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il rasoio di occam

‘È il virus economico, stupido!’. Naturalizzazione della crisi e ritorni al futuro del capitalismo zombie

di Fabio Vighi

La risposta globale alla crisi da coronavirus ha visto, da una parte, la richiesta incondizionata del ritorno a una fantomatica ‘normalità’, e dall’altra l’intervento massiccio delle banche centrali impegnate nell’esercizio, ormai dilagante, della creazione di fiumi di denaro dal nulla. Ma mentre il futuro torna al passato e la crisi si naturalizza, il capitalismo va esaurendo i conigli da estrarre dal proprio cilindro

zombie 945622 1920 1Nel mettere in ginocchio la catena di montaggio globale, il virus ci ha posto di fronte a una scelta ontologica, di quelle che capitano una sola volta nella vita: o tornare alle condizioni preesistenti, o iniziare a politicizzare forme di socializzazione alternative a quelle che ci hanno portato il contagio. Per quanto rivelatasi illusoria, l’apertura dello sguardo sul possibile di ‘un altro mondo’ è stata senza dubbio l’unica conseguenza entusiasmante dell’isolamento da pandemia. In questo senso, però, è significativo osservare come tutti i dibattiti mediatici su Covid-19 siano stati predefiniti dal mandato ideologico del ripristino dello status quo ante. Per quanto la crisi possa aver prodotto, nel nostro immaginario, scenari sociali diversi da quelli imposti dalla circolazione del capitale, in modo fin troppo prevedibile ha trionfato l’esigenza del ritorno al business as usual. Almeno una cosa, dunque, è certa: la risposta globale alla pandemia conferma la nostra rinuncia a mettere in discussione le basi materiali e ideologiche di una società del lavoro ormai avviata all’implosione. Evidentemente, si dirà, non siamo ancora pronti a investire energie e passioni politiche nella progettazione di un altro modello sociale – ma, si potrebbe controbattere, se non ora, quando? L’irresistibile bisogno di ‘normalità pre-covidiana’ sembrerebbe ratificare la nostra perversa sottomissione ai diktat di una forma esausta di razionalità economica che continua a essere vista come l’unica strada percorribile, nonostante le voragini che ormai ci inghiottono. In estrema sintesi, l’accumulazione capitalista deve continuare ad absurdum.

Per quanto frammenti utopici di pensiero anticapitalista possano tornare a sbocciare in un futuro prossimo, e potrebbero ispirare nuovi conflitti di classe e linee di battaglia, l’unica realistica prospettiva di cambiamento passa attraverso l’adozione del vecchio enunciato di Marx dal terzo volume del Capitale: “Il vero ostacolo della produzione capitalistica è il capitale stesso”.[1] Il limite reale del capitalismo, affermava Marx in parziale contraddizione con la sua stessa dottrina del proletariato rivoluzionario, non si trova in una forza esterna, ma coincide con la travolgente pulsione espansiva del capitale quale ‘soggetto automatico’. Hegel, padre filosofico di Marx, aveva colto questo potenziale intra-oppositivo con la famosa formula die List der Vernunft, “l’astuzia della ragione”. L’astuzia consiste non nell’affrontare il nemico a visto aperto, secondo le regole tradizionali dell’arte del combattimento. Piuttosto, si concede al nemico di occupare l’intero campo di battaglia, in modo tale che l’assenza di ostacoli esterni lo costringa a confrontarsi con l’infondatezza delle proprie ‘passioni’, fino a liquidarsi da solo. La nostra economia globalizzata si sta allegramente avviando a un simile destino. Il libero spiegamento del potere del capitale, che nell’era del coronavirus raggiunge vette assolute, sta rapidamente minando i presupposti stessi dell’espansione capitalista. Come?

Innanzitutto, dobbiamo tener conto del fatto che Covid-19 ha accelerato un processo di implosione economica già ampiamente in corso. L’economia mondiale pre-covidiana era da tempo fiaccata da una micidiale stagnazione gravida di minacciosi scenari deflazionistici; più precisamente, stava soffocando sotto una montagna di debiti insostenibili, sia privati ​​che pubblici. Alla fine del 2019 il rapporto debito / PIL globale era salito al massimo storico del 322%,[2] rispetto al 269% della fine del 2007 (all’alba dell’ultima grande crisi). Molte società quotate in borsa non potevano nemmeno generare profitti sufficienti a coprire i pagamenti degli interessi sul loro debito, e restavano a galla solo emettendo nuovo debito.[3] Tutti i principali indicatori macroeconomici globali – debito, produzione industriale, commercio, disoccupazione, ecc. – ci parlavano di un’economia sull’orlo di un precipizio, ovvero di un nuovo 2008. La verità è che dopo quell’ultimo tracollo la nave si era stabilizzata solo agli occhi degli illusi. Che si stesse correndo il rischio di un’altra tempesta globale lo facevano notare tutti i commentatori più avveduti. Mancava solo quell’innesco che, di regola, prende la forma di un evento del tutto accidentale nel provocare l’inevitabile deflagrazione, proprio come successe una dozzina di anni fa con il crollo di Lehman Brothers. Negli ultimi tempi, vari sacerdoti della scienza macroeconomica avevano discusso animatamente sul come stimolare una ripresa che, tipicamente, doveva portare un incremento di investimenti che creano più posti di lavoro e aumentano i consumi – la favoletta a cui ormai non crede più nemmeno chi la racconta. Infatti, indipendentemente dalle misure adottate (pacchetti di austerità o politiche monetarie espansive), tale ripresa, come Godot, si faceva attendere in eterno. Al suo posto è arrivato Covid-19.

