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quieora

Lettera agli amici del deserto

di Marcello

mm 2000x1200Miei cari amici, mie care amiche,

poche cose come lo scrivere delle lettere ai propri più cari amici di una vita è più confortante in momenti come questo. Spero che questa mia vi trovi bene, e belli come io vi porto dentro di me. Alcuni di noi staranno vivendo con maggiore sofferenza questi giorni ma l’amicizia, cioè l’essere più prossimi di qualsiasi prossimo, fa sì che possiamo condividerla e perciò alleggerirla se lo vogliamo. Semplicemente perché, in virtù dell’amicizia, siamo portati senza sforzo a vivere con la vita dell’altro. In questa clausura che ci è toccata, dobbiamo restare aperti come non mai al vento dell’amicizia che è capace, come sappiamo, di soffiare al di là di ogni distanza.

Come forse avrete anche voi avuto modo di notare ci troviamo, a seconda dei nostri paesi, da qualche giorno o settimana tutti ridotti alla quarantena in un tempo che, per un caso che ha qualcosa di perturbante, è anche quello della quaresima. Tempo tradizionalmente di introspezione, di rinunce e infine, forse, di riconciliazione. E siccome, chi mi conosce lo sa, ho sempre pensato che non esiste «il caso» ma che questo è solo una maniera di rassicurarci, una superstizione attraverso la quale ci costringiamo a credere che ciò che accade, il modo in cui accade, non abbia alcun significato per noi, ho pensato che questa coincidenza faccia parte dei segni dei tempi che sono qui e che siamo chiamati a interpretare.

Nei Vangeli si racconta che in quel tempo Gesù fu «spinto» dallo Spirito nel deserto per quaranta giorni e lì, nel tempo dell’ascesi, subì le tentazioni del demonio.

È un topos che si ritrova in varie storie narrate nell’Antico testamento, a partire naturalmente dall’avventurosa traversata del popolo ebraico per sfuggire alle persecuzioni. Storie diverse ma tutte facenti segno al carattere di «prova» che il deserto è. Naturalmente nella vita di ciascuno di noi è accaduto di attraversare dei periodi desertici. Non sempre è andata bene e ne portiamo le cicatrici, almeno questa è la mia esperienza. Ma quelle volte nelle quali ne siamo usciti più forti sono quelle che, a pensarci bene, ci permettono di essere ancora vivi. La cosa eccezionale è che ogni tanto accade, come adesso, che la prova sia allo stesso tempo individuale e collettiva, fino a coinvolgere interi popoli se non l’intera umanità.

Noi che abbiamo sempre scrutato lo scorrere inesorabile della storia cercandovi i segni dell’evento che la interrompesse, non possiamo allora tirarci fuori dinnanzi a quello che è in corso. Un evento enorme per il quale ci rendiamo conto di non avere abbastanza parole per dirlo. Deserto è infatti anche l’assenza di parole, di discorsi, di confortevole ridondanza dei suoni. D’altra parte in ebraico il termine che sta per “parola”, dabar, e quella che sta per “deserto”, midbar, hanno la stessa radice, tanto da poter supporre che il fatto che il deserto è un luogo privo di parole sia, proprio per questo, quello maggiormente adeguato alla rivelazione della Parola in quanto evento. La prima cosa da fare dunque è mettersi in ascolto, fare abbastanza pulizia dentro di sé per poter accogliere l’evento. Ma per ascoltare che cosa? In una intervista ad una monaca che ho letto di recente, questa dice che l’obbedienza bisogna intenderla nel suo senso etimologico, da ob audire, cioè «ascoltare dinnanzi, di fronte a». «Ascoltare la realtà» è il vero senso dell’obbedire ne conclude lei dalla sua clausura. Credo che sia un esercizio del genere che questo tempo ci richiede.

