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L’origine sociale della crisi *

Antonio Lettieri **

Abstract

Vi sono due spiegazioni convenzionali sulla peggiore crisi finanziaria dopo la Grande Depressione dagli anni '30 del secolo scorso. Da un lato, il tracollo dei mutui subprime dall'altro, la mancanza di un’ adeguata regolamentazione finanziaria, ma entrambe queste spiegazioni sono poco convincenti. È necessario esplorare le radici sociali della crisi, a partire dalla imponente crescita dell'indebitamento delle famiglie. A causa della grande diseguaglianza nella distribuzione della ricchezza e del reddito, l’enorme indebitamento è diventato negli ultimi decenni una condizione sociale ordinaria e, al tempo stesso, la condizione necessaria per la crescita dell'economia americana.

Tra le origini della grande diseguaglianza bisogna annoverare il verticale declino del potere dei sindacati e l’inadeguatezza delle politiche sociali. In questo quadro il sistema finanziario ha dato luogo a un mondo parallelo, virtuale, sempre più distante dall'economia reale. Il richiamo alle origini sociali della crisi permette di identificare due radici fortemente intrecciate: da un lato, l'impatto della crescente diseguaglianza all'interno della società americana e, dall'altra, l’inconsistenza ideologica dell' “efficienza del mercato”. Una diagnosi non convenzionale è necessaria per contrastare le illusorie politiche del dopo- crisi.


Il tema dell'origine sociale della crisi è in contrasto con la spiegazione convenzionale che la rappresenta come una crisi fondamentalmente finanziaria. Mettere l'accento sulle sue radici sociali non significa offuscare le sue componenti finanziarie. Non per caso il suo culmine è fatto coincidere col collasso nell'autunno del 2008 della Lehman Brothers, una delle maggiori e più antiche banche d'investimento americane, quando apparve chiaro che altre grandi banche e compagnie di assicurazione sarebbero andate incontro al fallimento senza un massiccio intervento del governo.

Che cosa è andato storto? qual è stata la causa della peggiore crisi finanziaria dopo la Grande Depressione degli anni '30 del secolo scorso? Secondo la rispostaconvenzionale, all'origine della crisi si collocano i mutui "subprime", vale a dire, i prestiti ipotecari con tassi di interesse meno favorevoli in quanto considerati a più alto rischio. Quando le famiglie non furono più in grado di far fronte al pagamento dei mutui per l'aumento dei tassi di interesse, la conseguenza fu il crollo del valore dei titoli garantiti dai mutui. In questo scenario, caratterizzato dalla enorme entità dei debiti ipotecari - pari complessivamente a 11 mila miliardi di dollari, di cui almeno uno su dieci subprime - e dal crollo del valore delle case, le banche che avevano emesso migliaia di miliardi di titoli garantiti dai prestiti ipotecari (Mortgage-backed securities) si trovarono sull'orlo del collasso. Secondo questa analisi furono pertanto i mutui subprime all'origine del crash finanziario globale.

Ma può essere considerata una spiegazione convincente? In realtà, solleva due questioni fra loro intrecciate. In primo luogo, perché le banche finanziarono una colossale mole di mutui subprime, e altri non tradizionali, ad alto rischio? E, in secondo luogo: come è stato possibile che un numero così elevato di famiglie si sia imbarcato in mutui che non erano in grado di rimborsare? A questi interrogativi si forniscono due spiegazioni. Da un lato, una carenza nella regolamentazione del sistema finanziario; dall'altro, l'imprudenza delle famiglie irresponsabilmente disposte ad addossarsi un debito che non erano in grado di ripagare.


L’argomento delle regole

Cominciamo con la prima spiegazione, la mancanza di norme in grado di regolare il sistema bancario. La spiegazione non può non sollevare molti dubbi, se non un aperto scetticismo. Gli Stati Uniti sono al centro del modello finanziario, sia teorico che pratico, adottato nel resto del mondo. Si tratta di un modello sbagliato? Se fosse così, bisogna spiegarne le ragioni.