Nel terrorizzare il mondo, il virus ha però anche creato, suo malgrado, un’opportunità dal fascino doppiamente irresistibile: da un lato, permetteva di sviare l’attenzione globale dall’imbarazzo di un sistema economico sempre più incapace di giustificare la propria inadeguatezza; dall’altro, consentiva il libero sfogo di una crisi ormai matura per poi far cassa sulle spalle di un contagio tanto devastante quanto misterioso come il cosmo. Dopotutto, la narrazione di un cataclisma naturale che nessuno poteva prevedere si presentava piuttosto semplice da imbastire, e di certo molto più conveniente della patetica ricerca di nuovi responsabili di un’altra débâcle economica. Trasformare un sintomo (il virus) in causa è senz’altro preferibile al mettere in discussione le basi di un modo di produzione agonizzante, specie quando la cartuccia della finanza ‘avida e corrotta’ è già stata sparata. Come ampiamente previsto da Hollywood, scenari apocalittici causati da eventi esogeni come pandemie microbiologiche sono infinitamente più digeribili dagli stomaci del grande pubblico rispetto a ricognizioni teoriche o esistenziali sulla malattia terminale del nostro caro apparato socio-economico. In effetti, Cassandre e uccellacci del malaugurio non sono benvenuti nei dibattiti mediatici sul ‘che fare’ rispetto alla mostruosità di Covid-19. Si può immaginare la fine del nostro mondo per mano di un virus invisibile, accidentale e soprattutto alieno (o al limite ‘cinese’), ma non certo per mano del capitalismo, perché ciò significherebbe portare sul banco degli imputati la nostra stessa partecipazione alla riproduzione di un modello sociale ormai palesemente auto-distruttivo. D’altronde, la branca del sapere che chiamiamo ‘scienza economica’, essa stessa filiazione della grande storia ideologica del capitale, è per definizione incapace di pensare crisi organiche o strutturali. Non è in grado, cioè, di comprendere che il vizio si trova nei fondamenti elementari dell’economia, e non in errori strategici, ‘passioni animali’, o calamità naturali. Per questo motivo, di fronte all’impatto traumatico di Covid-19 non dovremmo né disperare né rassegnarci, ma piuttosto porci con freddezza la seguente domanda: a che tipo di ‘normalità’ stiamo cercando di tornare?

Ciò che continua a sfuggirci è il semplice fatto che il virus ha messo a nudo l’assoluta precarietà di una situazione che già prima del suo arrivo era in atto, vale a dire l’obsolescenza di un modo di produzione in grado di sostenersi, paradossalmente, solo attraverso la socializzazione delle sue perdite. Con buona pace dell’efficienza dei liberi mercati e delle loro mani invisibili! Nel 2008, il settore privato fu salvato da un drenaggio senza precedenti di risorse pubbliche, a cui fecero seguito politiche di austerità rivelatesi distruttive del tessuto sociale. Il collasso economico fu evitato grazie alla nazionalizzazione di crediti spazzatura e varie politiche di denaro a basso costo e di indebitamento statale. Negli anni successivi, misure apparentemente provvisorie come il ‘quantitative easing’ (QE) sono diventate la norma, per il semplice motivo che il sistema si è rivelato sempre più dipendente dall’intervento salvifico delle banche centrali. La crisi da coronavirus sta ora esacerbando questa paradossale situazione, come dimostrano le monumentali operazioni di compensazione fiscale e salariale implementate nella maggior parte delle economie avanzate, tra cui l’acquisto su larga scala di titoli di Stato (QE), prestiti a lungo termine a tassi di interesse pari a zero, trasferimenti e sovvenzioni fiscali dirette e – sdoganato da ultimo tra gli interventi monetari più creativi – varie forme di ‘helicopter money’, come già ipotizzato nientepopodimeno che dal guru neoliberista Milton Friedman.[4] In quello che assomiglia sempre più a un 2008 sotto steroidi, le banche centrali stanno rispondendo alle perdite del PIL con enormi iniezioni di liquidità. Gigantesche quantità di denaro vengono create dal nulla e pompate nell’economia globale per impedirne il collasso. Di fronte al dispiegamento di cotanta artiglieria monetaria, dovremmo chiederci di cosa sia sintomo questo colossale ricorso alla stampa di denaro.

Per quanto l’espansione della base monetaria di una grande economia non sia un fenomeno nuovo, oggi questo approccio correttivo ha raggiunto dimensioni del tutto inedite e, per questo, sintomatiche. Negli ultimi anni, forme strutturali di compensazione sono state dispiegate regolarmente non solo in relazione a catastrofi naturali (alluvioni, incendi, terremoti, ecc.), ma anche per salvare il capitalismo da sé stesso, ovvero dalla sua ‘costipazione storica’ – o, meno volgarmente, dalla sua incapacità di creare nuovo valore. Come ci ricorda Anatole Kaletsky, dal 2008 “banche, compagnie assicurative e mercati finanziari hanno ricevuto trasferimenti fiscali in molti paesi pari a oltre il 25% del PIL”.[5] Tuttavia, nel dirsi ottimista circa la possibilità di fermare l’emorragia da coronavirus attraverso politiche monetarie espansive, Kaletsky (così come Lord Adair Turner, Martin Wolf, Will Hutton, Larry Summers, Paul de Grauwe e altri luminari keynesiani) misconosce il punto fondamentale dell’inevitabile erosione della base stessa dell’accumulazione capitalista: il lavoro salariato. Nel trascurare l’impatto della dissoluzione in corso della sostanza del capitale, anche i seguaci di Keynes finiscono per comprendere la crisi attuale come aberrazione temporanea che può essere corretta facendo, ancora una volta, “tutto ciò che è necessario”[6]. Ma prevedere qualsiasi tipo di ripresa economica dopo la pandemia di Covid-19 è tanto inopportuno quanto ipocrita, non solo per via dello tsunami di debito, disoccupazione e impoverimento che ci aspetta, ma soprattutto alla luce dell’evidenza ormai schiacciante che il sistema è sempre più impotente rispetto alla contraddizione che ingenera. In altre parole, la spirale negativa del capitalismo contemporaneo è inarrestabile.

Indipendentemente dallo scenario post-emergenziale che emergerà quando il grido di battaglia “Ora siamo tutti keynesiani!” avrà perso il suo appeal, è certo che il realismo capitalista tornerà a farla da padrone. Fatalmente, Covid-19 avrà accelerato il già dilagante ricorso all’automazione del lavoro, deprimendo ulteriormente la domanda. Secondo le stime dell’FMI, nel 2020 il debito pubblico totale dei paesi capitalisti avanzati sarà aumentato di 6 trilioni di dollari (6 miliardi di miliardi), passando dal 105% al ​​122% del PIL.[7] L’aumento del moltiplicatore del debito, tuttavia, non porterà necessariamente a nuovi investimenti. Piuttosto, una parte consistente di questo nuovo debito continuerà a migrare verso il settore finanziario. E come se non bastasse, la compiuta naturalizzazione della crisi economica avrà pure rafforzato la convinzione, peraltro già solidissima nella mente scellerata di homo economicus, che ‘non c’è alternativa’. Rispetto a questa deprimente radiografia dell’immediato futuro, è comunque utile riflettere su come la vastità dell’operazione di salvataggio in corso sia emblematica di una svolta epocale nel modo in cui il capitalismo si rapporta al suo sempre più ingestibile squilibrio strutturale.