Nel deserto non vi sono strade, camminamenti già segnati da percorrere: è compito di chi l’attraversa orientarsi e ricavarne una via che lo porti fuori. Non vi sono negozi, non vi sono fonti d’acqua, non vi sono piante e tutto appare immobile perché nel deserto non c’è produzione, non vi sono bar e non vi sono centri sociali, non vi è niente di ciò che diamo per scontato debba esserci per essere considerato un posto «vivibile». Infine si può dire che non vi è niente di umano e perciò nel libro del Deuteronomio si dice che nel deserto vi è una solitudine urlante. Lo so, lo so bene che molto di questo tempo che stiamo vivendo sembra fatto essenzialmente di questo urlo e di questa disumanità e capisco la sfiducia e l’orrore dal quale a volte siamo catturati e che ci induce a disperare. La volgarità di molta della “musica” che viene sparata in Italia dai balconi in questi giorni al cominciare della sera non riesce a coprire quell’urlo ma è lui che copre tutto e infatti, dopo l’euforia dei primi giorni, è un rito che sta già scemando: in molti comprendono che c’è qualcosa che non suona giusto. Riportare quell’urlo a essere un canto spetta alla nostra sensibilità, cioè al nostro accordarci all’evento. Non dobbiamo rotolare nella disperazione né irrigidirci nella negazione. Molti sono i modi di disperare e di negare e spesso appaiono come il loro contrario nell’agitazione di cui sono fatti e che trasmettono: non facciamoci ingannare. Ascoltiamo il canto della realtà, appunto.

Bisogna pensare che, sempre in quei vecchi libri, si racconta che il giardino dell’Eden fu la prima vittoria sul caos desertico, esso fu piantato infatti al centro di dove non c’era nulla, né cespugli né erba, né fiumi né altro. Ed è in effetti rimasto indimenticabile, quel giardino, come promessa di felicità a cui tendere: un luogo d’abbondanza dove non c’è lavoro e sfruttamento e tutto è in equilibrio con tutto. I popoli nei loro momenti migliori hanno creduto che solo questa fosse un’esistenza degna. Vincere nel e sul deserto allora vuol dire nient’altro che accedere alla possibilità di una vita più vera, più ricca, più felice e perciò più libera.

Ognuno di noi in questo preciso attimo sta vivendo la sua propria prova e non è facile distinguere quella sopportata dal corpo da quella dello spirito, come solitamente tendiamo a fare. Magari è l’occasione, questa e non un’altra domani o chissà, di poter riunire quello che di solito siamo portati a considerare come scisso. Lo sapete meglio di me, la nostra è stata da cima a fondo la civiltà della scissione: non permettiamogli adesso di approfondirla ancora e ancora.

Il deserto è il luogo proprio della krisis, nel senso originale di questa antica parola greca che continua ad ossessionarci: scelta e decisione. Non pensate dunque anche voi, amici miei, che oggi siamo stati tutti «spinti» esattamente in quel luogo? Non è venuto forse per tutti noi il tempo inderogabile della decisione?

E non pensate che sia una decisione che dovremmo prendere insieme a partire da sé, e non ciascuno per sé senza tener conto degli altri?

Il deserto di cui parlo è il luogo della prova non perché sia uno spazio vuoto, bensì perché privo di tutte quelle cose che arredano artificiosamente le esistenze, tutto ciò che le facilita e che le lusinga: è privo cioè delle distrazioni che quotidianamente impediscono a ciascuno di contemplare la propria vita con chiarezza. Il deserto è dunque quel luogo che permette di meditare, concretamente, sulla propria vita nel mondo a partire da un luogo fuori del mondo nel suo significato più vero: libero dal superfluo, da tutto ciò che abbiamo creduto necessario e che invece improvvisamente, adesso lo sappiamo definitivamente, non lo è perché non lo è mai stato. Per contro il deserto ci fa provare il desiderio di tutto ciò che manca veramente alla nostra vita. Lungo il cammino che ci apriamo faticosamente dentro di lui sentiamo allora l’assenza della comunità, quella della giustizia, quella della gratuità, quella della vera salute e, certo, sentiremo anche la mancanza di quella persona che abbiamo escluso dalla nostra intimità senza comprendere bene perché o dalla quale siamo stati esclusi e che però, misteriosamente, continuiamo ad amare. Sete d’amore? Dire di sì, in ogni senso possibile. Uno tra voi, tanto tempo fa, mi disse che non si poteva né aveva senso fare qualsiasi cosa insieme se non ci si fosse voluti almeno un po’ di bene. Non il bene astratto dell’ideologia, ma proprio quello corporeo e spirituale che si prova a contatto. Certo, comprendere in cosa consista questo bene non è sempre stato facile e spesso invece che il bene ci siamo fatti il male. Infatti i pochi esseri che abitano stabilmente i deserti sono sempre pericolosi: iene e demoni. Di Gesù però dicono che alla fine della prova anche le fiere gli stavano accanto come fossero agnelli (l’Eden!). Dobbiamo allora cogliere il momento per riuscire una buona volta a comprendere che cosa significa amarci l’un l’altro senza utilizzare i sotterfugi, le mediazioni assurde e l’ipocrisia con cui ogni volta ci siamo passati sotto o sopra. Ho l’impressione, la certezza, che nel momento in cui toccheremo questa realtà e le obbediremo allora sì che «saremo tutto».