Facciamo qualche esempio. La riforma bancaria più rilevante promossa negli Stati Uniti negli ultimi decenni è stata l'abrogazione della legge Glass-Steagall introdotta nel 1933, all'alba della presidenza di Franklin D.Roosevelt. La riforma fu decisa nel 1999 sotto la presidenza di Bill Clinton. Il presidente della Federal Reserve, la Bancacentrale americana, era il leggendario Alan Greenspan – un oracolo della finanza globale che, prima di ritirarsi nel 2005, servì sotto quattro presidenti degli Stati Uniti. E il segretario al Tesoro era Larry Summers, uno dei più brillanti economisti americani, che successivamente divenne presidente dell'Università di Harvard e poi capo-economista nello staff di Barack Obama. Dobbiamo, tra molti altri, a questi esperti di indiscusso prestigio la riforma finanziaria che ha cambiato le regole del Glass-Steagall Act, che aveva istituito la separazione tra banche commerciali e banche di investimento.

“Il mondo cambia, e noi dobbiamo cambiare con lui'', affermò il senatore repubblicano Phil Gramm, che aveva elaborato la legge di riforma che porta il suo nome insieme col nome degli altri due principali sponsor repubblicani, Jim Leach e Thomas J. Bliley. ''Siamo di fronte a un nuovo secolo – spiegò Phil Gramm - e noi abbiamo la possibilità di dominare il nuovo secolo come abbiamo dominato questo secolo. Il Glass-Steagall Act, varato nel pieno della Grande Depressione, fu promosso in un‟epoca nella quale, secondo il pensiero dominante, il governo era la risposta. Nell'attuale epoca di prosperità economica, abbiamo deciso che la libertà è la risposta''. Questa era la voce della maggioranza repubblicana del Congresso, ma la nuova legislazione fu approvata dalla stragrande maggioranza dei democratici in entrambe le Camere. E Larry Summers, che aveva lavorato alla riforma per conto di Bill Clinton, entusiasticamente commentò: ''Oggi il Congresso ha votato l'aggiornamento delle norme che hanno disciplinato i servizi finanziari dopo la Grande Depressione per sostituirli con un sistema per il XXI secolo. Questa legislazione storica consentirà alle imprese americane di competere più efficacemente nella nuova economia'' (New York Times, 5 novembre 1999).

La riforma fu dunque il risultato di una scelta meditata e impegnativa. Tanto più che, seppure minoritarie, non mancarono le le critiche e le premonizioni. ''Il Glass-Steagall Act – osservò nel corso del dibattito il senatore Wellstone - aveva lo scopo di proteggere il nostro sistema finanziario isolando le banche commerciali rispetto ad alcune forme di rischio ... Ora il Congresso è in procinto di abrogare quello strumento di stabilizzazione senza prevedere altre forme paragonabili di salvaguardia”. E sulla stessa linea un giudizio profetico fu espresso dal senatore Dorgan, che affermò: ''Penso che guardando indietro tra dieci anni diremo che non avremmo dovuto farequesto, ma che lo abbiamo fatto perché abbiamo dimenticato la lezione del passato, e che ciò che fu vero nel 1930 sarà vero nel 2010”. In effetti, ci sono voluti meno di dieci anni perché la predizione si avverasse.

Siamo, in questo caso, di fronte al chiaro esempio di un cambiamento fondamentale delle regole promosso in piena consapevolezza della sua portata Possiamo, col senno di poi, non concordare con il nuovo modello di regolazione, attuato attraverso la riforma del 1999, ma non possiamo ragionevolmente affermare che la crisi del 2008 si deve a un semplice difetto di regolazione della finanza. La riforma della legge bancaria era stata a lungo discussa e poi adottata nella convinzione, largamente condivisa, che rispondeva all'esigenza di “modernizzazione” richiesta dai cambiamenti in corso nel mondo della finanza.

Prendiamo un altro esempio. Negli ultimi dieci anni abbiamo assistito a un enorme sviluppo di prodotti finanziari innovativi. Le banche hanno individuato un business altamente redditizio nella conversione del debito dei consumatori in titoli “strutturati” e commerciabili, sotto forma di CDO, collateralized debt obligation, e CDS, credit default swaps. E‟ il modello che gli economisti chiamano "originate and distribute". Un modello basato su una leva finanziaria molto elevata che le banche hannospregiudicatamente usato per effettuare investimenti finanziari 30-40 volte superiori al capitale proprio. Il risultato è stato prima una mirabolante ascesa dei profitti (privati), poi il crash con le perdite accollate ai bilanci (pubblici). Eppure, anche in questo caso, gli avvertimenti non erano mancati. Come quando, di fronte ai nuovi e sofisticati prodotti della celebrata finanza innovativa, Warren Buffet, il più famoso finanziere americano, li aveva icasticamente definiti "armi finanziarie di distruzione di massa", parafrasando le supposte armi di distruzione di massa di Saddam Hussein.