Se le banche centrali aggirano i mercati per aspirare titoli di stato con tale disperata voracità; se ricette finora tabù come UBI (reddito universale di base) e MMT (teoria monetaria moderna, ovvero ‘helicopter money’) trovano il supporto trasversale di Donald Trump e dei libertari di sinistra; se, in breve, il credito proviene direttamente dallo stato (banche centrali) bypassando il sistema bancario privato, allora è lecito sospettare che il re sia nudo. Misure di emergenza di questa portata ci dicono che il capitalismo sta esaurendo i conigli da estrarre dal cilindro. Ovviamente, ciò non significa che il sistema collasserà dall’oggi al domani, o che a breve sorgerà un movimento anticapitalista internazionale in grado di cambiare le sorti del mondo. Più realisticamente, almeno nell’immediato, il ‘capitalismo zombie’ sarà costretto a fare affidamento su forme sempre più esplicite e dirette di manipolazione e repressione politica. Come in epoche mitologiche, l’obbedienza a un modello di riproduzione sociale ormai moribondo ci verrà sempre più imposta come un Fato (o un virus) a cui è impossibile sfuggire. Per quanto le previsioni non possano che essere tratteggiate a tinte fosche, non dobbiamo però abbandonare la consapevolezza che, nel disperato tentativo di salvarsi dalla propria maledizione, il capitalismo contemporaneo continua a minare le sue stesse condizioni di possibilità. Solo partendo da questa consapevolezza potrà nascere il desiderio collettivo di un’alternativa politica alla folle corsa verso il baratro del nostro modello sociale.

Il punto da tener presente in merito alla risposta monetaria è che il denaro artificiale non aumenta il credito all’economia, ma, nella migliore delle ipotesi, sostituisce solo parzialmente ciò che si è perso, mentre l’economia stessa continua a contrarsi a prescindere. Questo perché nel capitalismo il denaro non cresce sugli alberi, o nelle banche centrali. Piuttosto, esiste come espressione astratta del valore economico prodotto dall’investimento in una merce speciale chiamata lavoro. Nel capitalismo, il denaro quale ‘equivalente universale’ è rappresentativo di una relazione sociale basata sull’estrazione di plusvalore dal lavoro salariato. Il motivo, dunque, per cui la creazione di moneta non aumenta la ‘domanda aggregata’ (investimenti e consumi), è che un’economia capitalista non funziona attraverso consegne di denaro a domicilio, ma attraverso la redditività degli investimenti nel lavoro. Come hanno dimostrato negli ultimi anni vari tentativi di rilancio economico tramite quantitative easing, le politiche monetarie espansive hanno un impatto assai modesto sulla creazione di posti di lavoro e sul consumo, per la semplice ragione che non stimolano gli investimenti nell’economia reale. Un’economia che è sempre più incapace di fare un uso produttivo della forza lavoro è destinata a implodere, indipendentemente da quanto denaro le tiriamo addosso. È un po’ come curare il cancro con un’aspirina, o aggiungere carburante a un’auto quando il problema non è la mancanza di carburante ma un guasto all’impianto di alimentazione. Ciò che il credito artificiale può ottenere è quindi limitato a un sostegno temporaneo, che passa attraverso bassi tassi di interesse e un’aggiustatina ai bilanci. Oltre a ciò, partorirà solo una nuova ripresa delle speculazioni finanziarie, con il possibile bonus dell’iperinflazione. Meglio dunque mettersi in testa che, in un’epoca di automazione accelerata come la nostra, il capitale monetario può solo prendere la via dei mercati finanziari, poiché la redditività dell’economia reale è sempre più improbabile. Se negli ultimi quarant’anni il settore finanziario ha assunto un ruolo così dominante e decisivo, è proprio perché il lavoro è stato progressivamente reso superfluo dall’uso capitalistico della tecnologia.

La logica autoreferenziale del capitalismo finanziario si è sempre basata sul presupposto che le speculazioni hanno una base nell’economia reale. Sebbene questo presupposto non abbia avuto un ruolo centrale durante la prima rivoluzione industriale, è stato però determinante per il fordismo (seconda rivoluzione industriale), poiché gli enormi investimenti necessari a installare e sostenere la produzione industriale di massa si potevano finanziare solo attraverso una consistente anticipazione di ricchezza futura. Nella misura in cui la nuova ricchezza è stata effettivamente prodotta dal nuovo mondo industrializzato (attraverso il lavoro salariato di massa), il settore finanziario poteva ancora dire di avere un piede nell’economia reale. Con la terza rivoluzione industriale (microelettronica e digitalizzazione a partire dagli anni ’70), questa logica ha perso la sua ragion d’essere, e il capitale fittizio si è necessariamente trasformato nell’unico motore di accumulazione che, in quanto tale, si auto-sostiene solo attraverso ulteriori speculazioni finanziarie. Ma, com’è noto, la fuga in avanti dei capitali finanziari finisce per gonfiare bolle speculative di enormi proporzioni, che a un certo punto, quando la crescita di capitale fittizio appare improvvisamente grottesca e dunque irrealistica, incontrano la loro nemesi. E il crollo del castello di carte distrugge inevitabilmente le relazioni materiali su cui si erge, minacciando in questo modo una devastante svalutazione del denaro stesso.[8] In un tale contesto di crescita fittizia, le politiche espansive non possono che collocarsi all’interno di una situazione di stallo che si sta rapidamente trasformando in una vera e propria sclerosi sistemica.

