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lacausadellecose

Il razzismo nell’uomo capitalistico occidentale

di Michele Castaldo

fire 1899824 1920All’indomani delle mobilitazioni per la morte di George Floyd negli Stai Uniti, del funerale in pompa magna, degli inni di rito, delle migliaia di arresti e di centinaia di feriti, tentiamo un minimo bilancio e una breve riflessione sulla questione del razzismo.

Che ancora ai giorni nostri si possa uccidere un uomo, per un presunto biglietto di venti dollari falso, mentre grida al poliziotto bianco, che gli comprime il ginocchio sulla carotide di non riuscire a respirare, appare ai più qualcosa fuori dal mondo, del mondo civile s’intende, il mondo occidentale, civile per eccellenza, come i popoli d’Europa, i primi “civili” e civilizzatori della storia moderna. Dunque negli Usa accadono tuttora fatti esecrabili, di chiaro stampo razzista, un marchio di fabbrica moderno che rimuove le delicatezze dei rapporti degli europei del passato, oltre che del presente, nei confronti del resto del mondo. Se poi accadono sotto la presidenza di un fenomeno da baraccone come il rozzo Trump, beh tutto si spiega. Come dire? Questi americani non riescono proprio a superare un certo stadio di primitivismo nei confronti degli uomini di colore.

Per non appesantire la lettura di queste poche note raccontiamo un piccolo episodio capitato in una scuola elementare di Roma, dove una bidella che lavorava in un liceo, viene invitata a recarsi presso l’istituto dove la figlia di 9 anni frequentava la quarta classe e aveva dato della «sporca negra» a una bambina di colore sua coetanea nella stessa classe, che invece di piangere l’aveva strattonata e tirandola per i capelli l’aveva sbattuta a terra. La bidella si precipita all’istituto e cerca di spiegare alla propria figliola che non bisogna essere razzisti e indicando la bambina di colore dice: «vedi lei ha due mani, due piedi, due braccia, due gambe e una testa, proprio come te. E’ colpa sua se è nera?».

Dunque per una mamma di Roma, della Caput mundi, della «Città aperta», della «Città eterna» una donna del popolo, che vuole insegnare l’antirazzismo alla propria figlia, essere “nera” è una colpa. Non sarà colpa della bambina, certamente no, ma è una colpa essere neri.

Si tratta di un sentimento presente solo in minima parte nella società? Non siamo ipocriti, perché le cose sono un poco più complicate di come spesso le vogliamo raccontare. Come si è sedimentato questo sentimento di superiorità? Da dove trae origine? A quali leggi obbedisce oggi e a quali leggi ha obbedito per oltre cinque secoli? Visto che niente nasce da niente.

Ora è ormai luogo comune identificare nel fascismo e nel nazismo, per le leggi razziali, e in alcuni autori del ventesimo secolo, fra i quali spicca Alfred Rosenberg con Il mito del XX secolo del 1930, il focolaio teorico, politico e culturale, per così dire, della nascita del razzismo. Ma prima vi erano già stati autori come Arthur de Gobineau, con Saggio sulla disuguaglianza delle razze umane, (1853-1855) e Houston Stewart Chamberlain, con I fondamenti del diciannovesimo secolo (1899), dunque un inglese e un francese, che avevano teorizzato la differenza razziale e la superiorità della razza bianca nei confronti di altre razze e in modo particolare di quella nera.

Quanto alla nostra Italia e alla nostra “brava gente”, dovrebbero essere ancora vivi i ricordi delle “gesta” in Libia, Somalia, Eritrea ed Etiopia o Albania e Grecia in ordine di tempo. La toponomastica italiana è piena di ricordi coloniali “eroici”, non ultimo quello per i morti di Nassiriya.