Naturalmente, nessuno negò che nel nuovo contesto fossero necessarie regole di comportamento e controlli. Ma prevalse la tesi secondo la quale le banchedisponevano al proprio interno dei necessari strumenti di misurazione dei rischi e dei modelli matematici in grado di controllarli. In altre parole, la Federal Reserve, la SEC (Securities and Exchange Commission) e il segretario al Tesoro, insieme con i maggiori esperti finanziari e non pochi premi Nobel, tutti concordarono sul principio che le grandi banche avrebbero potuto gestire i rischi più efficientemente attraversoschemi di autoregolazione volontari di carattere interno che non attraverso l'applicazione di apposite norme di legge. Esattamente il contrario della politica di Roosevelt, che con la riforma bancaria del 1933, aveva voluto imporre "il passaggio dal volontarismo al diritto come mezzo di regolazione dell'economia" (Arthur Schlesinger, The Cycles of American History, pag.379).

Concludendo su questo punto, è arduo sostenere che il problema consisteva nella mancanza di regole. Come abbiamo visto, il mondo della finanza e le autorità politiche e di controllo condividevano l'opinione che, riformando e modernizzando il vecchio apparato di regole, il sistema avrebbe operato in modo più efficiente. E‟ stato poi Alan Greenspan ad ammettere, qualche anno dopo,in una Testimonianza di fronte a una commissione del Congresso (Committee of Government Oversight and Reform, 23 ottobre, 2008) che alla base di questa convinzione vi era un presupposto ideologico. Vale a dire, la fede incondizionata nel principio dell‟efficienza del mercato e nella sua capacità di autoregolazione.

Insomma, il problema era nella filosofia del funzionamento generale del sistema. Rimane da chiedersi come sia stato possibile che questa filosofia godesse di un così vasto consenso tra banchieri, economisti, politici, media, senza rilevarne le incongruenze, la fragilità e i rischi di collasso del sistema. Per rispondere a questo interrogativo, si deve ragionevolmente supporre che vi fosse una corrispondenza di fondo tra l'ideologia neo-liberista (quella che J. Stiglitz definisce "fondamentalismo di mercato") e gli interessi preminenti delle élite finanziarie dominanti.


L'argomento "subprime"

Esaminiamo ora la seconda questione. Qual è l'origine dei mutui subprime? Perché milioni di famiglie sono state indotte a caricarsi di debiti che non erano in condizione di rimborsare? Le ragioni generalmente indicate sono due. La prima riguarda i bassi tassi d'interesse che, nella prima metà dello scorso decennio, furono ridotti dalla Federal Reserve fino all'uno per cento, praticamente a un tasso negativo in termini reali. La seconda è che i prezzi delle case furono in quegli anni in continua e rapida ascesa, creando l'illusione di un facile arricchimento.

I critici del comportamento delle famiglie (si veda, Th. Sowell, The Housing Boom and Bust, 2009) sostengono che questi due fattori, combinandosi, furono la principale causa della crisi: da un lato, il lassismo della Federal Reserve, dall'altro, l'irresponsabilità delle famiglie. Un capro espiatorio è così identificato. Anzi, due in una volta.

Ma esaminiamo più da vicino l'argomento dei mutui subprime. Si consideri, a titolo comparativo, l'esperienza italiana, che non è in generale diversa da quella dei principali paesi europei. Se si stipula un mutuo ipotecario, è necessario dimostrare la disponibilità di un reddito sufficiente, anticipare un acconto, in genere il 20 o 30 per cento del prezzo, e ripagare il debito in un certo numero di anni (generalmente 15 o 20, raramente più).

Nei mutui edilizi americani la durata è abitualmente di 30 anni. Durante questo lungo periodo, dopo aver ripagato una parte del capitale, è possibile rinnovare il mutuo anche in funzione dell‟aumento del valore dell‟immobile. In questo modo è possibile disporre di risorse per spese correnti o anche per rimborsare altri debiti generalmente più costosi e privi della detrazione d'imposta concessa al mutuo per la casa. In altre parole, la tua casa non è solo l'abitazione in cui vivi, ma anche una sorta di bancomat al quale ricorrere in caso di necessità. "Milioni di proprietari di case - scrive M. Zandi -saltano su questo treno, ricavandone al picco del boom, quasi mille miliardi di dollari all'anno” (Financial Shock, 2009, p.59).

