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L’Europa di fronte alla “Grande contrazione”

di Alfonso Gianni *

No, non se ne esce. Anzi, la crisi si aggrava. Probabilmente la definizione coniata da Kenneth Rogoff e Carmen Reinhart - “grande contrazione”, la più grande dopo quella del ’29 - è la più esatta perché unisce la recessione dei settori produttivi alla crisi devastante del settore immobiliare, finanziario e bancario, nonché ad una diminuzione non recuperabile - perlomeno non dagli automatismi del sistema - dell’occupazione. Non aveva senso suddividere i tempi della crisi in due fasi, quasi vi fosse stata quella generata dall’esplosione della bolla dei subprime (2007-2009), “superata” la quale si sarebbe abbattuta sul mondo quella del debito pubblico.

Era una lettura “ideologica” della crisi, tesa a occultarne le cause di fondo che risiedono nel meccanismo di sviluppo capitalistico, nella forzatura del sistema del credito per fare fronte alla sovrapproduzione e al sottoconsumo di merci, e a minimizzarne durata e gravità. Invece questa crisi durerà forse più dei sette biblici anni, 2007-2013, che già i migliori analisti avevano preventivato un po’ di tempo fa ed è destinata a segnare indelebilmente la vita di almeno una intera generazione.


Se l’America piange…

E’ quello che in sostanza ci ripetono persone tra loro molto diverse e animate da intenti a volte persino distanti. Nel tradizionale incontro di fine agosto a Jackson Hole il governatore della Federal Reserve ha spiegato che l’economia americana ristagna. In effetti la crescita del Pil americano è stata rivista al ribasso, da +1,3% a +1,1%, e quindi ogni attesa è riposta sugli andamenti del secondo trimestre. Ma c’è da stare poco allegri, visto che lo stesso Bernanke ci avverte che l’occupazione continuerà in ogni caso ad essere in forte sofferenza, poiché l’economia statunitense sta conoscendo «un livello straordinariamente elevato di disoccupazione di lunga durata», cioè superiore a sei mesi, secondo la metodologia statistica applicata in quel Paese.


In sostanza i grandi interventi della Fed non sono bastati. Se l’anno scorso, nello stesso luogo, Bernanke poteva annunciare un intervento della banca centrale di acquisto di buoni del Tesoro americano pari a 600 miliardi di dollari - il che in pratica equivaleva a stampare moneta - ora si è mostrato molto più titubante. Peserà anche un po’ di tattica, ma probabilmente ha ragione Paul Krugman che considera il Governatore della Fed ormai un semplice ostaggio in mano ai repubblicani, i quali osteggiano in ogni modo un terzo round di quantitative easing.

Tuttavia, essendo ogni manovra sui tassi di interesse preclusa dall’azzeramento già avvenuto degli stessi, non si vede cosa altro la Fed possa fare - a meno di non scontare l’immobilismo assoluto - se non accondiscendere a una nuova massiccia iniezione di liquidità. Il che dovrebbe avvenire, secondo la cassandra per antonomasia, Nouriel Roubini, entro la fine dell’anno e forse già alla fine di settembre. Il fantasma del ’37 - quando cioé l’amministrazione Roosevelt decise di fermare la politica di stimolo all’economia, con un conseguente e immediato ritorno alla recessione da cui l’America si salvò solo grazie alla entrata in guerra e alla conseguente produzione bellica - è tornato a tormentare i sonni della classe dirigente americana.

D’altro canto è la stessa leadership democratica e personale di Obama a essere in gioco. Che la politica sia dominata dall’economia anche dove aveva dimostrato qualche segno di rinascita, come appunto negli States con l’elezione di Obama, lo dimostra anche l’attivismo dei grandi sostenitori del Presidente. Primo fra tutti Warren Buffet che non solo si è scagliato contro Standard and Poors per la negazione della tripla A - ma c’è il sospetto che l’abbia fatto anche perché i suoi interessi economici sono concentrati nell’altra grande agenzia di rating concorrente, cioè Moody’s - sostenendo l’assoluta solidità del sistema economico americano, ma è anche passato a vie di fatto con un sontuoso investimento - 5 miliardi di dollari - nelle azioni di Bank of America.