Il materialista non dice, come i cattolici cristiani «In principio erat verbum», cioè la parola, ma afferma con Goethe che «In principio era l’azione». Dunque per spiegare quello che viene teorizzato dopo, sarebbe necessario un exursus storico per poter dimostrare come l’azione delle potenze europee e occidentali, cioè della razza bianca nel suo insieme, nei confronti dei popoli del sud del mondo, che hanno sancito con la forza e la brutalità il dominio economico di sfruttamento e di oppressione che ha trovato poi, cioè dopo secoli di dominio, in alcuni autori, l’espressione “scientifica” e “culturale” sulla differenza delle razze e la superiorità di quella bianca contro cui i popoli di colore si battono per essere ritenuti uguali e avere una uguaglianza di diritti.

Un giovane d’oggi che guarda distratto la televisione, mentre mangia un panino e legge un sms sul telefonino, e sente che in diverse città degli Usa gruppi di dimostranti hanno abbattuto le statue di Cristoforo Colombo, difficilmente è stimolato allo studio della storia dietro cui si nasconde quel gesto. Un gesto ricco di significati, un atto che segna una rottura, si spera, definitiva con un passato criminale che non potrà più tornare. Allora a quel disinvolto giovane, che nel frattempo avrà finito di mangiare il panino e anche a certi intellettuali, che ritengono il razzismo un fatto culturale, gli leggiamo solo poche righe che scrive Cesare Acutis nell’introduzione al libro di Bartolomé de Las Casas, Brevissima relazione della distruzione delle Indie: «Già Colombo aveva fatto ricorso alla forza per affermare la propria autorità nelle prime isole scoperte, e non aveva esitato a fare schiavi gli indiani che riteneva di mala natura o che rifiutavano il dono della sua civiltà. Ma fu soltanto dopo di lui che la violenza venne istituzionalizzata, e con questa lo sfruttamento spietato della mano d’opera indiana, soprattutto con il lavoro coatto nelle miniere» (mio il corsivo).

Ci sarebbe da aprire qui una parentesi sull’influenza che ebbero certi virus portati dagli europei che infettarono gli indigeni e ne decimarono la popolazione, ma ci inoltreremmo su un terreno complesso che ci distaccherebbe dall’osso che vogliamo rosicchiare in queste note. A tale riguardo, per le persone oneste, basta e avanza la tesi esposta da Laura Spinney nel suo 1918 L’influenza spagnola: «A lungo gli storici hanno ignorato l’importanza delle malattie infettive come attori della storia».

«Tra l’altro», scrive il compianto Silvio Serino in L’uovo di Colombo e la gallina coloniale, pubblicato poco prima che il tumore lo uccidesse, «andrebbe preso in esame teorico il fatto che il ruolo del lavoro schiavizzato non solo non accennò a ridursi con l’avanzata della modernità, ma ebbe a crescere, sia sotto il profilo quantitativo che qualitativo, proprio nel periodo della rivoluzione industriale che liquidava i residui feudali in Europa e metteva in secondo piano il carattere predatorio del primo colonialismo. Storici e demografi concordano sul fatto che il 25% circa degli schiavi fu importato in America nel periodo 1500-1600, il 65% circa nel periodo 1701-1810».

Erano, gli europei di allora, una razza superiore? Dobbiamo a loro i privilegi della nostra civiltà, del nostro benessere e della nostra cultura d’oggi? Certamente sì per brutalità e criminalità. Dunque se sono questi i parametri che fanno una razza superiore, ebbene gli europei erano e furono superiori. Sicché non fa meraviglia che uno storico come Emilio Gentile possa scrivere, ancora oggi, nel suo Ascesa e declino dell’Europa nel mondo1898-1918 (Garzanti, 2019, p. 24) che «Per esaltare maggiormente la superiorità della modernità trionfante […] erano messi in mostra esemplari di popolazioni indigene con i loro costumi, che si esibivano in riti e danze tradizionali, mentre nella Esposizione coloniale francese erano documentati i benefici che il colonialismo apportava alle razze inferiori» (il corsivo è mio).