Se il rischio principale dei bazooka delle banche centrali è un’inflazione galoppante accompagnata da forme potenzialmente catastrofiche di svalutazione, ciò che è in gioco oggi è una questione di più ampia portata. È sempre più evidente, cioè, che il nostro modello economico viene mantenuto in vita artificialmente, dal momento che il suo elementare meccanismo di auto-riproduzione – la creazione di profitto attraverso investimento nel lavoro umano – è ormai reso impotente dalla sua stessa contraddizione interna; dal fatto, cioè, che da una parte il lavoro è necessario per la produzione di ricchezza, ma dall’altro dev’essere eliminato in quantità sempre più ingenti, e senza possibilità di riassorbimento, se i capitali vogliono rimanere competitivi sul mercato. La crisi da coronavirus ci sta dicendo ciò che già dovremmo sapere: il capitalismo come narrativa di produzione di ricchezza basata sul lavoro salariato di massa è tecnicamente morto, e continuerà a sussistere solo come formazione sociale spettrale, attraverso cioè il supporto di regimi autoritari (sostanzialmente fascisti), in cui pochissimi prosperano e il resto è condannato a sopravvivere in condizioni di indigenza e darwinismo sociale. Eppure, non dovremmo dimenticare che l’inarrestabile dissoluzione della dialettica economica del capitalismo è anche sinonimo del fallimento di un complesso sistema di rappresentazioni politiche e sociali. Quando il valore economico viene creato ex nihilo dalle banche centrali perché la relazione capitale-lavoro non crea più ricchezza sufficiente a sostenere il corpo sociale, la maschera ideologica dell’economia come narrazione autosufficiente cade, rivelando il suo cuore vuoto. Il capitalismo non è più in grado di nascondere il nulla da cui ha preso forma e ha iniziato a funzionare come implacabile dialettica di auto-valorizzazione. Ciò di cui abbiamo bisogno è il coraggio politico e culturale di affrontare l’inarrestabile disgregazione della nostra condizione socio-economica. L’alternativa è il fascio-capitalismo, suggellato da continue e impotenti esplosioni di rivolta sociale indiscriminata.


Fabio Vighi è Professore di Teoria critica all'Università di Cardiff (UK).

NOTE
[1] Karl Marx, Il capitale, libro terzo, Editori Riuniti, Roma, 1970, p. 313.
[2] Si veda https://www.iif.com/Research/Capital-Flows-and-Debt/Global-Debt-Monitor/lapg-908/2
[3] Ryan Banerjee e Boris Hofmann, “The rise of zombie firms: causes and consequences”, in Bank of International Settlements Quarterly Review, September 2018, pp. 67-78. Si veda anche https://qz.com/1812705/zombie-companies-are-spreading-as-interest-rates-fall/.
[4] Si veda Milton Friedman, The Optimum Quantity of Money and Other Essays, Adline Publishing Company, Chicago, 1969, pp. 1-68.
[5] Anatole Kaletsky, “Averting Economic Disaster is the Easy Part”, in Project Syndicate, 19 marzo 2020. Accessibile qui https://www.project-syndicate.org/commentary/government-compensation-for-covid-19-losses-by-anatole-kaletsky-2020-03
[6] Questa frase è stata attribuita al presidente degli Stati Uniti Richard Nixon e può essere estesa a tutti coloro che favoriscono, con riluttanza, la strategia interventista (keynesiana) contro i dettami del libero mercato in un periodo di crisi economica.
[7] Si veda l’editoriale dell’Economist del 23 aprile 2020, dal titolo “After the disease, the debt”.
[8] Si veda a questo proposito Ernest Lohoff e Norbert Trenkle, Die große Entwertung (La grande svalutazione), Unrast Verlag, Münster, 2012.