È perciò che il deserto è quel luogo in cui, attraverso la meditazione e la prova, si forma in modo duraturo lo spirito forte di un nuovo inizio. Oggi abbiamo la possibilità non di ripetere un rituale come fosse una parentesi alla fine insignificante per noi e per il mondo – e di rituali stanchi e inutili, lasciatemelo dire, ne siamo grandi esperti – ma di sfondare finalmente la membrana della Storia che ci tiene prigionieri di un sogno malefico. Andare oltre, come ci ha spesso ripetuto un vecchio saggio. In questo momento andare oltre significa andare ben al di là della pandemia, vuol dire andare tutti insieme su di un altro piano dell’esistenza.

Temprati dal deserto, con la forza spirituale acquisita attraverso le privazioni e la sfida vittoriosa con i demoni, ci potremo ripresentare nel mondo con una potenza nuova che non è del mondo, quella che ormai sa – come dice Gesù al demonio che lo tenta una prima volta – che non si vive di solo pane, ma con e attraverso la Parola. La quale è più materiale della materia. Le tentazioni a cui viene sottoposto il Cristo sono quelle di sempre: possesso, potere, manipolazione. Materia che è meno della materia. Sono quelle contro le quali abbiamo sempre lottato: per questo siamo infatti diventati amici, ve lo ricordate?

È quella Parola che ci sta lavorando in questi giorni, ognuno nel suo luogo, ognuno nella sua clausura, ognuno nel suo deserto, ognuno con una fatica diversa. Luoghi che possono essere quelli di una riconquistata intimità e che però, tutti insieme, stanno creando un unico enorme deserto che è come un gigantesco incontro con la realtà. Poiché il deserto di cui parlo non sono le strade vuote della metropoli, che è sempre vuota e triste anche quando è piena e tutto vi scorre velocemente e che fa ammalare, ma lo spazio selvatico che ci espone alla Parola e dentro il quale lottiamo uno per una contro le tentazioni. Conosco quasi tutte quelle che in questi giorni immagino assalgono la maggior parte tra voi perché sono state e in parte sono ancora anche le mie. Sapete a cosa mi riferisco. Un insegnamento decisivo del Gesù nel deserto è però quello che sostiene che non si dialoga col demonio, mai, perché una volta che hai accettato di farlo, per quanto ti ritieni furbo ne resterai prigioniero: il suo discorso, la sua retorica, la sua arte della seduzione sono altrettante sbarre che si chiudono attorno a te. Quante volte abbiamo visto quelle sbarre allontanare per sempre da noi dei vecchi amici…

Le nostre abitazioni giorno dopo giorno si stanno trasformando in frammenti di una landa desertica, con i suoi animali selvaggi, con il suo silenzio profondo, lui sì abitabile come non mai, e con le sue presenze, quelle che di solito non scorgiamo perché troppo indaffarati con una miriade di cose per la maggior parte inutili. La sfida è riconoscere la presenza giusta, quella buona, quella che guarisce, e scacciare quella cattiva, quella che ti fa ammalare, quella che ti mente per farti mentire, quella che ti intima di inginocchiarti davanti a lei in cambio di più potere, di più cose, di più mondanità, di più riconoscimento, di più, di più, di più… Il deserto fa vedere il possibile e l’impossibile.

