Print Friendly, PDF & Email

ilponte

Sogni e realtà della Cina del 2020

a cura di Giovanni I. Giannoli*

16368Nell’introdurre il nostro incontro, voglio innanzi tutto ringraziare Silvia Calamandrei, Marina Miranda Romeo Orlandi e Simone Pieranni, che hanno accettato di condividere la loro esperienza e i loro studi, per questo seminario di informazione e di riflessione sulla Cina contemporanea. A nome della «Fondazione Basso» e del suo presidente, ringrazio tutti i convenuti, che con la loro presenza sostengono il nostro interesse per il tema.

Questo incontro avviene in un periodo del tutto particolare: sono certo che ne parleranno diffusamente coloro che mi seguiranno tra poco. La Cina affronta in queste settimane una prova che non ha probabilmente analoghi nella nostra memoria. Più che all’aspetto strettamente sanitario, mi riferisco soprattutto ai riflessi e alle implicazioni che l’attuale epidemia può ben presto avere, sul piano sociale, economico, politico, psicologico e comportamentale, a causa dell’estensione e – soprattutto – della rapidità con la quale queste implicazioni sembrano capaci di diffondersi a livello globale: ben al di là, per altro, dei confini cinesi. Comunque, questa drammatica prova potrebbe investire alcuni nodi cruciali dello sviluppo e dell’attuale congiuntura cinese. Tutti quanti, immagino, condividiamo l’augurio di un rapido e duraturo successo, al grande Paese, nel circoscrivere e superare la crisi attuale.

Non è certo da oggi che la «Fondazione Basso» pone al centro della sua riflessione i nodi più complessi e problematici delle società contemporanee: la natura e l’evoluzione dei rapporti di produzione, le forme dell’esercizio del potere, il terreno dei diritti e quello della democrazia. Proprio in queste settimane, abbiamo avviato un nuovo programma di studi, che riguarda le controverse e precarie relazioni tra capitalismo e democrazia: tra le attuali forme (e tendenze) dei rapporti di produzione e i molteplici sintomi di una crisi profonda della democrazia.

Se il nostro interesse è principalmente diretto alla condizione italiana, europea, occidentale, non c’è chi non veda che sarebbe impossibile affrontare sensatamente queste complesse questioni, prescindendo dal peso e dal ruolo che hanno assunto a livello globale quei paesi che – con un neologismo non particolarmente felice – vengono correntemente denominati “mega-Stati”. Mi riferisco a paesi come la Cina, la Russia e l’India, che raccolgono al loro interno popolazioni grandissime ed eterogenee, numerosissimi linguaggi e culture, immense estensioni territoriali, consistenti ricchezze e profonde contraddizioni. Paesi, a seconda dei casi, che vengono additati come “la fabbrica del mondo”, il “principale esportatore di energia primaria”, la “democrazia più popolosa del pianeta”. Nazioni dalle quali non è dunque possibile prescindere, anche quando ci si interroga sulle tendenze delle economie e delle democrazie occidentali.

Però, nella letteratura corrente che riguarda il nostro capitalismo e la nostra democrazia, ci si riferisce spesso a questi paesi come a qualcosa di ancora lontano, non pertinente, categorialmente (e materialmente) irrelato alle nostre condizioni specifiche. E lo si fa, spesso, sulla base di informazioni molto labili, o di vaghe intuizioni. Proprio per questo, la «Fondazione Basso» ha promosso per questo scorcio di anno un ciclo di tre seminari – con finalità prevalentemente informative – cui abbiamo dato il titolo: Società, potere e politica, nelle “mega-nazioni” contemporanee. Quello di oggi è il primo appuntamento del ciclo.

Per altro, l’interesse a saperne di più – sulla Cina, sulla Russia e sull’India contemporanee – scaturisce anche da un dubbio, che assilla uno degli assunti più “ottimistici” del pensiero liberal-democratico: l’idea che lo sviluppo implichi necessariamente la democrazia; sicché, le forme autoritarie dell’esercizio del potere (nelle società capitalistiche “avanzate”) sarebbero sempre di tipo residuale (cioè: destinate presto o tardi a cadere). Ma nei tempi ordinari dell’esistenza umana questa previsione (autorevolmente espressa, per esempio, da Amartya Sen, in diversi saggi redatti al passaggio del secolo) potrebbe restare soltanto un vaticinio, un auspicio, una tendenza non confermata. E potrebbe essere revocato in dubbio anche il fatto che si tratti di una previsione fondata; che non valgano, piuttosto, altri criteri. Che – per esempio – forme particolari di “sviluppo” economico-sociale richiedano, funzionalmente, sistemi autoritari.