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Alfonso
Wednesday, 17 June 2020 08:51
Leggendo e rileggendo (sono scemo) il passo di Fabio citato da Eros, mi tornava in mente la celebre battuta dell'albero che cade settanta milioni di anni fa, "che rumore fece?" Un test di ambiguità, ma anche di razionalità, che probabilmente sarebbe piaciuto a Freud per i suoi studenti. Se Fabio proponesse quel tema ad Anil Seth e il suo team, lo accoglierebbero volentieri nel loro progetto di ricerca, e parliamo di esperimenti scientifici. Non lo affermo come vero, ne sono soltanto certo. Proporrei di non assolutizzare e feticizzare un lato della relazione, euristicamente sull'esempio di Engels riguardo le ambiguità di Helmholtz: va approfondita la ricerca. Grazie
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AlsOb
Monday, 15 June 2020 23:24
Caro Eros B, anche se può suonare non familiare rispetto a una personale visione e sensibilità l'espressione di Fabio V "La realtà oggettiva, per come pensiamo di poterla conoscere, è fatta di presupposizioni, che sono la condizione formale della sua possibilità di esistenza ontologico-sociale. Tutto ciò non è affatto in contrasto con una teoria materialistica della storia, purché - questa è, in sintesi, la mia posizione nient'affatto postmoderna - se ne riconosca la radicale matrice dialettica, da intendersi come continuo e incessante 'porre le presupposizioni' del nostro essere sociale" , non è un 'eresia e il suo contributo è fondamentato. Mi sembra inutilmente affrettato e ingeneroso un drastico e negativo giudizio al limite del settarismo, quando manco esistono una effettiva sinistra e partito comunista che dir si voglia. Senza contare che se si guardasse a varie analisi economiche che fioriscono uno acquisisce la sola certezza che di sinistrà non si vedrà ombra.
A Marx non gliene importava più nulla di tutta una tradizione filosofica che si presentasse come calata dall'all'alto, se non per demolirla, e come la rivoluzione doveva sorgere dal basso e dagli sfruttati portatori di una propria consapevole grammatica, così cambia radicalmente il punto di vista e il linguaggio, per rappresentare e spiegare i fenomeni sociali e reali attinenti il modo di produzione capitalistico in modo adeguato, efficace e classista. Il suo modello e categorie restano le più potenti per capire il modo di produzione capitalistico e per fare giustizia delle letture ideologiche e astratte tipiche dell'economia volgare che servono a giustificare sfruttamento e relativa struttura di potere.
Perciò quando vi sono i presupposti di una comune prospettiva di analisi e azione politica dovrebbero accentuarsi i nuclei importanti da condividersi e su cui convergere, sorta di catechismo minimale, senza dimenticare le oggettive condizioni della realtà effettuale.
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Fabio Vighi
Monday, 15 June 2020 22:55
Caro Barone, con Kant ci avviciniamo al punto, anche se, come lei saprà meglio di me, il passo da Kant a Hegel sembra breve ma è abissale. Il limite epistemologico kantiano (l'impossibilità della ragione di comprendere la cosa-in-sé, la realtà noumenica) diventa in Hegel un impasse ontologico, nel senso che la cosa stessa, la Sostanza, in Hegel è attraversata dalla propria differenza da sé stessa, cioè dalla propria contraddizione o incompletezza immanente. Questo è il motivo per cui la ragione dialettico-speculativa hegeliana (Vernunft) deve continuamente auto-porsi, o auto-causarsi, cioè porre retroattivamente le proprie presupposizioni. Un 'lavoraccio' che la filosofia trascendentale di Kant manco si poteva immaginare! Marx indubbiamente ha applicato il metodo hegeliano al rapporto (dialettico, appunto) tra capitale e lavoro, ma, credo, non fino in fondo. Se in Hegel il soggetto è speculativamente identico alla sostanza in quanto è il nome dell'incompletezza ontologica della sostanza, con Marx (ma soprattutto con i marxismi ortodossi) finiamo con un soggetto rivoluzionario inserito in una visione teleologica e palingenetica della storia. Passo e chiudo, e rinnovo i saluti.
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Eros Barone
Monday, 15 June 2020 18:09
“La realtà oggettiva, per come pensiamo di poterla conoscere, è fatta di presupposizioni, che sono la condizione formale della sua possibilità di esistenza ontologico-sociale.” Ma questo è Kant, non Marx, ossia è un’interpretazione soggettivistica del marxismo in chiave kantiana. La realtà oggettiva non è fatta di “presupposizioni, che sono la condizione formale della sua possibilità di esistenza”, ma le determina! La Sua problematica è di tipo gnoseologico, non di tipo ontologico (cfr. il Lukács della maturità, a cui Lei si riferisce incongruamente virando in quel senso, ossia in senso gnoseologico, il segno algebrico della sua problematica ) e ha ben poco a che fare con la problematica del marxismo, cioè del materialismo storico-dialettico. Anzi, per certi versi fa pensare – vista la Sua denegazione del postmodernismo – all’“esperienza socialmente organizzata” di Bogdanov e compagni, cioè alla tesi centrale dell’empiriocriticismo, circa la critica leniniana della quale mi permetto di rinviarLa alla lettura di due saggi, uno su "Materialismo ed empiriocriticismo" e un altro sui Quaderni filosofici, che ho pubblicato in questo stesso sito. La saluto.
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Fabio Vighi
Monday, 15 June 2020 16:31
Caro Barone, quanta confusione! Capisco che la dialettica hegeliana del posto/presupposto possa risultare indigesta, ma semplificare con la solita accusa di relativismo postmoderno, mi scusi, non le fa onore. Non penso affatto che il concetto di valore sia 'sganciato' dal contesto oggettivo. Piuttosto, il valore-lavoro, inteso capitalisticamente come misura astratta di tempo di lavoro da cui estrarre plusvalore, è proprio il nodo che determina l'oggettività sistemica del capitalismo. Ma lo determina oggettivamente in quanto presupposizione posta dal denaro-capitale (il denaro che vuol farsi capitale). La realtà oggettiva, per come pensiamo di poterla conoscere, è fatta di presupposizioni, che sono la condizione formale della sua possibilità di esistenza ontologico-sociale. Tutto ciò non è affatto in contrasto con una teoria materialistica della storia, purché - questa è, in sintesi, la mia posizione nient'affatto postmoderna - se ne riconosca la radicale matrice dialettica, da intendersi come continuo e incessante 'porre le presupposizioni' del nostro essere sociale. Il capitalismo ha posto una certa presupposizione del lavoro (ovvero ha 'significato' il lavoro) come valore quantificabile in unità di tempo, da cui estrarre plusvalore. Parliamo ovviamente di relazioni assolutamente reali, come la ruota di un'automobile che ci mette sotto (Lukacs), eppure questo reale ci si squaderna come tale solo dal momento in cui una certa operazione formale (o psichica, come preferisce) ha il sopravvento su altre - nel nostro caso, appunto, l'idea/astrazione mentale (radicata nel nostro inconscio) che il lavoro sia valorizzabile in termini capitalistici. Mi pare che il relativismo postmoderno non c'entri proprio nulla con tutto ciò, anche se lei ovviamente è liberissimo di pensarlo. Saluti.
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Eros Barone
Monday, 15 June 2020 14:23