E’ vero che il grande finanziere non agisce da benefattore e che si aspetta un ritorno non inferiore al 6%, essendo la Bank of America una too big to fail, troppo grande per fallire, quindi in ultima analisi garantita dal governo Usa, ma la scelta di Buffet sembra più rispondere ad una mossa politica che a ragioni puramente economiche.

Ciò non toglie che lo stato d’animo dell’establishment statunitense sia tutt’altro che sereno. Anche in Bernanke si è ormai consolidata una notevole dose di scetticismo verso gli stessi interventismi della Fed nell’economia reale statunitense, dal momento che la semplice immissione, anche in dosi massicce, di liquidità monetaria non è sufficiente a fare ripartire il meccanismo economico. Servirebbe un cambiamento radicale di quest’ultimo.

Ma questa prospettiva è del tutto fuori non solo dalle prospettive del Governatore, ma anche da quelle del Presidente Obama, reduce da uno scontro che lo ha visto finora sostanzialmente perdente con la destra conservatrice sul tetto di indebitamento dello Stato. Già gli mancavano le convinzioni teoriche e la determinazione politica che animarono il Roosevelt dei primi anni Trenta, ora sono venuti meno anche i brutali rapporti di forza, essendo peraltro chiaro che tra le due cose vi è un rapporto di causalità.


... la Germania non ride

Anche l’altra tradizionale locomotiva mondiale è ferma. Le cifre che concernono l’andamento dell’economia tedesca sono sconfortanti. La crescita tedesca è stata quasi azzerata, nel secondo trimestre dell’anno in corso che ha conseguito solo un misero +0,1%, mentre Eurolandia è ferma a uno +0,2%. Gli indici che illustrano la fiducia delle imprese tedesche nell’andamento del ciclo economico sono in picchiata.

La brusca contrazione della crescita rimette in discussione i pilastri fondativi del “miracolo” tedesco. Essa è dovuta alla crisi nel settore edilizio - puntare infatti sul mattone, ce lo insegna la Spagna, non è una grande idea, neppure per il più importante Paese manifatturiero d’Europa come la Germania -; alla diminuzione dei consumi - infatti le retribuzioni tedesche, che pure gli operai di tutta Europa invidiano, sono ben al di sotto dell’incremento della produttività in quel Paese -; alle difficoltà sopravvenute nella bilancia commerciale - anche qui non v’è da stupirsi dal momento che la caduta del potere d’acquisto in tutta Europa non può non creare problemi alla capacità esportativa tedesca in quello che rimane il suo principale mercato. Nello stesso tempo lo sbocco di mercato cinese conosce ulteriori difficoltà dalla relativa diminuzione del tasso di crescita del grande paese asiatico.

L’idea, quindi, di una Germania che continua a prosperare a scapito delle debolezze del resto del Vecchio continente si rivela di corto e fallace respiro. Anzi il rischio concreto è che, alla crisi senza fondo dei Paesi periferici dell’Europa, i Piigs, tra i quali va inclusa stabilmente l’Italia, si aggiunga il rischio di una “giapponesizzazione” dell’Europa carolingia, ossia il delinearsi di un periodo relativamente lungo di stagnazione delle economie più forti del continente europeo che in qualche modo può ricordare i lunghi e infelici anni Novanta del Paese del Sol levante.

Il che metterebbe a dura prova l’esistenza stessa della Unione europea, seppure nella sua forma mostruosamente limitata di sola entità economica e non politica, che potrebbe incontrare un momento di crisi di non ritorno in una implosione dell’euro. D’altro canto nessuna moneta sta bene di questi tempi, tranne rare eccezioni come il franco svizzero. Prova ne sia che l’oro come bene rifugio conosce nuovi fulgori, giungendo al record storico di superare i 1900 dollari l’oncia.

Nel contempo il basso livello di redditività, il 2%, dei Treasury bond americani dimostra sia la sfiducia nell’economia reale da parte degli investitori, i quali preferiscono parcheggiare i loro capitali a rendimenti pari se non inferiori al tasso di inflazione, anziché accettare il rischio di investimenti, che la sopravvivenza di una migliore credibilità degli Usa. Agli occhi dei fatidici mercati, gli Usa continuano a essere - seppure all’interno di una curva declinante - meritevoli di maggiore fiducia riguardo alla solvibilità del debito contratto, essenzialmente a causa dell’esistenza di un governo federale che ne risponde in prima persona. Esattamente quello che non c’è in Europa e dietro l’Euro.