Erano gli indigeni indiani una razza inferiore? Certamente che si, dopo tre secoli almeno di dominio e di rapina coloniale furono resi certamente inferiori. A che scopo? Ecco il punto cruciale su cui cerchiamo di incentrare la nostra riflessione e quali risvolti ci pone oggi una questione così bruciante. Il razzismo nasce e si sviluppa con la scoperta dell’America, con l’occupazione delle colonie per estrarre le materie prime utilizzando la mano d’opera locale a costo zero. Una storia cominciata allora e che si è perpetuata a fino a oggi, e che prosegue con i morti nel mare “nostrum” per mettere gli immigrati contro i lavoratori autoctoni, per ridurre il costo della manodopera e tentare di competere con le economie emergenti come quelle dei paesi asiatici. E se dovessimo fare un paragone sul perché, il più grande di essi, la Cina, non arrivò allo sviluppo industriale nello stesso periodo dell’Inghilterra e della Francia, tanto per fare un esempio, la ragione vera va ricercata nel fatto che la Cina non solo non si avventurò in azioni coloniali ma che dovette subire e sconfiggere la guerra dell’oppio proprio contro l’Inghilterra, tanto per essere chiari. Dunque gli europei avevano alle spalle un’accumulazione (per così dire originaria) causata dalla rapina coloniale, la Cina no. Tutte le altre questioni, più o meno casuali, sono del tutto secondarie, resta il fattore determinante, quello del colonialismo, il cui risvolto “culturale” è il razzismo sedimentato nella razza bianca fin sotto pelle anche delle classi proletarie, come negli ultimi 60 anni, in tutto l’Occidente, a seguito delle rivoluzioni nel Nord Africa e in tutto il Medio Oriente, come quella iraniana o quella del popolo iracheno di Saddam Hussein con l’annessione del Kuwait. Basterebbe leggere gli sprezzanti scritti contro gli arabi della signora Oriana Fallaci, tanto per non andare troppo lontano, oppure l’ultimo arrivato in ordine di tempo, nel 2007, il biologo molecolare James Dewey Watson, tra gli scopritori della struttura del DNA, il quale dichiarò che gli africani presentavano un'intelligenza differente rispetto alle altre razze; parole che ebbero un ampio risalto internazionale.

La storia ha una memoria lunga, molto lunga e i fatti delle ultime settimane negli Usa stanno a dimostrare che è in atto un vero e proprio bradisismo non culturale, come i furbi tendono a far credere, ma un moto che smuove dalle fondamenta l’attuale modo di produzione. L’uccisione di George Floyd, al di là della casualità – tutto accade a caso ma non per caso – è il sintomo di una accelerazione delle tensioni sociali causate dal Covid-19 che a sua volta è il sintomo di una accelerazione dell’accresciuta concorrenza delle merci nel forsennato meccanismo di un modo di produzione irrefrenabile.

Sicché il fenomeno da baraccone, il presidente Trump, non è sceso da un altro pianeta, è espressione di una parte di quell’America sociale più arrogante e più prepotente contro un’altra parte meno arrogante e meno prepotente, fra cui una quota consistente di uomini di colore, nei confronti dei quali si scaricano tutte le tensioni di una crisi economica, sociale e politica dove l’espressione brutale della forza dello Stato, cioè la polizia a maggioranza bianca e non a caso, è autorizzata a uccidere.

Ma la storia non procede in modo lineare, spesso inciampa su un “caso”, «chiamalo caso?!» direbbe Totò, e il rischio maggiore, scrive Maurizio Molinari (uno che di certe cose se ne intende) è che «il fallimento del sogno di Obama assuma dimensioni tali da minacciare l’eredità di Abramo Lincoln e Martin Luter King, travolte da un’avversione per il prossimo che è la negazione dei principi e dello spirito della Costituzione americana». Una Costituzione, ricordiamolo, nata a seguito di un lunghissimo periodo di dominio schiavistico durato fino al 1865 e proseguito in forme diverse fino agli anni ’60 del ventesimo secolo. Oggi quel lunghissimo periodo di umiliazioni, di oppressione e di sfruttamento presenta il conto. Insomma Molinari teme che questa crisi possa scatenare una vera e propria guerra civile. Si rassegni il signor Molinari, quel “sogno di Obama” è svanito per sempre, il risveglio è sotto i nostri occhi.