Caro Vighi, non avevo dubbi sulla inconciliabilità (non filologica ma ontologica) tra la categoria di imperialismo (quindi per Lei sembrerebbe che non esista la concorrenza capitalistica su scala mondiale) e l’orientamento postmoderno del Suo ‘marxismo’. D’altronde, dalla lettura di un altro articolo avevo già enucleato le seguenti tesi (una più falsa dell’altra): 1) per Lei il capitalismo non è un modo di produzione storicamente determinato e transitorio, bensì un' "invenzione", una "messinscena", una "narrazione"; 2) quindi non esiste, in senso proprio, uno sfruttamento della forza-lavoro, il che era dimostrato dal fatto che nell'articolo non si faceva parola di esso sfruttamento, mentre vi compariva timidamente, un paio di volte, il riferimento all'alienazione; 3) ne conseguiva che il principale errore di Marx è stato quello di aver ontologizzato il capitalismo, il valore di scambio e il valore d'uso, convertendo in entità naturali quelli che sono, in definitiva, stratagemmi, trucchi e trappole escogitati dal capitalismo 'ad usum vulgi' (questa è una singolare versione dell'illuminismo interpretata in senso postmodernista, talché il rimprovero mosso a marx era quello di non essere…postmoderno!); 4) i concetti di valore e plusvalore, coerentemente con questo tipo di "fallacia moralista", vengono sganciati dal contesto oggettivo (produzione, scambio, circolazione, processo lavorativo e sua sussunzione al capitale) e, attraverso il ricorso al concetto della "sintesi sociale del valore" teorizzata da Sohn-Rethel, vengono trasformati in 'effetti di accecamento' prodotti scientemente dalla malvagità dei capitalisti e accreditati, anche in forza dell'interpretazione oggettivistica e naturalistica di Marx, alla credulità dello stesso proletariato [qui il "marxismo” diventa antimarxista e rivela il suo vero volto, tutt’altro che accattivante]. Concludendo questa controreplica, osservo che il presente articolo si colloca sulla stessa linea dei precedenti, e conferma quanto sia difficile per la cultura borghese prescindere dal marxismo e quanto sia facile fornirne una caricatura.
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Fabio Vighi
Monday, 15 June 2020 13:38
Vi ringrazio per il dialogo, che mi conforta nel profondo di una soggettività tutta rappresa nei processi di valorizzazione cui è per privilegio di anagrafe destinata, specie in questi giorni di 'lavoro a distanza', che non è affatto 'distanza dal lavoro', anzi! Grazie Alfonso per la dritta. Dovremmo infatti aggiungere una lunga digressione sul carattere esistenziale dello sfruttamento della forza-lavoro, che ci identifica attraverso la categoria psicoanalitica, questa sì insuperabile, del godimento inconscio o sintomatico (il sintomo è, in fondo, il modo in cui godiamo del nostro inconscio, che poi è l'aggancio fondamentale - il fantasma fondamentale - al nostro mondo). Ma non voglio inoltrarmi in questa selva davvero oscura, che rischierei di essere definitivamente depennato dal registro dei discussori dell'opera critica di Marx. Riguardo all'obiezione di Eros Barone, la categoria dell'imperialismo mi interessa relativamente perché l'obiettivo critico, per quanto mi riguarda, è la caduta non tendenziale bensì assoluta della massa del saggio di profitto. Questa categoria, che Marx per privilegio di anagrafe poteva solo intuire (e infatti la intuì), è sempre più reale, e sovra-determina i rapporti imperialistici tra dominati e dominanti. Parlare di imperialismo come categoria dirimente è come litigare sulla bolletta della luce mentre l'intero condominio va a fuoco. Con questo non voglio dire che sia inutile, tutt'altro. Ma se non si comprende che la totalità dei rapporti capitalistici, e dunque (volente o nolente) la nostra stessa forma di vita, sta evaporando al sole del determinismo tecnologico immanente al modo di produzione capitalistico, allora possiamo continuare a accapigliarci in discussioni filologiche o ermeneutiche sull'euristica marxiana, che in sé è anche divertente e può dare molte soddisfazioni. E ora vi saluto e torno a vendere la mia misera forza-lavoro a un'università privatizzata (bravo Alfonso!) e ovviamente indebitata fino all'osso del collo, che dunque non vede l'ora di disfarsi di forza-lavoro, e lo sta facendo con un certo successo grazie all'imponderabilità (!) di un virus.
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Alfonso
Monday, 15 June 2020 09:02
Piatto ricco, ne'? Una sponda a Fabio, esperto di immaginario collettivo. Sulla BBC, un prodotto da chiusincasa, Staged, con David Tennant, Michael Sheen e altri attori famosi. Fanno le prove di Sei personaggi in cerca d'autore, nientepopodimeno, e grazie all'utilizzo di media su piattaforme separate, sparlano l'uno dell'altro in videocoferenza mentre sul telefonino si sperticano in lodi, e viceversa. Parlano di onestà, intellettuale (la coscienza alienata, eh Fabio? venditori della propria forza-lavoro straconvinti di essere intellettuali di vai a capire quale classe!); atteggiamenti da primadonna, insomma tanto Pirandello ma non solo, Joyce, Shakespeare, e altri interpreti del proprio tempo, di crisi, senza rivoluzionari naturalmente. Direte, ma cosa c'entra! Ebbene lo ammetto, uso un espediente per chiarire che oltre il medium che stiamo usando grazie a Tonino, partiamo dall'assunto che ognuno di noi esprima crucci che rimandano a un contesto sociale, che abbiamo filtrato questioni di esseri umani con i o le quali interagiamo. Non mi rapporto a Eros, Fabio, Carlo, AlsOb come a oggetti da manipolare, ma non potendo cominciare incontrandone gli universi che vorrei con un 'chi sei?', e pormi all'ascolto, mi viene comodo presupporre che siamo tutti portatori di un essere sociale, un collettivo di soggettività in processo che quello certo posso supporre con potenzialità alle quali collegare il mio cruccio. Ancora un po' di pazienza, vi prego. Nel caso specifico, se pongo imperialismo come categoria, analitica, mi precludo il percorso dialettico, che spunti fuori come necessità del processo stesso (anche se, quando Eros accenna alla euristica, mi lascia la porta aperta). Eppure, sappiamo che il percorso suggerito da Fabio va nel profondo, rispetto al valore. Qui non si parla di categoria, ma non nel senso che sia ipocritico, quanto piuttosto che sia in gioco la sopravvivenza stessa del valore come 'forma finalmente scoperta' della vita umana, del venir meno della 'forza di un pregiudizio popolare'. Nel procedere, ognuno di noi, e a seguire tutti coloro che ci portiamo dentro, deve sempre mantenere la propria soggettività, deve sempre viversi il processo come soggetto storico, deve sempre chiedersi 'chi sono io qui', 'cosa me ne faccio di questo'. E per rendere il tutto facile, lo stiamo facendo senza teoria (guardare gli dei), senza idea (non guardiamo proprio), e tutti i poteri dell'universo in un minuscolo spazio vitale, quattro commenti in croce. A me pare (ma mi sento come Levinas quando espone il petto, quindi colpite pure) che al non farlo, ci si metterebbe in cattedra, come a dire 'adesso vi faccio vedere il trucco'. E ci ritroveremmo tutti, come dice Lara, ai piedi del pero. Grazie
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carlo rao
Monday, 15 June 2020 03:11