Non stupiscono quindi gli inviti che da più parti giungono alla politica di assumere un ruolo, se non proprio di guida, almeno di deciso intervento nel governo dell’economia, non solo nei termini che abbiamo conosciuto nella prima fase della crisi, di crocerossina del sistema bancario, ma anche di programmatrice di scelte di più lungo e incisivo respiro. Si intende: si tratta di una politica la cui progettualità è pensata solo in termini di risanamento e di riavvio dei meccanismi di sviluppo capitalistici, dalla quale verrebbe bandito ogni pur timido anelito alla trasformazione dell’esistente. Per questo si tratterebbe sempre e comunque di una politica sottratta a qualunque forma di intervento creativo, partecipativo e di controllo da parte popolare. Una politica a-democratica, gestita da organi designati e non elettivi, impermeabile ai nuovi bisogni e alle nuove domande che ripartono da un tessuto della società civile lacerato, sconvolto e imbarbarito dagli effetti sociali della crisi.

Di una politica di tale fatta viene messa in risalto soprattutto l’autorevolezza da conquistare in base alla prontezza dell’esercizio capacità decisionale - non certo i complessi processi democratici di formazione della medesima che presupporrebbero la costruzione del consenso - secondo quel noto binomio di memoria craxiana decisione-recisione. Solo che ora, a differenza degli anni Ottanta, il nodo viene reciso al di fuori della sovranità dei singoli Stati, come abbiamo verificato, oltre che con la Grecia, con la manovra economica dettata a Roma dalle sedi europee.


L’incontro Merkel-Sarkozy: un vertice contro l’Europa


E’ in questa temperie che si è svolto l’incontro tra la Merkel e Sarkozy in agosto e sono maturate le relative decisioni. Queste ultime sono risultate deludenti per molti osservatori, anche di opposte tendenze. Ma, più che il classico topolino, il vertice dei due leader dei più forti paesi del continente ha prodotto un vero e proprio mostriciattolo. Non tragga in inganno l’accelerazione, soprattutto da parte francese, sulla introduzione della Tobin Tax, che peraltro fa già innervosire i mercati finanziari.

Da un lato questa proposta è ormai stramatura anche in ambienti che nulla hanno a che spartire con una visione anche solo pallidamente progressista. La sortita di Warren Buffet a favore di una maggiorazione delle tassazioni sui ricchi e sulla ricchezza ne è un esempio, anche se proviene d’oltreoceano.

Dall’altro lato nulla di concreto viene fatto, poiché tale idea verrebbe consegnata per la sua realizzazione nientemeno che nelle mani del presidente del Consiglio europeo, Van Rompuy, più adatte a insabbiarla che a tradurla in pratica. L’effetto annuncio, in queste condizioni, ha conseguenze solo negative e vi è il sospetto che ciò non sia avvenuto per avventatezza o disattenzione. In ogni caso, anche se la dichiarazione sulla Tobin Tax volesse essere considerata come un mezzo passo in avanti, quelli più numerosi e decisi all’indietro ci riportano bruscamente alla realtà.

Intanto è stata ribadita con ancora maggiore forza la cosiddetta “regola d’oro”, ma sarebbe meglio dire “ferrea”, ossia l’obbligo per i Paesi membri della Ue di inserire nelle loro carte costituzionali il pareggio di bilancio. Con il che verrebbe seppellita la possibilità di qualunque politica economica da parte degli Stati che non volesse ridurre gli stessi a un puro ruolo ragionieristico.

Come si sa la norma è già presente nella Costituzione tedesca che prevede dal 2016 un tetto al deficit strutturale federale pari allo 0,35% del Pil. Se non è pareggio poco ci manca. Mentre nessuna norma è prevista in tal senso nella Costituzione francese. Si pensa però di farla approvare entro la fine dell’anno, ma per raggiungere la necessaria maggioranza qualificata dei due terzi a Sarkozy mancano ancora una quarantina di voti. La dichiarazione congiunta con la cancelleria tedesca va quindi letta soprattutto in chiave di pressione sulle renitenze che persistono nel parlamento francese a muoversi in tale direzione.

