a trascinare – sia pure indipendentemente dalle intenzioni dei loro autori – le economie del mondo industrializzato. Di ben altro abbiamo bisogno. Sembra proprio ci sia una necessità impellente di una rifondazione profonda della coscienza delle funzioni, dei limiti, e delle necessità di regolamentazione dell’intero mondo delle istituzioni finanziarie appropriate ai sistemi industriali.

Ciò che, mi sembra, sia emerso in modo abbastanza chiaro dai recenti avvenimenti è che il nucleo essenziale dell’economia dominante si è dimostrato tristemente inadeguato a definire tali funzioni, non appena si considerino le caratteristiche che si sono profilate nell’evoluzione dei sistemi economici post-industriali.

Abbiamo bisogno di recuperare, non di eliminare, le alternative possibili.


Alternative “keynesiane”?


A questo punto, non si può più evitare la domanda: ci sono considerazioni e aperture che sgorgano dall’approccio classico-keynesiano, sopra passato in rapida rassegna e poco saggiamente accantonato dalla teoria economica prevalente?

Evidentemente ce ne sono.

Ci si accorge subito tuttavia, e innanzitutto, che, nel caso che stiamo considerando, l’alternativa «keynesiana» rispetto a quella della teoria economica dominante si muove su un piano diverso.

Mentre l’economia e la politica economica che hanno portato alla formulazione del teorema Modigliani-Miller acquistano senso soltanto in un contesto istituzionale strettamente fondato su liberi mercati, per di più supposti perfetti, lo schema teorico «keynesiano» non è legato ad alcuno specifico assetto istituzionale. È completamente aperto (o se si vuole, in esso esistono molti gradi di libertà). Per questa sua caratteristica, esso non esclude affatto il possibile ricorso anche alle stesse istituzioni di mercato, senza le assurde supposizioni dei mercati perfetti, ma nello stesso tempo è perfettamente compatibile con altre istituzioni, perfino con istituzioni che stanno all’altro estremo, dal punto di vista istituzionale, al limite dei sistemi centralizzati, oltre che con tutte le alternative configurazioni di istituzioni intermedie, di vario tipo e grado.

Il contrasto con l’approccio dominante è quindi netto, proprio sul piano metodologico.
[…]


La tentazione delle ipotesi contro-fattuali


Alla fine di questa esposizione, bisogna riconoscere che diventa forte la tentazione di qualche esercizio basato su ipotesi contro-fattuali. Specialmente se si pensa alla grave crisi economica che è in corso, che cosa c’è di più spontaneo dell’interrogarsi sul come ci troveremmo, se invece del filone neo-classico e monetarista che è prevalso nella maggioranza della professione e nella politica economica e monetaria degli ultimi tre o quattro decenni, un’attenzione più rilevante fosse stata accordata alle teorie a alle politiche economiche «keynesiane»? Occorre naturalmente anche essere consci che ogni risposta, sia pur circostanziata, a questa domanda non può evitare di incorrere nell’accusa dell’elaborazione fantasiosa. Ancor più, in effetti, nel nostro caso nel quale, come si è rilevato, l’apertura «keynesiana» sarebbe stata compatibile con una molteplicità di assetti istituzionali diversi da quelli del puro mercato competitivo.

Con tutto ciò, è tuttavia sorprendente il dover constatare come, nel giro di pochi mesi, i governi dell’intero mondo occidentale industrializzato – con gli Stati Uniti e il Regno Unito all’avanguardia – siano stati costretti dal precipitare degli eventi ad intervenire con salvataggi di dimensioni senza precedenti, per tenere in attività colossi bancari, finanziari e assicurativi in gravi difficoltà, e poi, per conseguenza, anche imprese industriali, di dimensioni dalla rilevanza mondiale, il cui fallimento avrebbe avuto conseguenze di disoccupazione spaventose, e in ogni caso giudicate socialmente insostenibili. Si sono dovute riprendere le argomentazioni di Keynes, non tanto per ricantare una linea di pensiero sbagliata, il che si è fatto solo in parte, ma per dare una giustificazione pratica a interventi massicci di finanza pubblica, con mezzi finanziari di dimensioni tali che non si sarebbero potuti spiegare con qualsiasi teoria o considerazione o eccezione su cui l’economia dominante potesse fare assegnamento, dato che, per l’economia dominante, gli eventi che stavano avvenendo non sarebbero dovuti avvenire.