In sintesi, per Marx il credito è “la forma in cui il capitale cerca di distinguersi dai singoli capitali”, e su questa strada si incontra la definizione di “capitale fittizio” e del credito inteso come concentrazione dei capitali, tanto che nel Libro III del Capitale specifica che “Il sistema creditizio affretta quindi lo sviluppo delle forze produttive e la formazione del mercato mondiale”. In sostanza Marx ritiene che dal capitalismo concorrenziale si passerà al capitalismo monopolistico attraverso il meccanismo del credito e più in generale delle forme che assume l’aspetto finanziario e fittizio del capitale stesso; in tal senso una delle funzioni principali del credito è per Marx quella di determinare un saggio medio del profitto, per ovviare alla eccessiva disparità dei saggi di profitto nei vari rami di produzione dovuta alla differente composizione organica del capitale tra di loro esistente. Siccome è da questi passaggi che Marx fa scaturire in definitiva la formazione di un mercato mondiale (fondamentale il passaggio intermedio al livello monopolistico), e dato che quest’ultimo è la base per avere una “fase imperialistica del capitalismo”, non è sbagliato implementare questa nozione di “imperialismo” nel ragionamento marxiano, sebbene sia indubbio che egli non usi esplicitamente tale nozione nel suo modello descrittivo del capitale finanziario / creditizio.
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AlsOb
Sunday, 14 June 2020 21:17
Caro Eros B, lo scritto di Fabio V ha il pregio di cogliere gli elementi essenziali della evoluzione e situazione contemporanea del capitalismo fittizio e di darne una descrizione stilizzata efficace al di la di alcune precisazioni.o specificazioni tecniche che si devono aggiungere. È incluso anche un contenuto esplicativo essenziale, ampliarlo implicherebbe introdurre aspetti tecnici più sofisticati, il che potrebbe rappresentare un secondo momento. Tuttavia le tue osservazioni alla fine risultano un poco fragili. Far intervenire una sorta di discriminante marxiana del rapporto tra esoterico e essoterico richiede cautela inoltre la categoria dell'imperialismo praticamente non è utilizzata o non svolge un esplicito ruolo nel modello di Marx. Naturalmente l'imperialismo, specie nella versione finanziaria, ha un ruolo nella deriva letterale verso il dominio dei derivati del capitalismo fittizio, così come gli aspetti o questioni coniugate del tasso di profitto, tasso del salario e tasso del progresso tecnico. E di plusvalore estratto direttamente da un numero decrescente di lavoratori e di sfruttamento . Una migliore o più ampliata spiegazione può essere studiata ma non può sorgere sulla base di pregiudizu o uso forzato di categorie, più per soddisfare credenze di aderenza a un modello idealizzato che a criteri scientificu e di materialismo storico.
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Eros Barone
Sunday, 14 June 2020 20:25
Caro Alfonso, la condizione personale di Fabio Vighi non mi interessa né più né meno di quella di qualsiasi altro essere umano. Mi interessa invece la sua analisi, nella quale ho ravvisato quel limite che ho cercato di esporre e di argomentare.
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Alfonso
Sunday, 14 June 2020 17:07
Scusa, Eros, ma se il contributo di Fabio ha valore a livello descrittivo, ha valore punto. Ha prodotto un articolo, che tutti possiamo vedere e toccare, tramite applicazione e dispendio di energie umane, organizzando il proprio lavoro in maniera privata (tappato in casa dal Covid) e indipendente (mantenendo social distancing), insomma persino in condizioni sociali medie, almeno fino a prova contraria. Al momento fa probabilmente parte di quel settore dell'esercito proletario mondiale che vende la propria forza-lavoro a un capitalista privato (una Università, che nome strambo per cotanto grettume privatistico) che non riesce a farlo lavorare per estorcergli una quantità di lavoro superiore al lavoro necessario, che gli viene comunque retribuito pur stando a casa. Magari quanto scrive non ha un valore-scambio, nel senso che non glielo compra nessuno; ma certamente ha un valore-uso. Per noi, quindi per il mondo. Quindi, non solo stiamo parlando di uno che per campare non ha altra risorsa che quella di vendere la propria forza-lavoro, ma che assapora il gusto della forma migliore di libertà nel modo di produzione capitalistico (e a fortiori in questa sua fase suprema, l'imperialismo), insomma la schiavitù salariata circondato da suoi simili che a volte gli fan girare le balle. Grazie
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Eros Barone
Sunday, 14 June 2020 14:27
Il contributo di Fabio Vighi ha un suo valore a livello descrittivo, non esplicativo. Il suo limite è la mancanza (o mancata applicazione) della categoria di imperialismo, che lo rende sostanzialmente ipocritico. Siccome si tratta di una premessa fondamentale, poniamoci la seguente domanda:che cos'è l'imperialismo? Se ci si limita all'aspetto economico, che è però quello determinante, l'imperialismo è la concorrenza capitalistica sul piano internazionale. Lo scopo è l'appropriazione della ricchezza e del valore dai capitalisti delle nazioni dominate da parte dei capitalisti della nazione imperialista dominante. In realtà, di là da un approccio sovrastratturale caratterizzato dall'enfasi sulle nozioni di capitale fittizio e capitale finanziario, la caratteristica fondamentale dell'imperialismo non è il dominio del capitale finanziario su quello produttivo, perché il settore fondamentale dell'economia è quello produttivo di valore e plusvalore. Come osservano Marx ed Engels, il settore finanziario scaturisce semmai dalle contraddizioni inerenti al settore produttivo e i suoi profitti sono detrazioni dai profitti generati dal settore produttivo.
Dal canto suo, la storia contemporanea dimostra che l'imperialismo pratica diverse forme di appropriazione della ricchezza, delle quali quella che opera attraverso la competizione tecnologica è oggi la più importante. Sennonché, a differenza di ciò che affermano i vari Keynes e Graziadei redivivivi, questo non invalida affatto l'assioma marxiano secondo cui solo il lavoro vivo genera valore. E' vero che le innovazioni tecnologiche sono 'jobkilling' e che chi le introduce nel processo produttivo aumenta chiaramente il suo prodotto, ma occorre aggiungere, come insegna la marxiana critica dell'economia politica, che diminuisce il valore del maggiore prodotto. Per converso, gli altri capitalisti, disponendo di tecnologie meno avanzate, producono un prodotto minore ma incorporando in esso più valore. Siccome i prodotti dei vari capitalisti entro un dato settore vengono venduti, più o meno allo stesso prezzo, ai capitalisti di altri settori, gli innovatori si appropriano di una parte del plusvalore generato dai capitalisti tecnologicamente arretrati. In tal modo il saggio di profitto dei primi cresce a scapito di quello dei secondi, mentre, come dimostra Marx, scende il saggio medio di profitto. Precisa quindi Marx che il saggio di profitto cala non perché il lavoro è meno produttivo, ma perché è più produttivo. Tenendo conto del fatto che la situazione è dialettica (come dimostra l'ascesa della Cina), queste relazioni valgono anche nelle relazioni imperialiste fra paesi dominanti ed espropriatori e paesi dominati ed espropriatori. Infine vi è da considerare che, nel quadro della caduta del saggio mondiale di profitto, la competizione imperialista non può che diventare più acuta e le crisi, essendo la manifestazione della crescente debolezza del sistema, non possono che diventare anch'esse sempre più gravi e distruttive. In conclusione, senza la categora di imperialismo (e, bisogna aggiungere, senza un suo uso euristico e non rituale) la critica dell'economia politica ha le armi spuntate.