Il deserto è infatti il luogo che raggiunsero i primi monachoi, i «solitari», quelli che si allontanarono da un impero di decadenza e di ingiustizia prima in pochi e che poi, mese dopo mese, anno dopo anno, divennero centinaia e poi migliaia e iniziarono così a vivere insieme, gruppo per gruppo, nel cenobio, parola che non vuol dire altro da quello che pure noi abbiamo sempre inseguito: luogo di vita in comune. Anche allora, come oggi, fu dunque una prova che riguardò i singoli come la collettività. E attorno ai cenobi si formarono così altre comunità e delle città infine, che dai cenobi ricevevano la forza spirituale. Da quei solitari che riuscirono a vedere, dal loro ritirarsi nel deserto, da quelle comunità dove tutto era in comune, nacque così una nuova civiltà. Quella che nei secoli si è poi perduta perché ha perduto il contatto con la sua verità e si è da tempo inginocchiata davanti ai demoni del capitalismo, e che oggi sta spirando. La questione è che vuole portarci con sé, nel suo inferno.

Questa civiltà non finisce a causa del coronavirus, credo bene che sia a tutti chiaro che ne è solo un epifenomeno, ma per la sua arroganza, per la sua insaziabile rapacità, per la sua ingiustizia, per aver trasformato il mondo in una gigantesca fabbrica di morte. Cos’altro mai poteva partorire se non il demone della distruzione totale, una civiltà che ha innalzato il denaro a idolo assoluto e il potere a fine ultimo di ogni cosa ed esistenza?

Una volta usciti dall'”emergenza” e dal nostro deserto, perché dobbiamo sempre considerare come transitorio il dimorare presso di lui, non dobbiamo permettere che sia stata solamente una parentesi, piena di sofferenze e di morte o anche di scoperte e di momenti memorabili, alla quale succede il ritorno alla normalità di prima, perché è esattamente quella che ci ha portati al punto dove siamo e che non può continuare che in quanto approfondimento della distruzione. E comprendo in questa normalità del prima anche i nostri modi di vivere, o meglio di sopravvivere e di illuderci. Lo vedo che in molti tra noi stanno disperatamente cercando di riaffermare la propria normalità. Non va bene, in tutta amicizia: non ne vale la pena.

Ma dobbiamo fare attenzione anche alla normalità del dopo, quella che ci presenteranno come la nuova necessità fatta di divieti, di assenza di libertà e di rinnovato egoismo, tutto per il nostro bene. O quella che improvvisati profeti ci indicheranno come essere la stoffa del nuovo mondo, uguale a quello di prima solo con dei differenti governatori.

Bisognerebbe invece che ripetessimo il gesto di separazione dei primi monachoi: fare secessione dalla decadente civiltà della distruzione, costruire i nostri cenobi, le nostre comuni. Ci ho molto pensato nei tempi recenti sul perché non lo abbiamo ancora fatto, sul perché non ne siamo stati capaci, su cosa ci ha impedito finora di riprovare ancora e non ho saputo darmi molte risposte soddisfacenti. Qualcuno tra voi magari riuscirà a suggerirne qualcuna. Io forse ne comincio a intravedere alcune che non avevo ancora considerato. Ma in ogni caso questo tempo in cui siamo stati «spinti» dallo Spirito merita, io credo, una risposta vera. Da noi. Quella che potrebbe venire dal silenzio che stiamo abitando, dalla solitudine che stiamo vivendo, dal male contro il quale stiamo lottando. Cosa faremo, cosa vedremo, quando usciremo dal deserto?

Il Nazareno una volta venuto fuori dal deserto annunciò che il Regno era ormai vicino. Ho sempre interpretato quel vicino non nel senso temporale di un futuro non troppo lontano e che nessuno giustamente è mai riuscito a calcolare, ma di qualcosa che abbiamo o che ci ritroviamo accanto, come si dice del nostro prossimo appunto. Su questa vicinanza non credo abbiamo bisogno di molte altre parole per capirci.

Vi abbraccio e spero di avere presto vostre notizie,

vostro,

Marcello

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