Una caratteristica americana degli ultimi decenni è stata la enorme crescita del debito privato. Se si effettua un confronto con l'Italia (e, in generale, con l'Europa), si scopre che qui le famiglie hanno una buona dose di risparmio. Al contrario degli Stati Uniti, dove il risparmio medio delle famiglie era nel corso dell'ultimo decennio vicino a zero, l'indebitamento complessivo raggiungeva il livello del PIL, pari a circa 14 trilioni di dollari. E - secondo uno studio della Fed - i mutui ipotecari (circa 11 trilioni di dollari) erano pari all'82 per cento del totale del debito delle famiglie (Th. Sowell, ibidem, p.5). Queste cifre mostrano insieme il mastodontico cumulo dell‟ indebitamento delle famiglie e, al suo interno, il ruolo cruciale che vi giocano i mutui ipotecari.

In generale, le famiglie americane hanno a che fare con tre tipi di indebitamento: l'esorbitante numero di carte di credito, le spese di assistenza sanitaria - quando l'assicurazione è inesistente o non basta a fornire l'assistenza necessaria - i debiti per sostenere le spese del college per i figli - debiti che si aggiungono al mutuo per la casa di abitazione. Non vi è dubbio che, in presenza di tassi d'interessi estremamente bassi, e nella previsione di quella che sembrava essere una crescita inarrestabile dei valori immobiliari, le famiglie siano state spinte sia ad accendere un mutuo, sia, soprattutto, al rifinanziamento del vecchio. E, tuttavia, per acquistare una casa o per rifinanziare il mutuo in corso, è necessario il consenso del creditore. Perché le banche non esitarono a concedere e anzi ad attivamente promuovere prestiti sostanzialmente senza condizioni? La risposta sta nel fatto che i nuovi strumenti finanziari consentivano alle banche di erogare un mutuo senza doverne sostenere il rischio.

Il meccanismo è apparentemente semplice e suggestivo. Le banche assemblano e suddividono in tranche, a seconda del livello di rischio, una certa quantità di mutui. Sulla loro base emettono titoli obbligazionari, garantiti dai prestiti ipotecari, dando luogo a una vasta tipologia di CDO (collateralized debt obligation), affiancati da CDS (collateralized debt swap). In questo modo il rischio è distribuito su un insieme di derivati che, attraverso un lungo viaggio attraverso il mondo, sono destinati a perdere ogni riferimento al prestito di base.

Vale la pena ricordare che questi sofisticati, spesso incomprensibili, strumenti finanziari potevano ottenere un “rating” corrispondente a una tripla A (in linea di principio, la massima garanzia per i titoli finanziari) da parte delle agenzie di rating, non a caso scelte (e remunerate) dagli istituti emittenti, sulla base della loro disponibilità a sottostimare il rischio. In questo modo i rischi connessi ai prestiti ipotecari sono stati prodigiosamente dispersi fino a scomparire, essendo trasferiti su altri soggetti (ad esempio, un fondo pensione) operanti sui mercati finanziari globali.

Torniamo al comportamento delle famiglie. Gli agenti immobiliari erano interessati alla stipulazione dei mutui per guadagnare le commissioni pagate dagli enti che ne erano all'origine. Erano perciò impegnati a convincere il candidato mutuatario della sua assoluta convenienza. I tassi d'interesse erano i più bassi possibili. Ma non si trattava solo di questo. Il mutuatario avrebbe potuto pagare un tasso ancora più basso per i primi due anni, lasciandosi la possibilità di rinegoziare il mutuo in seguito. Avrebbeanche potuto nei primi anni pagare solo gli interessi senza rimborso del capitale. E, infine - spiegava l'agente immobiliare - se proprio non volete rimborsare il mutuo o avete difficoltà nel rimborsarlo, potete sempre rivendere la casa, che nel frattempo avrà accresciuto il suo valore di mercato, intascando la differenza di valore. Insomma, in ogni caso, un buon affare. Buono per le famiglie e per il broker, ma anche per le banche che con le loro alchimie moltiplicavano i nuovi strumenti finanziari da distribuire a livello globale, traendone profitto a ogni passaggio. Alla fine, ne circolavano nel mondo una massa stratosferica calcolata in oltre 500 trilioni di dollari, pari a dieci volte il reddito nazionale prodotto a livello mondiale.