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carlo rao
Friday, 12 June 2020 18:31
Il tema posto qui dal Prof. Vighi è implicitamente quello di comprendere la natura del sistema capitalista a partire dalla sua espressione attuale di capitale fittizio. La questione è affrontata anche in un articolo di Visalli pubblicato nel sito poche ore fa, “Delle contraddizioni in seno al popolo: Stato e potere”, nel quale si delinea una ipotesi di ricerca sulla composizione delle classi sociali, e dove appunto commentavo che una plausibile risposta a come si caratterizzano oggi le classi nei paesi a capitalismo maturo non possa prescindere dalla natura “fittizia” del capitale finanziario / creditizio. Vighi si pone una domanda:
“Di fronte al dispiegamento di cotanta artiglieria monetaria, dovremmo chiederci di cosa sia sintomo questo colossale ricorso alla stampa di denaro.”
Penso sia sintomo di una caduta tendenziale del saggio di profitto, e lo dico brutalmente perché da lungo tempo è persino di moda contestare a Marx la colpa imperdonabile di aver svolto questa previsione (senza nulla togliere a chi fece anche obiezioni seriamente articolate a questa tesi); credo che Marx avesse ragione, ed una delle contromisure messe in campo dal capitale per contrastare tale caduta (perciò la definì solo “tendenziale”) la individuò proprio nel ricorso alla leva finanziaria e creditizia slegata dalla produzione di beni materiali, perciò definì “fittizia” la natura del capitale che ne deriva. Scrive Vighi:
“le politiche monetarie espansive hanno un impatto assai modesto sulla creazione di posti di lavoro e sul consumo, per la semplice ragione che non stimolano gli investimenti nell’economia reale”
In realtà ciò che stimola all’investimento è il tasso di profitto che l’investitore suppone di ricavarne: se è nettamente superiore nei molteplici giochi di borsa disponibili piuttosto che nella “economia reale”, sarà nei primi che indirizzerà il proprio capitale. E da tempo questa è la tendenza, in primo luogo delle banche. Se è normale che il singolo capitalista badi al proprio profitto senza preoccuparsi della natura del sistema in cui opera, quando è il “capitalista collettivo” ad indirizzarsi prevalentemente sull’aspetto fittizio delle transazioni finanziarie, questo può essere indice di una vera e propria crisi di sistema, ed il modo capitalistico va in crisi se perde il profitto, unico scopo del suo agire.
Ciò detto, la creazione dal nulla di massa monetaria non aumenta il credito erogato all’economia reale, come nota il Vighi, in quanto essa non è causa, ma effetto della richiesta di credito: la banca, in seguito alla decisione di concedere un credito RICHIESTO, crea una riserva monetaria adeguata all’entità del prestito erogato. La teoria secondo la quale è l’entità delle riserve a guidare la concessione di crediti mi pare sostanzialmente errata, basata com’è sull’idea assai poco credibile che la moneta è una entità esterna al sistema, da cui ne conseguirebbe che se ne possa usare una quantità a piacere (magari fosse così, direbbero gli argentini!). Qui si evidenzia la contraddizione insolubile, nel lungo periodo almeno, in cui suppongo cadrà il modo capitalistico finanziario / creditizio: da un lato avrebbe bisogno di una richiesta pressoché illimitata di credito, come domanda aggregata illimitata, ma dall’altro quest’ultima è fortemente limitata dalle disuguaglianze sociali / reddituali insite nel sistema capitalistico stesso. Se questa è la prospettiva, non è poi così singolare che alle ricorrenti crisi da bolle speculative si intreccino in un gioco di rimandi le altrettanto ricorrenti crisi di sovrapproduzione.
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Fabio Vighi
Friday, 12 June 2020 17:33
Caro Alfonso, grazie per il commento. Sull'ultimo punto hai ragione ma volevo essere ironico, visto che mi ero dilungato su quanto inutile fosse stampar moneta visto che il valore deriva dal lavoro salariato. Su Bill Gates che si adagia sul lusso, beh credo che il capitalista per definizione non sia in grado di adagiarsi nel lusso - il capitalista è sempre al lavoro, non riposa mai, cioè 'gode' solo nel lavorare per il profitto. Non c'e' altro godimento per lui che fare profitto.
Caro AlsOb, grazie. Mi pare che siamo d'accordo su tutto, incluse le ambiguità.
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AlsOb
Friday, 12 June 2020 15:03
Bell'articolo che offre interessanti spunti riflessivi e molto condivisibile nello spirito.
Vi sono tuttavia alcune imprecisioni logiche e tecniche riguardo l'analisi del capitalismo fittizio, cioè del compimento del capitalismo come capitalismo della moneta fittizia e del capitale fittizio, la cui definitiva affermazione come determinazione storico epocale si può inequivocabilmente ascrivere al 2008. Se da un lato ne viene infatti colta l'essenza qualificante relativa al progresso tecnico e alla riduzione dei lavoratori "produttivi" necessari le considerazioni sul ruolo della banca centrale e creazione di moneta fittizia sono un poco ambigue e contraddittorie Non circoscrivono limiitatatamente una misura emergenziale ma ne rappresentano una caratteristica permanente perché la quantità di moneta creata dal settore privato è sistematicanente insufficiente e non solo per la speculazione finanziaria ma per le spese del tesoro e più in generale per la realizzazione del valore di scambio. L',evento dirompente distruttivo virus, casuale naturale o artificiale che sia, accade in un contesto storico di capitalismo fittizio in cui sono già state delineate e introdotte specifiche politiche, il che ha favorito l'adozione di risposte e interventi minimamente ragionati e esenti da panico anche se data la struttura sociale e di potere la legalizzata criminalità finanziaria ne ha beneficiato a dismisura, frenando alcuni opportuni cambianenti e differenziate declinazioni.
Infine sostenere che non si creerebbe domanda effettiva e in parallelo temere l'iperinflazione è illogico
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Alfonso
Friday, 12 June 2020 07:32
Caro Fabio, permettimi di riprendere (sono pigro). Dici "la narrazione di un cataclisma naturale che nessuno poteva prevedere si presentava piuttosto semplice da imbastire, e di certo molto più conveniente della patetica ricerca di nuovi responsabili". Bill Gates dice che certo degli errori ci sono stati, ma ora bisogna rimboccarsi le maniche e andare avanti. Il movimento sociale a cui appartiene non gli chiede di adagiarsi sul lusso di non farsi carico della società. Se lorsignori non possono permettersi il lusso, noi men che meno,
Sono con te quando dici "perché ciò significherebbe portare sul banco degli imputati la nostra stessa partecipazione alla riproduzione di un modello sociale ormai palesemente auto-distruttivo". Appunto, al banco degli imputati. Come a Norimberga, questi che 'ma come potevamo noi..' oppure 'ho fatto solo il mio lavoro...' o anche 'sono solo un tecnico...' che figuriamoci 'ho seguito la scienza...' hanno nome e cognome, e forse stavolta non fanno neanche in tempo a ergersi a statue.
Una ultima cosa. Ho trovato un po' di confusione nell'uso di forza-lavoro e lavoro, almeno giusta Marx. Il valore è creatio ex nihilo del lavoro vivo: "Quando il valore economico viene creato ex nihilo dalle banche centrali..." non è valore, non ti pare? Grazie
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