A ciò i due hanno aggiunto un ulteriore carico: intanto niente fondi Ue ai paesi poco virtuosi in termini di controllo del deficit. E hanno intascato subito un ulteriore successo: la dichiarazione di un declinante Zapatero a favore dell’inserimento della norma nella giovane costituzione spagnola, oltre che avere ridato corda a chi nel nostro paese vorrebbe modificare l’articolo 81 della nostra carta Costituzionale - che attualmente sancisce semplicemente l’obbligo di indicare la copertura finanziaria delle normative di legge -, anche sulla scorta di una interpretazione volutamente distorta del dibattito a suo tempo tenuto in Assemblea Costituente sul tema, unitamente con la cancellazione della finalità sociale delle attività di impresa contenuta nell’articolo 41. Un binomio perfetto dal punto di vista liberista, poiché alle imprese verrebbe concesso tutto, mentre allo Stato verrebbe proibito di fatto ogni intervento incisivo e programmatorio nell’economia.

Il mostriciattolo è rappresentato dall’istituzione di un nuovo organismo per potenziare gli strumenti di governance delle politiche europee, ovvero la creazione di un Consiglio dei capi di Stato e di governo dei 17 Paesi dell’Eurozona, da riunirsi almeno due volte l’anno, la cui presidenza è già stata offerta al gettonatissimo Van Rampuy. In sé e per sé si tratterebbe di una minestra riscaldata poiché la consuetudine di tali riunioni esiste già. Ma è significativo il messaggio che esce da una simile decisione, che è quello di perpetuare logiche di governo basate esclusivamente su organismi di natura assolutamente a-democratica, del tutto indipendenti e contrapposti al Parlamento europeo, organo eletto con la migliore legge elettorale - che infatti è proporzionale - ma totalmente deprivato di funzioni.


La questione degli eurobonds


La cosa forse più grave dell’incontro Merkel-Sarkozy è ciò che è stato esplicitamente escluso dai due leader, ovvero l’adeguamento della capienza finanziaria del fondo salva Stati e l’istituzione degli eurobonds. Le due (non) decisioni si tengono, perché entrambe muovono da una logica egoistica dei due maggiori Stati europei. Entrambi non vogliono essere chiamati a sostenere le crisi altrui, se non per la parte che riguarda il salvataggio dei loro istituti bancari in quelle crisi trascinati.

Aumentare, come bisognerebbe, la capienza di quel fondo, peserebbe soprattutto sulle loro finanze e la stessa istituzione degli eurobonds corrisponderebbe a una suddivisione del rischio di default dei Paesi in difficoltà, il cui peso maggiore ricadrebbe sull’economia tedesca. Se per Sarkozy gli eurobonds non sarebbero da escludere in assoluto, ma potrebbero vedere la luce solo alla fine di un lungo processo di integrazione delle politiche fiscali - solo che nel frattempo il paziente potrebbe essere già morto! -, il rifiuto della Merkel appare più netto.

La cancelliera tedesca è sotto schiaffo di imminenti elezioni. Tra queste la più importante è certamente quella nella città-stato di Berlino. I suoi ascendenti sono nettamente in discesa dopo le sconfitte accumulate nelle elezioni negli altri Lander. Non solo, ma l’ex cancelliere Helmut Kohl è tornato a fare sentire la sua voce e l’ha rivolta contro la Merkel accusandola di avere confinato la Germania in un angolo della politica internazionale, mentre il Presidente della Repubblica Christian Wulff ha apertamente criticato la cancelliera per avere avallato la decisione della Banca centrale europea di procedere all’acquisto di titoli di stato dei Paesi in difficoltà, fra cui Italia e Spagna, mettendo quindi a rischio la solidità finanziaria del potente Stato tedesco.

In questo modo, la politica economica europea appare del tutto prigioniera di una grave impasse. Se limitiamo per un attimo il nostro sguardo alla questione delle politiche fiscali per uscire dalla crisi - pur sapendo che solo battendo questa strada sarebbe impossibile centrare l’obiettivo - le soluzioni in campo possono essere ricondotte a tre fondamentali filoni: il primo consiste in forme di trasferimento fiscale da Stati più ricchi a Stati più poveri; il secondo concerne il pilotaggio del default degli Stati in difficoltà, ovvero una parziale ricusazione del debito; il terzo riguarda le politiche di aggiustamento di bilancio e di riduzione del deficit.