E‟ interessante osservare che nel mezzo del boom edilizio, si costruiscono circa due milioni di nuove abitazioni l'anno, ma nel biennio 2003-04, il finanziamento dei mutui coinvolge la stupefacente cifra di trenta milioni di famiglie per prestiti di un valore complessivo di cinquemila miliardi di dollari (M.Zandi, ib. pag.249,6). In molti casi si tratta del rifinanziamento del vecchio mutuo. Infatti, le famiglie utilizzano le disponibilità derivanti dal rifinanziamento per rimborsare altri debiti col vantaggio di poter detrarre dalle imposte gli interessi.

Ma quando, tra il 2004 e il 2006, la Fed comincia a far risalire i tassi per proteggere la quotazione del dollaro, si verifica un salto degli oneri finanziari che rende insolvibile una parte crescente dei mutui. Le banche sfrattano le famiglie morose e si appropriano delle della case. Intanto, l'esplosione della bolla edilizia fa crollare la domanda col conseguente crollo dei prezzi. Da un lato, milioni di famiglie scoprono di dover ripagare un mutuo molto più alto del declinante valore della casa. Dall'altro, crolla rovinosamente il castello di carta basato sui debiti delle famiglie.

L'enorme massa di derivati diffusa tra le banche e le compagnie assicuratrici a livello globale - non solo in America ma anche in Europa - non sono commerciabili. Il credito interbancario è congelato. La finanza innovativa che, novello Mida, aveva trasformato i debiti in oro, in grado di sostenere la speculazione e creare profitti dal nulla, si dissolve e le banche si salvano caricando le perdite, con nazionalizzazioni esplicite o mascherate, sulla finanza pubblica. In sostanza, le conseguenze del disastro sono trasferite - qui è la grande differenza rispetto al ‟29 - dalle banche e dalle compagnie assicuratrici alle famiglie sulle quali grava l'espropriazione della casa e la perdita dimilioni di posti di lavoro. In questo intreccio di eventi il collegamento fra mutui subprime e esplosione della crisi finanziaria è all'apparenza lineare ed esauriente. Ma in realtà, come vedremo, si tratta solo di un pezzo della storia.


La grande diseguaglianza

Finora ci siamo limitati a una pura descrizione degli eventi. Ma non abbiamo ancora affrontato una questione insieme fondamentale e intrigante: perché il paese più ricco del mondo è finito nella spirale di un astronomico indebitamento delle famiglie? Qui incontriamo una caratteristica chiave dell'economia americana degli ultimi decenni: un livello di diseguaglianza sociale che ha raggiunto, nel primo decennio del nuovo secolo, lo stesso livello degli anni Venti del secolo scorso, alla vigilia della crisi del '29.

Quali ne sono le cause? La crescita economica di un paese dipende dalla crescita della popolazione e dal progresso tecnologico. In particolare, il progresso tecnico genera un aumento della produttività del lavoro. In altri termini, una maggiore quantità di beni e servizi con un minore impiego di capitali e lavoro. Se un paese raggiunge un alto livello di produttività, com'è accaduto negli Stati Uniti negli ultimi due decenni, si dovrebbe desumerne che l'intera popolazione ne sarà avvantaggiata. E sarebbe normale immaginare un certo grado di equità nella distribuzione dei guadagni di produttività tra profitti e salari. Questa era stata, in effetti, la situazione dalla fine della Seconda guerra mondiale fino agli Settanta, quando vigeva una sorta di accordo implicito tra imprese e sindacati (il cosiddetto "Patto di Detroit"), che si basava su un incremento parallelo di profitti e salari.

La rottura di questo paradigma deve essere collocato negli anni '80, al tempo della rivoluzione neo-conservatrice di Ronald Reagan. A partire da quel decennio assistiamo a un rovesciamento del paradigma distributivo. La nuova ricchezza si concentra al vertice della scala dei guadagni di produttività si concentrano al vertice della scala dei redditi. I salari ristagnano in termini reali . La polarizzazione dei redditi diventa estrema. “La quota del reddito reale - scrive R. Lieberman della Columbia University -percepito dall'uno per cento della popolazione più ricca è cresciuta dall'otto per cento negli anni ‟60 a più del 20 per cento”. E la conclusione è tranchant: “La diseguaglianza dei redditi negli Stati Uniti é più alta che in qualsiasi altro paese di democrazia avanzata, e secondo le misure convenzionali, comparabile a quella di paesi come ilGhana, Nicaragua e Turkmenistan” (Why the rich are getting richer, “Foreign Affairs”, gennaio-febbraio 2011).