Eppure appare per lo meno sconcertante che si siano effettuate in pratica delle nazionalizzazioni su larga scala, ovviamente con indebitamento pubblico, cioè di tutti i cittadini, senza alcun piano, salvo che dando la giustificazione che non si poteva fare altrimenti, come se si fosse trattato di reagire ad un evento esterno, piovuto dal cielo, non solo inaspettato, ma essenzialmente inspiegabile; con la sola prospettiva (pure non spiegata), che si dovesse trattare di un fenomeno temporaneo, da superare al più presto, per poi ri-privatizzare le imprese nazionalizzate, una volta che le situazioni di insolvenza fossero state sistemate (cioè fatte pagare all’insieme dei cittadini).

Davvero, si possono pensare esempi più chiari di quello, che lo stesso Joseph Stiglitz ha definito un «socialismo all’americana»[5], consistente nella «socializzazione delle perdite e nella privatizzazione dei profitti»?

Rimane da domandarsi perché mai una proprietà pubblica (non necessariamente totale, né essenzialmente statale, ma sostanzialmente con il controllo della comunità, nel senso efficace delle sue organizzazioni più variegate) non potesse esser stata più intelligentemente prevista e attuata. Quelle nazionalizzazioni che ora si sono dovute fare si sarebbero già trovate fatte, nel modo più naturale, ossia con l’accumulazione dei profitti; e la proprietà pubblica sarebbe venuta in essere automaticamente, evitando gli enormi costi che si sono sostenuti e che probabilmente si dovranno ancora sostenere.

Un aspetto finale che non è più contro-fattuale ma reale e rilevante mi pare comunque non possa sfuggire. Mi sembra proprio più ragionevole guardare con maggior favore ad un’impostazione «keynesiana», forse con basi meno analiticamente sofisticate di quelle che sono state poste alla base dell’economia prevalente, eppure più vicine al buon senso e più adatte ad utilizzare quei termini di flessibilità e di apertura necessari a processi di ricostruzione delle istituzioni più appropriate all’intera intelaiatura di un mondo in evoluzione e globalmente industrializzato.

1 Ringraziamo l’Accademia nazionale dei Lincei e l’autore per aver consentito la pubblicazione di questo stralcio dell’intervento al convegno «Gli economisti post-keynesiani di Cambridge e l’Italia», Accademia nazionale dei Lincei, 11-12 marzo 2009. Si tratta del testo abbreviato (con omissione dei passi più circostanziati) per un pubblico non accademico...

2 Le opere simbolo della nuova concezione dell’Economica si possono probabilmente indicare nelle Foundations of Economic Analysis di Paul Samuelson (1946), e nella Theory of Value di Gerard Debreu (1959). Queste opere si occupavano essenzialmente di prezzi e di quantità fisiche reali in un contesto di massimizzazione vincolata di funzioni micro-economiche dell’utilità dei consumatori e del profitto degli imprenditori; mentre lo strumento analitico della massimizzazione vincolata veniva individuato come il principio universale per tutta l’analisi economica, in un imperante contesto di individualismo metodologico.

3 Dati forniti dal Department of Commerce negli Stati Uniti d’America.

4 L. Pasinetti, Keynes e i Keynesiani di Cambridge. Una ‘rivoluzione in economia’ da portare a compimento, Laterza, Roma 2010, pp. 244 e ss. e poi pp. 250 e ss.

5 J.E. Stiglitz, intervistato da Rana Foroohar, We’re in a Whole New Territory, «Newsweek», 6 aprile 2009, p. 39.

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