Finora hanno prevalso totalmente le politiche interne al terzo filone. Sono di questo tipo le misure fatte adottare alla Grecia e quelle eteroimposte, anche se con diverse formalità, all’Italia con le recentissime e dolorosissime manovre economiche. La loro efficacia come sappiamo è non solo nulla, ma negativa, perché strangolano ogni possibilità di crescita, a maggiore ragione quella di qualità. Restano le altre due strade, le quali potrebbero benissimo coesistere tra loro, specialmente in una fase iniziale. Ma il loro avvio è bloccato da un potente grumo di interessi economici e politici e dalla assenza di culture economiche e di governo adeguate.

Non c’è bisogno di coltivare un pensiero complessivamente alternativo alla mainstream dominante, né di spendersi per un acceso keynesianesimo, per potere giungere a simili ragionevoli conclusioni. Ma così non è perché la sovrastruttura ideologica e politica, ossia il ritorno in versione peggiorata del neoliberismo, la fa da padrone. Ancora una volta si dimostra che aveva ragione il vecchio Keynes a proposito della funzione delle idee nella storia, specialmente quando queste sono pessime.

Tuttavia qualcosa di nuovo si muove in questi campi. Avendo ricordato Buffet, è d’obbligo richiamare anche Soros, la cui adesione agli eurobonds è fortemente motivata. L’anziano finanziere dimostra facilmente che la loro introduzione sarebbe di gran lunga meno invasiva delle potestà statuali dei singoli membri della Ue di quanto non sia l’attuale ingerenza dettata dalle attuali regole e dalle nuove che il duo franco-tedesco vorrebbe introdurre. Naturalmente gli eurobonds comporterebbero la suddivisione del rischio tra tutti i Paesi con particolare peso per quelli più forti.

Ma il brusco fallimento della Grecia, ad esempio, sarebbe stato peggio per le banche tedesche e francesi, ed è per questo che, seppure con ritardo, a carissimo e iniquo prezzo, l’intervento di salvataggio c’è stato. Eppure è stata scartata anche la versione più morbida del tema proposta da Bruegel, il famoso think tank internazionale di economisti con sede a Bruxelles, che propone di “eurobondizzare” solo il 60% di ogni rispettivo debito sovrano.

Intanto Jacques Delors è tornato a fare sentire la sua autorevole voce in difesa di quella che in fondo può essere ritenuta una sua creatura, gli eurobonds appunto, o meglio, nella sua versione, i project bonds, che dai primi differiscono per l’esplicita finalizzazione a investimenti infrastrutturali su scala europea.

Anche il dibattito italiano ha conosciuto un’improvvisa e salutare impennata, grazie soprattutto alla proposta di Romano Prodi e Alberto Quadro Curzio, che in buona sostanza opera una sintesi fra le varie versioni fin qui in campo. La differenza con la proposta corrente degli eurobonds, quella cioè scartata dal duo Merkel-Sarkozy, è che i Paesi ricchi dovrebbero garantire per quelli poveri non solo e non tanto impegnandosi a fare fronte con nuove imposizioni fiscali sui propri cittadini, ma tramite il conferimento di parte delle riserve auree e delle partecipazioni azionarie nelle imprese.

Il carattere fortemente migliorativo di questa proposta è evidente, dal momento che essa potrebbe avere un ritorno efficace e utile per l’economia reale rendendo attiva quella parte di ricchezza patrimoniale - a cominciare dalle riserve auree che vedono l’Italia al quarto posto nel mondo - che è rimasta sempre inoperosa. Non è un caso che ultraliberisti come Franco Debenedetti si siano subito dichiarati contrari, poiché una simile proposta muove in controtendenza rispetto alle privatizzazioni e alle dismissioni delle partecipazioni azionarie dello stato nelle società. In effetti la proposta Prodi muove in senso esattamente contrario a quanto il governo prevede di fare con Eni, Enel, Terna, Finmeccanica e Rai.