Come è potuto accadere? Qui dobbiamo considerare alcune caratteristiche essenziali dei rapporti sociali negli Stati Uniti, tanto in relazione alle condizioni di lavoro, quanto allo stato sociale. Ci soffermeremo brevemente su alcuni di questi aspetti.

In primo luogo, dobbiamo constatare la progressiva e inarrestabile diminuzione del potere contrattuale dei sindacati. Negli anni 70, l'adesione ai sindacati oscillava intorno al 30 per cento. Attualmente, i lavoratori sindacalizzati sono circa il 12 per cento della forza lavoro. Ma la componente ancora più rilevante del declino è nella composizione degli iscritti. Nel settore pubblico i sindacati continuano a rappresentare circa il 35 per cento dei lavoratori. Ma nel settore privato l'adesione ai sindacati è crollata al 7 per cento: come dire che il 93 per cento dei lavoratori non hanno né tutela sindacale, né contrattazione collettiva. In assenza di una contrattazione di settore a livello nazionale, l'organizzazione del sindacato è articolata su basi aziendali. E a questo livello l'attacco al sindacato è stato incontenibile e le conseguenze per i lavoratori disastrose.

Non è un caso che negli ultimi due decenni, secondo Lawrence Mishel dell'Economic Policy Institute, "mentre la produttività è cresciuta dell'80% tra il 1979 e il 2009, la retribuzione oraria del lavoratore mediano sia cresciuta solo del 10,1%". In questo gap si può individuare il potente motore della crescente diseguaglianza nella distribuzione dei redditi, con la sostanziale stagnazione dei salari negli ultimi decenni, anche se questi sono stati caratterizzati da lunghe fasi di forte crescita economica.

Il violento declino del potere dei sindacati è un elemento fondamentale della crescente diseguaglianza, ma non l'unico. Dobbiamo considerare il lato politico di questo processo. I salari dipendono non solo dalla contrattazione collettiva ma, in mancanza di questa, anche dal livello e dalla dinamica del salario minimo legale. Il salario minimo federale fu deciso dal Congresso nel 1938, con l'impegno ad aggiornarlo in base alle variazioni del tenore di vita e dell'inflazione. Ma negli ultimi decenni questo impegno è stato totalmente disatteso.

Nel corso degli anni „50 e „60 il salario minimo varia, grosso modo, intorno al 50 per cento del salario medio. Ma nel 2006, con 5,15 dollari l'ora, risulta ridotto al 31 per cento del salario medio, il livello più basso dell‟ultimo mezzo secolo. Se il salario minimo federale fosse stato indicizzato sull'indice dei prezzi al consumo, il suo valore sarebbe stato pari a 8,40 dollari (EPI, ottobre 2006). Nel 2011 il minimo federale è stato innalzato a 7,25 dollari l'ora, ma anche a questo livello una famiglia con due componenti si colloca al di sotto della soglia ufficiale di povertà. La diseguaglianza non incontra più limiti. "Il più ricco uno per cento degli americani ha requisito il 56 per cento di tutta la crescita del reddito tra il 1989 e il 2007 ... rispetto al 16% andato al 90% delle famiglie (L. Mishel e H. Shierholz, The sad but true story of wages in America, EPI 2011).

In questo quadro, non ha molto senso indicare, come spesso sentiamo, nel progresso tecnologico o nella globalizzazione, o in entrambi, le principali cause della sconcertante diseguaglianza nella distribuzione del reddito. Per spiegarel'ampliamento della diseguaglianza (con la creazione della nuova categoria dei working poor), vale la pena di cogliere, oltre alla squilibrata distribuzione dei guadagni di produttività e la conseguente stagnazione dei salari, alcuni aspetti specifici della rete di protezione sociale, o del Welfare State nella definizione europea.

Per cominciare, negli Stati Uniti non esiste un sistema sanitario universale. Il governo è responsabile per l'assistenza ai poveri attraverso Medicaid e agli anziani, a partire da 65 anni, attraverso Medicare. Tutti gli altri cittadini dipendono da una polizza assicurativa privata, a carico totale o parziale del datore di lavoro. Ma non tutte le aziende forniscono l'assicurazione sanitaria. E non tutti i lavoratori sono in grado di provvedersi di una polizza assicurativa che, per una famiglia di quattro persone, costa in media 12.000 dollari l'anno. Il risultato è che nel 2010 circa 45 milioni di persone erano prive di un‟assicurazione sanitaria. Poste di fronte a una malattia importante, le famiglie che non rientrano nella categoria formale dei poveri e, al tempo stesso, sono privi delle risorse per garantirsi una polizza assicurativa con una sufficiente copertura, non hanno altra possibilità che ricorrere all'indebitamento. Il paradosso è che negli Stati Uniti il costo complessivo della sanità è superiore al 16 per cento del PIL (anche dopo la riforma di Barack Obama) contro la metà di questa percentuale nella maggior parte dei paesi europei, dove l'assicurazione sanitaria è universale e gratuita.