Qual è dunque il timore che pervade l’America bianca, compresa la parte operaia che di fronte alla crisi si ritrae col capitale e vota Trump? Un’America egoista che si illude di superare la crisi contro la concorrenza asiatica, mentre deve fare i conti con un movimento che alla morte di George Floyd insorge violento e pervade il paese in lungo e in largo seminando il panico nonostante il Covid-19. Un’America impaurita dai saccheggi e indebolita per i riflessi che avrà sull’economia la pandemia da virus. Un’America che finalmente è in difficoltà come non mai, dove i poteri dello Stato posti di fronte alla rivolta popolare mostrano segni di nervosismo. Un’America che ha allevato i suoi aguzzini; un’America che non appare più come il faro che illuminava il futuro dell’umanità a spese di masse affamate negli altri continenti. Un’America che ha integrato pochi ed emarginati tanti al punto che fra i manifestanti per la morte di George Floyd c’erano bianchi di nuova generazione, di quell’immenso popolo di lavoratori precari e disoccupati. Un’America malata e impaurita, un’America dove i poveri sono grassi perché mangiano schifezze mentre un tempo erano deboli per denutrizione. Un’America con il 40% di obesi nella popolazione adulta e il 20% fra i bambini. Un’America dove l’80% della popolazione a gradi diversi è affetta da diabete. Un’America con 122 milioni di malati cardiovascolari. Un’America dove, secondo alcuni esperti, le industrie alimentari hanno sapientemente sfruttato cibi gustosi, dolci o salati, per creare fenomeni di dipendenza psicologica, per stimolare un aumento di certi consumi. Un’America dove la precarietà lavorativa fa da sfondo a una precarietà psichica che produce gesti folli e continue stragi di chi spara nel mucchio perché è impersonale il nemico. Un’America dove viene definito occupato un giovane che lavora poche ore settimanali. Un’America indebitata come non mai e costretta a stampare moneta nella speranza di sopravvivere alla pandemia per sopravvivere alla crisi. Insomma un’America in cui il quadro sociale complessivo sta «minando la coesione sociale a tutti i livelli: sperequazioni estreme nella distribuzione del reddito con la comunità che si divide in caste; differenze crescenti tra aree metropolitane e zone rurali; e il conflitto tra generazioni con i millennials che si sentono diseredati dai loro genitori, i figli del baby boom del dopoguerra: “ladri di futuro” che gli lasciano in eredità un’atmosfera surriscaldata e mari invasi dalla plastica», scrive Massimo Gaggi in Crack America, di recentissima pubblicazione. Ecco l’America di questi giorni, altro che il potente paese che prima bombardava, costringeva alla resa e poi veniva applaudito come “alleato”. E se trema l’America, barcolla il resto dell’Occidente, perché accerchiato da paesi emergenti come spietati concorrenti e di movimenti di massa improvvisi per il crescente impoverimento. Si dischiudono finalmente le finestre su una fase che vede l’insieme del modo di produzione capitalistico avviato verso una catastrofica implosione in cui l’antirazzismo – quello vero, quello di questi giorni in America e in parte dell’Europa – gioca un ruolo non proprio secondario.

Insomma si intensificano gli scricchiolii nel punto più alto, proprio lì dove era arrivato il modo di produzione capitalistico. Gli oppressi di tutto il mondo possono incominciare a guardare finalmente il futuro in modo certamente diverso dal 1492, perché la storia non torna indietro e non si ripete mai uguale a sé stessa.

 

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