In sostanza, se il riformismo di stampo classico non gode certo di buona salute, qualche idea positiva proviene persino da questa parte, come dimostrano anche i documenti e le dichiarazioni congiunte dei socialisti francesi e dei socialdemocratici tedeschi che si sono andate infittendo in queste ultime settimane. Vi è in questa osservazione - lo riconosco - un surplus di speranza rispetto alla durezza dell’analisi, motivata dal fatto che una sconfitta elettorale della Merkel nel 2013 è alla portata dell’elettorato progressista tedesco e non è impossibile sperare in soluzioni analoghe in Francia. Poiché il cambiamento delle politiche europee, direi la sopravvivenza della possibilità di inveramento dell’idea originaria di Europa - si pensi al manifesto di Ventotene - è legata in grande parte al mutamento di quadro e di politiche effettivi nei due maggiori Paesi europei, la speranza non è di per sé mal riposta, anche se non ci si può affidare solo ad essa.


L’Italia, la parità di bilancio, l’attacco alla Costituzione


Tanto tuonò che alfine piovve. Ovvero dopo tante ingiunzioni (europee) e annunci (nostrani) il governo Berlusconi ha presentato la proposta di legge di modifica costituzionale che riguarda il pareggio di bilancio. Tremonti l’ha accompagnata da un comunicato dall’insolita enfasi, parlando della introduzione di un “principio ad altissima intensità politica e civile”. Dichiarazione da non sottovalutare, poiché è messa lì per giustificare la manomissione della prima parte della Costituzione, quella che riguarda i Diritti e i Doveri dei Cittadini.

Il nuovo disegno di legge governativo, che consta di soli quattro articoli, muove infatti dalla modifica dell’articolo 53, collocato nel titolo IV (Rapporti Politici) della nostra Costituzione. Al testo esistente viene aggiunto un terzo comma in ragione del quale «La Repubblica, in conformità ai vincoli economici e finanziari che derivano dall’appartenenza all’Unione europea, persegue l’equilibrio dei bilanci e il contenimento del debito delle pubbliche amministrazioni, anche assicurando le verifiche a consuntivo e le eventuali misure di correzione, in base ai principi e ai criteri stabiliti con legge, approvata a maggioranza dei due terzi dei componenti di ciascuna delle Camere».

L’articolo 53 è finora costituito da due commi che stabiliscono il principio fondamentale della progressività del nostro sistema tributario. Un vero e proprio cardine non solo per quanto riguarda il funzionamento materiale dello stato e dal quale dipendono tutte le leggi in materia fiscale, ma perché dà attuazione ai principi di equità e giustizia sociale cui la nostra Costituzione si ispira. Con la modifica voluta dal governo i vincoli imposti sul piano strettamente economico e fiscale vengono elevati al rango di principi fondamentali, costituzionali appunto, che dovrebbero regolare i diritti e i doveri dei cittadini.

L’irruzione delle ragioni dell’economia - peraltro del tutto sbagliate nello specifico - dentro il sistema dei valori fondativi di un Paese non poteva essere più violento e brutale. Il trattato di Maastricht e le decisioni economiche successive e conseguenti hanno la meglio non solo su un disegno irrealizzato di Costituzione europea, quale sistema di valori codificato e fondante di un’Europa dei popoli, ma anche su una delle Costituzioni più avanzate nel mondo, quale è quella del nostro paese. Il revisionismo storico, provvisoriamente rientrato dopo la rinuncia alla cancellazione delle festività laiche del 25 aprile, del Primo maggio e del 2 giugno, ritorna nella sua forma più distruttiva della memoria e della religione civile di una nazione.

Il forte impatto ideologico di questo primo articolo del disegno di legge del governo fa quindi premio sulla macchinosità della sua concreta applicazione, come risulta dalla lettura del secondo comma che modifica l’articolo 81 della Costituzione e che contiene le modalità concrete con le quali dovrebbe realizzarsi il pareggio di bilancio. Infatti l’indebitamento dello Stato non è permesso “se non nelle fasi avverse del ciclo economico nei limiti degli effetti da esso determinati, o per uno stato di necessità che non può essere sostenuto con le ordinarie decisioni di bilancio”.

Verrebbe da dire che è davvero complicato stabilire quali siano le “fasi avverse del ciclo economico” in una situazione di stato di crisi praticamente permanente del sistema capitalistico mondiale, oltretutto destinata a durare ben al di là dell’esercizio finanziario 2014 quando dovrebbe entrare in vigore la nuova legge secondo quanto esplicitamente previsto nell’articolo 4. In un quadro di questo genere ciò che è previsto come eccezione diventerebbe di fatto la regola. Nello stesso tempo è evidente l’ipocrisia sottesa in una simile soluzione - che pure ricorre anche nella versione tedesca - poiché essa implicitamente denuncia il fatto che le crisi non sono affrontabili senza potere prevedere un intervento pubblico in soccorso all’economia e senza che questo produca una spesa in deficit.