Ultimo ma non meno importante, l'assicurazione contro la disoccupazione è stata storicamente considerata dai conservatori un modo per favorire l'ignavia dei lavoratori, dal momento che, godendo del benefit possono sfuggire agli adattamenti imposti dal mercato del lavoro. Secondo l'ideologia conservatrice l'assicurazione contro la disoccupazione costituisce una violazione della libertà del mercato del lavoro, considerata una condizione essenziale per un'economia solida e dinamica.

In questo quadro, le condizioni di ammissibilità all'indennità di disoccupazione sono molto restrittive. Nei periodi di crisi, un grande numero di disoccupati, in quanto provenienti da lavori discontinui a bassa remunerazione, non dispongono dei requisiti richiesti per accedere all'assistenza. In ogni caso, l'indennità ammonta generalmente al 40 per cento della retribuzione precedente ed è concessa per un massimo di 26 settimane. Di fronte a una crescente disoccupazione di lunga durata, come si è verificato durante la Grande Recessione del 2008-09, l'estensione dell‟indennità oltre i sei mesi previsti diventa oggetto di un duro confronto non solo politico, ma anche accademico. Martin Feldestein sostiene in un'audizione al Congresso, nel settembre 2009, che l‟estensione dell'indennità “crea un indesiderabile incentivo per i lavoratori a ritardare il ritorno al lavoro”. Provvedere un reddito, sia pure temporaneo, ai disoccupati è considerato una violazione delle leggi dell‟economia e, in definitiva, la causa di una maggiore disoccupazione.

Non è un caso che, alla fine del 2010, il presidente Obama per prolungare l'indennità di disoccupazione per milioni di disoccupati di lunga durata è costretto, contro il suo precedente impegno, a riconfermare in toto, come contropartita alla maggioranza del Congresso, il provvedimento adottato da Bush che privilegiava la parte più ricca della popolazione. Nel frattempo, centinaia di migliaia di lavoratori pubblici sono licenziati per le difficoltà di bilancio degli stati e delle autonomie locali.

Questo aspetto della politica sociale si manifesta con particolare brutalità nella Grande Recessione al cospetto di oltre 14 milioni di disoccupati e 45 milioni di americani che dipendono dai food stamps - il programma di assistenza nutrizionale (SNAP) - il cui valore era nel 2010 di 130 dollari al mese, insufficiente per fornire un minimo accettabile di nutrimento a milioni di famiglie.


La necessità di una diagnosi diversa

Per concludere, torniamo al nostro tema. Nel quadro della grande diseguaglianza della distribuzione della ricchezza e del reddito, il forte indebitamento si presenta come una condizione ordinaria per la maggior parte delle famiglie e, al tempo stesso, come una condizione necessaria per la crescita economica degli Stati Uniti. Nel decennio che precede la crisi del 2007 il debito delle famiglie aumenta del 50 per cento, passando dal 66,1 al 99,9 per cento del PIL. Le famiglie con il loro debito crescente sono diventate i "consumatori di ultima istanza" per il sostegno alla crescita economica. Nello stesso tempo, l'indebitamento totale degli Stati Uniti aveva raggiunto oltre il 350 per cento del PIL (Robin Blackburn, The subprime crisis, p. 65).

Ma non bisogna offuscare la differenza nella qualità e nella funzione dell‟ indebitamento complessivo. Le banche e gli istituti finanziari erano indebitati alla ricerca di facili profitti, derivanti dalla proliferazione di prodotti finanziari sempre più sofisticati. La montagna di debiti intrecciati fra banche e compagnie di assicurazione alimentavano un sistema creditizio “ombra” che consentiva di occultare una parte della loro esposizione e dei rischi connessi. In questo senso il sistema finanziario si muoveva in un mondo parallelo, virtuale, sempre più autonomo e distante dall'economia reale.

