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È in atto una "de-globalizzazione"?

di Prabhat Patnaik*

Pignatelli ottobre 2019defMolti economisti parlano oggi di un processo di "de-globalizzazione" in atto; altri parlano del fatto che il regime neoliberista di un tempo non esiste più. Certo, nulla rimane uguale per sempre: come diceva il filosofo greco Eraclito "Non si può entrare due volte nello stesso fiume"; qualche cambiamento nell'ordine neoliberale è quindi inevitabile con il passare del tempo. Ma il punto vero è: la cornice analitica utilizzata per comprendere la realtà economica del mondo contemporaneo, al fine di cambiarla, è diventata obsoleta e quindi necessita di una seria revisione?

La "globalizzazione", va ricordato, non ha mai significato che i diversi Paesi del mondo si riunissero volontariamente per creare un ordine globale che fosse reciprocamente vantaggioso. Oggi quasi 50 Paesi del mondo sono oggetto di "sanzioni" di vario tipo; ad essi viene impedito con la forza di accedere a beni essenziali, tra cui in alcuni casi medicinali salvavita, dal mercato globale. E il numero non era molto inferiore un decennio fa, quando la "globalizzazione" era universalmente riconosciuta come in pieno svolgimento.

La "globalizzazione" ha quindi sempre avuto un significato molto diverso da quello che le viene comunemente attribuito. Significava l'avvento di una fase del capitalismo in cui il capitale, compresa soprattutto la finanza, si era globalizzato aprendo le economie alla sua circolazione illimitata; aveva così limitato la capacità dello Stato nazionale di intervenire in modi che la finanza non approvava; e questo capitale globalizzato aveva goduto dell'appoggio, nelle sue operazioni globali, soprattutto degli Stati metropolitani, e di altri Stati per difetto. Questi Stati metropolitani, in particolare gli Stati Uniti, decidevano su quali Paesi imporre sanzioni, e gli altri si allineavano.

La "globalizzazione" rappresentava quindi una reimposizione dell'egemonia imperialista occidentale sul mondo intero, escludendo i Paesi socialisti, ma includendo i Paesi che erano stati decolonizzati intorno alla metà del XX secolo e che avevano adottato, pur promuovendo lo sviluppo capitalistico, strategie dirigiste di vario tipo; significava, in altre parole, la rottura di qualsiasi autonomia relativa nei confronti dell'imperialismo all'interno del terzo mondo non socialista. A complemento della mobilità illimitata del capitale, la "globalizzazione" ha significato anche una circolazione relativamente illimitata di beni e servizi attraverso i confini nazionali (ad eccezione, ovviamente, dei Paesi sottoposti a "sanzioni").

Durante questo periodo di "globalizzazione" sono emerse nuove potenze economiche, dalle quali le potenze imperialiste occidentali si sentivano minacciate. Tra queste, la Russia, che ha ereditato la massiccia base produttiva costruita dall'Unione Sovietica e che le potenze occidentali pensavano di aver sottomesso, fino a quando non ha riaffermato la sua forza dopo che Boris Eltsin ha lasciato il suo incarico; e la Cina, che, pur rapportandosi alla "globalizzazione" alle proprie condizioni piuttosto che a quelle dettate dalle potenze occidentali, ha assistito a rapidi tassi di crescita grazie, tra gli altri fattori, all'accesso al mercato di cui godeva nel mondo capitalistico metropolitano.

Ora, la Russia è stata sottoposta a "sanzioni" dopo la guerra in Ucraina; e il commercio del mondo occidentale con la Cina è diminuito in una certa misura, a causa del deliberato sforzo politico di ridimensionarlo. Nel caso degli Stati Uniti, tale sforzo è stato motivato da diversi fattori, dalla protezione dei posti di lavoro interni (anche se buona parte delle importazioni statunitensi dalla Cina sono prodotte da investimenti diretti esteri degli Stati Uniti) al forte desiderio di non dipendere troppo da essa; nel caso di altri Paesi metropolitani c'è il fattore aggiuntivo della pressione statunitense. Di questi fattori, tuttavia, il desiderio di non essere troppo dipendenti dalla Cina è stato quello di gran lunga più decisivo.

La preoccupazione degli Stati Uniti per la rapida crescita delle importazioni dalla Cina è iniziata all'epoca di George Bush Jr. che ha cercato di convincere i cinesi ad apprezzare il tasso di cambio dello yuan rispetto al dollaro; è proseguita sotto Obama che ha penalizzato le imprese statunitensi che delocalizzavano la produzione all'estero. Ma è stato Donald Trump a imporre tariffe per proteggere la produzione nazionale dalle importazioni dall'estero; la Cina è stata il principale bersaglio di queste tariffe.