Vi è poi da chiedersi quale autorità possa stabilire se non ex post, in sede storica, “a babbo morto”, quando cioè ogni provvedimento se non inutile sarebbe irrimediabilmente tardivo, quali siano i casi in cui le fasi possano essere definite come “avverse” in un ciclo economico. Ma qui l’immaginazione governativa fa ricorso alla cultura dell’emergenzialismo di cui sono intrise le moderne classi dirigenti, anzi più precisamente a quella dello “stato di eccezione” sulla quale aveva scritto indimenticabili pagine critiche Giorgio Agamben qualche anno fa. Infatti saranno le Camere, si noti bene a maggioranza assoluta e non di due terzi come nel primo comma, a dichiarare l’esistenza o meno di un simile stato di necessità. Come si vede siamo di fronte ad una drammatizzazione e spettacolarizzazione che trova un inquietante parallelismo nella deliberazione dello stato di guerra da parte delle Camere.

L’articolo 3 a questo punto non fa altro che uniformare le recenti norme costituzionali in materia di federalismo fiscale ai vincoli del pareggio di bilancio, iscrivendole in una nuova gabbia che fa strame di ogni vocazione all’autonomia degli enti locali.

Siamo quindi di fronte a qualcosa di ancora peggio che la fine di ogni politica economica, dal momento che il vincolo al pareggio di bilancio riduce lo stato a un ruolo meramente ragionieristico, salvo svenarsi quando il sistema dell’economia retta dal libero mercato ha combinato i suoi guasti. Siamo di fronte al tentativo di capovolgere i nostri valori di fondo, al tentativo di costituzionalizzare il neoliberismo.

Il cammino della legge non sarà breve, dovendosi per la modifica costituzionale fare una doppia lettura di ciascuna camera. Ma sarà bene fin d’ora aprire nel paese una battaglia culturale, civile e politica in difesa del principio dell’intervento pubblico in economia, oltre che a tutela dei beni comuni, e della nuova qualità che questo può assumere se si congiunge con un’idea alternativa e trasformativa dell’economia e della società. Sarà bene prepararsi fin d’ora, con adeguate iniziative e strumentazioni, a reggere l’impatto del referendum confermativo se la proposta di legge del governo non dovesse ottenere, come ci auguriamo, la maggioranza dei due terzi per poterlo evitare.


Potenzialità e limiti della sinistra di alternativa


Verrebbe da dire che siamo in una situazione quasi classica, nella quale la variegata sinistra di alternativa, se c’è, potrebbe avere più campo per fare valere il proprio punto di vista, prospettando di fronte al baratro una linea di alternativa e nel frattempo sollevando da terra persino qualche bandiera che la borghesia ha lasciato cadere, come ad esempio quella della stessa democrazia rappresentativa, che richiederebbe soluzioni inedite e creative per potere essere innervata a livello soprannazionale. Ma non sembra che sia proprio così.

Ha ragione da vendere Rossana Rossanda a preoccuparsi per la curvatura che il dibattito nella sinistra, compresa quella di alternativa, ha assunto sul tema europeo. Se la sinistra moderata - almeno nella sua grande parte, come nel caso italiano del Pd, ma non tutta, come abbiamo prima visto - appare prigioniera del mantra della riduzione del deficit, del rigore finanziario e finanche del pareggio di bilancio in Costituzione, capovolgendo così le cause della crisi, come se questa cioè fosse generata dall’indebitamento pubblico e non da quello privato dovuto alla sovrapproduzione da un lato e dai bassi redditi dall’altro; tra le forze dell’alternativa fa sempre più capolino l’idea di fuoriuscire dall’Unione europea o dall’euro, il che è lo stesso. Si portano a conforto di simili tesi tutte le analisi, in sé e per sé inappuntabili, sulla assoluta prevalenza delle ragioni economiche e finanziarie che tengono insieme la Ue, a scapito di quelle politiche.

