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nazione indiana

Extra legem nulla salus

di Antonio Sparzani


Leggo poco i giornali e non guardo la televisione, tranne qualche telegiornale opportunamente scelto, però mi sforzo ogni tanto di ascoltare attentamente i discorsi che ritengo importanti, e che spesso ritrovo registrati su youtube. È così accaduto che ieri mi sia accuratamente ascoltato il discorso del presidente degli Stati Uniti, discorso nel quale con neppure tanto celato trionfalismo Barak Obama annunciava la cattura e l’uccisione, da parte delle truppe del suo paese, dotate di “unparalleled courage”, di Osama Bin Laden. Mi sono ascoltato accuratamente le parole con le quali raccontava la cattura, e le motivazioni che ne offriva al suo pubblico, che in quel momento poteva ben dirsi mondiale.

Cercavo di capire se avrebbe tentato di giustificare un’operazione così palesemente priva di qualsiasi legalità internazionale, con una qualche internazionale motivazione; e naturalmente mi sono ascoltato il ricordo dell’11 settembre di quasi dieci anni fa, il ricordo delle numerose vittime innocenti, e l’elenco delle nefandezze che sono state in più occasioni variamente attribuite al personaggio Bin Laden, una volta così amico e connivente della presidenza statunitense, ma poi caduto in disgrazia, col seguito che sappiamo. O forse che non sappiamo e che mai bene sapremo, dato il mistero che circonda inesorabilmente le storie di questi personaggi, che ai miei piccoli occhi appaiono talvolta alieni, ma che sono inspiegabilmente invece appartenenti alla stessa specie Homo Sapiens alla quale ‒ così pur ci garantisce la biologia ‒ tutti apparteniamo. Non mi occupo quindi minimamente della probabilità che l’annuncio presidenziale sia in tutto o in parte veritiero o contenga l’ennesima bufala che ci viene fornita perché serve in questo particolare momento storico.

Quello che voglio invece qui con forza sottolineare è del tutto indipendente da tale veridicità, ed è che il presidente, lungi dal fornire una qualche “internazionale motivazione” abbia invece pronunciato con austera determinazione questa frase, che mi ha colpito come un pugno in faccia, ben più delle altre:

«The cause of securing our country is not complete but tonight we are once again reminded that America can do whatever we set our mind to.»


Non mi riesce di tradurla meglio che con quel grido ‒ così parallelo a quello simbolico dell’italiano pdl ‒ sappiate tutti che l’America può fare il cazzo che le pare, e che lo farà finché le piacerà ‒ che lungi dall’essere un grido di libertà esprime invece ancora una volta e da fonte così autorevole la più proterva, la più arrogante e la più pericolosa presa e pretesa di potere sul mondo. Sinistro avvertimento ‒ lo capiscano governi amici e nemici, neutrali e canaglie ‒ a chiunque pensi che la potenza degli Stati Uniti sia in fase calante.

Non che sia una novità, per carità, essi hanno inventato una straordinaria espressione linguistica per operazioni di questo tipo, ricordate? extraordinary renditions, così le hanno chiamate, consegne straordinarie, rapimenti per causa di forza maggiore, o come altro dire; la più famosa da noi è stata quella della cattura e del trasferimento all’estero del cittadino egiziano Hassan Mustafa Osama Nasr, noto come Abu Omar, il 17 febbraio 2003, per la quale peraltro un tribunale italiano ha istruito un processo e condannato dei colpevoli; naturalmente la maggior parte di questi colpevoli erano agenti della CIA, per i quali il governo ‒ amico nostro ‒ degli Stati Uniti ha ufficialmente rifiutato l’estradizione. Però almeno l’illegalità dell’operazione è stata legalmente sancita, nel nostro paese.

Io non sono tra i cittadini che saltano di gioia alla notizia di questo evento che, gridano tutti, rende il mondo più sicuro; perché sono invece sicuro che assai meno sicuro è un mondo nel quale uno stato, basandosi esclusivamente sulla forza delle armi, si arroga il diritto di vita e di morte su qualsiasi essere umano, ovunque egli viva e di qualsiasi diritto egli possa godere, senza bisogno di processi, difese, o testimonianze. Senza contare che questi avvenimenti sono poi dettati da contingenze di tornaconto personale che nulla hanno a che fare con qualche supposta giustizia internazionale, o lotta al terrore. Contingenza che in questo caso più modestamente consiste nelle necessità elettorali di un presidente in acque assai cattive, salito al potere su un’onda di entusiasmo democratico, ma che poi non ha saputo o potuto, poco importa, attuare nessuna delle promesse più calde della sua campagna elettorale, prima tra tutte la chiusura della vergogna di Guantanamo.

Pensate d’altra parte a quello che avvenne nell’ottobre del 1998 quando il giudice spagnolo Baltasar Garzón ordinò l’arresto di Augusto Pinochet, che si trovava in quel momento in Gran Bretagna per cure mediche, uno dei maggiori criminali che si siano conosciuti nei tempi moderni, responsabile riconosciuto di stragi, morti e torture: il giudice Garzón, che, al contrario dei politici, credeva nella forza della legge, emise, dopo una accurata e documentata istruttoria, un mandato d’arresto internazionale che si fondava in maniera significativa sul principio della giurisdizione universale: alcuni crimini internazionali sono talmente gravi che qualsiasi Stato può procedere all’arresto e al processo. La britannica camera dei Lords in un primo tempo concesse l’estradizione ma in una seconda fase la negò fino ad arrivare al vergognoso episodio in cui l’allora ministro degli esteri Jack Straw, concesse a Pinochet il ritorno in patria, per motivi di salute. Ricorderete spero le immagini dell’arrivo del delinquente sul suolo cileno, quando per aggiungere la beffa al danno, si alzò dalla carrozzella e si mise a camminare senza aiuti sul terreno dell’aeroporto.

Allora niente extraordinary rendition, niente giustizia sommaria, niente sepoltura in mare, niente esequie nascoste, forse qualche sorrisetto, qualche darsi di gomito, qualche sospiro di sollievo per aver scampato l’irruenza di quell’irruento giudice spagnolo.

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