Due esempi sottolineano la motivazione prevalentemente politica alla base del ridimensionamento occidentale del commercio con la Cina. L'Unione Europea ha proposto una regola secondo la quale i pannelli solari da utilizzare per la decarbonizzazione dell'Europa non dovrebbero essere importati da nessun Paese che detenga più del 65% della quota di mercato; questa regola ha il solo scopo di escludere la Cina che detiene l'85% del mercato a causa del prezzo estremamente basso dei pannelli che fornisce. L'Europa, insomma, è disposta a pagare un prezzo molto più alto per i pannelli solari solo per tenere fuori la Cina, una decisione motivata interamente da considerazioni geopolitiche.

Allo stesso modo, il divieto dell'amministrazione Biden di esportare semiconduttori in Cina, imposto contro il volere delle aziende statunitensi e che rappresenta una grave minaccia per le industrie high-tech cinesi, tra cui la tecnologia militare e l'intelligenza artificiale, è motivato esclusivamente da considerazioni geopolitiche, dal puro desiderio di mantenere la Cina economicamente e tecnologicamente paralizzata. In altre parole, anche se al momento non ci sono sanzioni esplicite contro la Cina, stiamo assistendo a un'imposizione implicita di sanzioni, sia in preparazione di un momento futuro in cui ci saranno sanzioni esplicite, sia per il puro desiderio di paralizzare la Cina.

La cosiddetta "de-globalizzazione" si riferisce in effetti a questa nuova tendenza delle potenze occidentali a discriminare la Cina, al loro desiderio di non dipendere troppo dalla Cina. Lo sforzo è essenzialmente quello di diversificare le relazioni commerciali dalla Cina ad altri Paesi, anche se tale diversificazione si rivela più costosa; il recente calo dell'entità degli scambi commerciali degli Stati Uniti con la Cina ne è una conseguenza. È come se la Cina venisse aggiunta all'elenco dei Paesi soggetti a sanzioni occidentali.

È interessante notare che non c'è stato un vero e proprio declino dei parametri a livello macro, come il rapporto tra le importazioni mondiali totali e il PIL mondiale, che alcuni economisti hanno utilizzato come proxy per misurare la portata della "globalizzazione". Ciò che si riscontra attraverso tali misure è un rallentamento del progresso della "globalizzazione", ma non una sua inversione.

Come abbiamo detto in precedenza, tuttavia, nella nostra percezione la "globalizzazione" non si riferisce tanto al fenomeno di una maggiore dipendenza dei Paesi gli uni dagli altri, quanto piuttosto a una relazione di potere. Questo potere si esercita tanto attraverso le "sanzioni" imposte a determinati Paesi quanto attraverso l'attrazione di questi ultimi nel vortice della "globalizzazione". L'esercizio di questo potere è il segno distintivo dell'imperialismo. Le "sanzioni" sono un sintomo della spietatezza dell'imperialismo tanto quanto la "globalizzazione" che comporta l'egemonia del capitale globalizzato. In altre parole, la cosiddetta "de-globalizzazione" non è una negazione della "globalizzazione", ma un suo complemento.

Il capitale globalizzato proviene in modo preponderante dalle metropoli ed è legato al funzionamento degli Stati metropolitani. L'egemonia del capitale globalizzato è quindi ipso facto l'egemonia degli Stati metropolitani, esercitata sui popoli del mondo, e in particolare sui popoli del terzo mondo. La "globalizzazione", che può avere il sostegno della grande borghesia del terzo mondo e persino dei segmenti superiori del salariato e delle classi professionali, comporta necessariamente la soppressione degli operai, dei contadini e dei piccoli produttori del terzo mondo.

La prassi per superare il loro asservimento non è diversa da quella di un decennio fa. Qualsiasi miglioramento delle condizioni dei lavoratori richiede l'intervento dello Stato, che deve avere il margine di manovra necessario per intervenire senza essere schiacciato dalla paura della fuga dei capitali. Ma finché il Paese rimane intrappolato nel vortice dei flussi di capitale senza restrizioni, lo Stato non può acquisire questo spazio. Il controllo dei flussi di capitale diventa quindi necessario per qualsiasi intervento statale progressivo.

In altre parole, un miglioramento delle condizioni materiali del popolo non richiede solo un cambiamento nella natura dello Stato, cioè il suo essere basato sul sostegno degli operai e dei contadini, ma richiede anche un distacco dall'universo dei flussi di capitale illimitati. Il sostegno dei lavoratori da solo non è sufficiente; il controllo dei flussi di capitale è anche essenziale se si vuole seguire una serie di politiche a favore del popolo, anche se tale controllo può attirare "sanzioni" imperialiste.

Questo è vero oggi come dieci anni fa. La cosiddetta "de-globalizzazione" di cui parlano alcuni economisti non cambia di una virgola l'assoluta necessità di affrontare l'egemonia del capitale globalizzato, dietro il quale si trova la falange degli Stati metropolitani.


* peoplesdemocracy-in

Traduzione per Resistenze.org a cura del Centro di Cultura e Documentazione Popolare

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