In effetti la Ue è l’Europa dei banchieri non dei popoli. Ma sarebbe un errore curvare le giuste osservazioni a questo riguardo di Amartya Sen - per fare solo uno dei tanti e autorevoli esempi -, per promuovere una fuoriuscita dall’euro, come è in una frequente articolistica su Le Monde Diplomatique, da Latouche a Lordon, per citare la sede e le fonti più nobili in cui viene coltivato questo pensiero. L’enfasi posta sul caso islandese, giusta in sé, se si fa riferimento a una capacità di autodeterminazione rispetto al debito - favorita dalla presenza di un governo che infatti unisce sinistra moderata, verdi e forze alternative - non può essere disgiunta dalla considerazione che quel piccolo Paese - la sua popolazione è di 320mila abitanti, meno dei depositi presenti nelle sue banche dei soli cittadini britannici - non fa ancora parte della Ue, ha una moneta fluttuante e tassi di interesse molto alti, il che ha fatto di quel Paese un luogo privilegiato per il carry trade (contrarre prestiti in paesi a basso tasso di interesse per investirli in quelli ove è più alto), ponendo così le condizioni per il crack economico.

A parte che l’uscita dall’euro non risolverebbe il problema del debito dei paesi in maggiore difficoltà della Ue, visto che quello giacente all’estero, per molti di essi prevalente, resterebbe espresso in euro, appare improbabile solamente pensare, per non dire progettare, un’idea di sviluppo civile e sociale alternativo - a meno di non proporre una semplice decrescita - se non in una dimensione sovrannazionale, come ci indica la stessa nostra questione meridionale, che non solo è nazionale, ma da tempo europea e mediterranea. Ogni sottovalutazione del livello irrimediabilmente mondiale con cui si pone lo scontro tra capitale e lavoro è un errore micidiale. Ogni riduzione, concettuale e spaziale, del campo di questo scontro, introduce un elemento di debolezza per il secondo, non certo per il primo, il quale - da sempre, ma con più forza e agilità ora - si muove su un terreno globale. Lo si vede bene nelle lotte operaie e del mondo del precariato.

Se una speranza c’è, è trovare una nuova riunificazione del mondo del lavoro sul terreno di un reddito garantito per chi il lavoro non ce l’ha e di una convergenza delle retribuzioni per chi lavora, per togliere eserciti di riserva al capitale globale. Per la formazione di una nuova coalizione del lavoro in Europa - ne abbiamo parlato in un convegno internazionale tenutosi a Roma lo scorso febbraio 1) e riferito in un precedente numero di questa rivista - è decisivo trovare forme di contrattazione a livello almeno europeo, fino a concepire un vero e proprio contratto europeo. Il contrario, cioè, di una dimensione aziendalistica o localista.

Analogo è il discorso per i diritti, nel campo dei quali il popolo migrante assume ruoli che possono per alcuni aspetti, fra cui il rapporto con le popolazioni autoctone, ricordare quelli dell’operaio massa nel pieno del fordismo nei confronti dell’operaio professionale. La stessa dimensione del territorio acquista peso strategico se inserita in una dimensione socialmente e geograficamente più ampia, come in fondo dovrebbe dirci la vicenda della Tav. Che il ruolo del pubblico e quindi della difesa dei beni comuni abbia già una dimensione almeno europea è dimostrato in negativo proprio dalla insistenza sulla costituzionalizzazione del pareggio di bilancio.

I tempi per la costruzione e la determinazione di un programma comune di trasformazione europea, attraverso un complesso intreccio di dibattiti, conflitti, consultazioni, sarebbero quindi più che maturi. Sono i soggetti politici, sia partiti, associazioni, sindacati o movimenti, a segnare, pur con diverse responsabilità, un evidente ritardo. Accettare questa Europa o uscirne sono lati di una stessa sconfitta. Lavorare per un’altra Europa, misurandosi con il vento di rivolta che soffia nelle sue capitali, significa mettere assieme un pensiero lungo - anche storicamente, visto che quando fu concepito, l’Europa stava assai peggio di oggi - con lo sforzo di prospettare una diversa uscita dalla crisi economica mondiale nella quale siamo immersi.

Gli atti del convegno sono ora disponibili su www.cercareancora.it


* L’articolo compare nel numero 18 della rivista Alternative per il Socialismo in libreria in questi giorni
 

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