In questa frattura tra finanza speculativa e economia reale il debito delle famiglie collegato ai mutui, alle carte di credito, alle rate della macchina, all'istruzione e così via, finiscono per diventare il motore propulsivo della crescita economica. In altre parole, senza il crescente indebitamento delle famiglie a sostegno della domanda di consumi, il declino della quota dei salari in rapporto al reddito nazionale avrebbe comportato una sostanziale stagnazione dell‟economia.

Così non sorprende che Alan Greenspan, dopo il primo crack finanziario dell‟inizio del secolo, nel 2001, abbia progressivamente ridotto, fino sostanzialmente ad azzerarli, i tassi d'interesse, nella convinzione che il boom immobiliare, seppure accompagnato dal crescente indebitamento ipotecario, fosse una condizione necessaria per sostenere la ripresa dell'economia, aumentando, al tempo stesso, la ricchezza e la capacità di spesa delle famiglie americane, lusingate dal boom del valore delle case.

Affrontare questi aspetti strutturali della crescita economica e la sua cattiva redistribuzione non significa oscurare l'impatto della glorificata dislocazione finanziaria dell'economia americana. La finanziarizzazione del sistema fine se stessa non è rimasta senza conseguenze. Si è rivelata una componente fondamentale delle due crisi verificatesi in rapida successione nel corso dell'ultimo decennio, prima nel 2001 e poi nel 2008,. Ma l'accento sulle origini sociali della crisi, generalmente messe in ombra, consente l'identificazione delle due radici interconnesse della crisi attuale: da un lato, l'impatto della crescente diseguaglianza all'interno della società americana e, dall'altro, il fallimento dell'ideologia della efficienza del mercato e, insieme, del ridimensionamento della politica e delle funzioni dello Stato. In altri termini, le due facce della stessa medaglia dell‟ ideologia neo-liberista che ha dominato la politica negli ultimi decenni.

Questa diversa diagnosi, volta a esplorare, dietro le evidenti disfunzioni dei mercati finanziari, gli aspetti sociali e ideologici della crisi, non risponde a un‟esigenza puramente accademica. Le politiche che i governi americani ed europei stanno adottando a seguito della crisi dipendono in larga misura dalla diagnosi circa la sua origine. Se si considera che il problema richiede solo alcune correzioni nelle regole della finanza e della governance, dobbiamo sapere che la medicina si rivelerà del tutto insufficiente e fuorviante.

Concludendo il suo ultimo saggio, J. Stiglitz osserva che "Le carenze del nostro sistema finanziario sono emblematiche di un più ampio fallimento del nostro sistema economico, e le carenze del nostro sistema economico riflettono problemi più profondi della nostra società". Poi aggiunge che "Le politiche del Washington consensus e l'ideologia alla base del fondamentalismo di mercato sono morti" (Freefall, pagg.295-296). Mentre la prima asserzione è senza dubbio fondata, la seconda appare piuttosto ottimistica. La vecchia ideologia neo-conservatrice non è affatto fuori gioco. La contrastata esperienza del presidente Obama e il forte ritorno dei repubblicani mostrano che la speranza di un nuovo "New Deal", auspicato all'inizio della crisi, è un‟illusione condannata a svanire.

In ogni caso, è vero che la correzione dei profondi squilibri sociali, che discendono dalmodello economico dominante nei paesi occidentali negli ultimi decenni, ha bisogno di una piattaforma politica radicalmente rinnovata. Se non saremo in grado di far fronte a questa sfida intellettuale e politica, si rischierà un profondo, e forse irreversibile, declino dell‟Occidente al cospetto delle nuove realtà emergenti nel resto del mondo. Non è sorprendente che la Cina, l'India, il Brasile, e altri paesi di quello che fu il Terzo mondo sempre di più appaiono destinati a diventare i principali attori del processo di globalizzazione del XXI secolo.


(In corso di pubblicazione su "Quaderni di Rassegna sindacale", 2/2011)
English version http://www.insightweb.it/web/files/the_social_origin_of_the_crisis.pdf
Spanish version http://www.insightweb.it/web/files/el_origen_social_de_la_crisis.pdf

* Il testo è tratto dal paper “The social Origin of the Crisis” presentato al “II Level International Master” sul tema “Regulation and Competition in the current phase of Globalization”, organizzato dal Dipartimento di Scienze Giuridiche dell’Università “La Sapienza” di Roma”il 10 marzo 2011.
** Antonio Lettieri, già Segretario della CGIL, è presidente del Centro Internazionale di studi sociali e Direttore della rivista online INSIGHT (wwwinsightweb.it)

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