Di questo tipo è per esempio l’idea espressa senza alcuna reticenza da Daniel Bell, autore di un controverso volume sul “modello cinese” (da poco tradotto anche in italiano, per i tipi della Luiss). Tracce di un’eventualità di questo tipo filtravano del resto in un importante volume di Giovanni Arrighi, pubblicato nel 2007. Arrighi riprendeva una previsione smithiana: la tesi di una “rinascita” ineluttabile dell’Oriente, con il conseguente affermarsi di «una società del mercato globale basata su una maggiore equità tra le diverse aree mondiali». La crisi del «progetto per un nuovo secolo americano», unita allo sviluppo dell’economia cinese, rendevano agli occhi di Arrighi molto plausibile l’ipotesi smithiana, già espressa nel trattato sulla Ricchezza delle nazioni. Con un corollario: che la resistenza al “Washington Consensus” (cioè al neoliberismo dominante alla fine dello scorso secolo) richiedesse una robusta capacità di governo, una selezione e una guida oculata dei processi “spontanei” del mercato, una direzione molto ferma nell’utilizzazione delle risorse, con un sostegno specifico all’istruzione, allo sviluppo delle tecnologie e alle politiche dello Stato sociale. Caratteristiche e competenze, queste, riconosciute da Arrighi al governo cinese. Un gruppo dirigente che – rispetto al “Washington Consensus”, (cioè alla Banca mondiale, al Fondo monetario internazionale, alle tesorerie americana e britannica) – avrebbe «badato a tenere il coltello dalla parte del manico, trasformando [la Cina] in uno dei principali creditori dello stato capitalistico guida» (gli Stati Uniti).

È in un contesto del genere che ci interessa molto riflettere – con chi ne ha fatto oggetto principale del suo studio – su cosa mai davvero possa essere (e sia) il «socialismo di mercato con caratteristiche cinesi»: la nota formula introdotta da Deng Xiaoping nel 1982, alla quale i dirigenti della Cina si riferiscono ancora, nel dare un nome al loro sistema e alla loro prospettiva politica. Un «sogno» – come ha voluto denotare nel 2013 Xi Jinping – che dovrebbe avere due concreti obbiettivi: una «società moderatamente benestante», nel breve periodo, e una «nazione completamente sviluppata», entro la metà del secolo. Su questo, confidiamo di avere maggiori lumi, stasera.

Conduce la discussione Silvia Calamandrei, presidente della «Biblioteca Archivio Piero Calamandrei», amica e compagna di vecchissima data, buona conoscitrice delle vicende cinesi. Sarà lei stessa a introdurre gli ospiti successivi.

* * * *

Silvia Calamandrei

Benvenuti a questa iniziativa di approfondimento sulla Cina, programmata dalla Fondazione Basso prima del profilarsi della gravissima crisi a livello globale provocata dall’epidemia del corona virus, in un anno che vede il cinquantenario delle relazioni diplomatiche tra Italia e Cina, nonché l’anno della cultura e del turismo italo cinese, appena inaugurato.

Doveva essere un momento di stretta cooperazione e scambi, che l’esplodere della pandemia ha congelato anche per le difficoltà di comunicazioni e movimento intervenute a seguito delle decisioni prese.

L’opportunità di inquadramento della crisi odierna attraverso la conoscenza di una serie di elementi strutturali è tanto più benvenuta, perché si avverte l’esigenza acuta di valutare la realtà cinese al di là della propaganda autocelebrativa o della denigrazione. Ciò è tanto più indispensabile oggi di fronte all’ intensificarsi delle interpretazioni, tanto più che la crisi è una cartina di tornasole per misurare l’efficienza del sistema cinese e verificarne punti di forza e debolezza. Il titolo prescelto per la locandina era Sogni e realtà del “Rinascimento” cinese, ma ci siamo interrogati sull’appropriatezza del termine tra virgolette e sulla sua traduzione corretta, e la crisi in corso ci impone un ampliamento tematico. Più che di rinascimento, bisognerebbe parlare di “rinnovamento della nazione cinese”.

Con il focus dell’attenzione concentrato sulla Cina, i nostri ospiti sono in questi giorni particolarmente attivi sui vari fronti mediatici, televisivi e accademici per informare e contrastare visioni drammatizzanti e apocalittiche e far acquisire al pubblico italiano quanti più elementi di informazione possibile.

L’Anno della cultura e del turismo è stato appena inaugurato il 21 gennaio dal ministro Franceschini e dal ministro della Cultura cinese Luo Shugang con un grande concerto all’Auditorium di musicisti italiani e cinesi. Lo stesso giorno si è tenuto a Roma un convegno sul turismo con previsioni estremamente ottimistiche nelle due direzioni purtroppo smentite dalla doccia fredda di blocco. Si sono registrati episodi di razzismo nei confronti di cittadini cinesi e di boicottaggio dei prodotti cinesi. Un’iniziativa forte è stata sviluppata dal presidente della repubblica Mattarella per smussare le punte di contrasto e le incomprensioni ed esprimere solidarietà. In questo impegno si sono profusi anche i cinesi di seconda generazione, le università che ospitano studenti cinesi, gli studenti italiani e gli operatori residenti in Cina, cercando di contrastare l’acutizzarsi delle contraddizioni e di dare un messaggio di solidarietà e migliore conoscenza reciproca.

Tre sfaccettature erano previste per questa presentazione, con Romeo Orlandi, economista e sinologo (Università Bologna), Marina Miranda docente di Storia della Cina contemporanea (Università «La Sapienza» di Roma), Simone Pieranni, giornalista di «il manifesto», che ha lungamente soggiornato in Cina e negli ultimi anni si è dedicato allo sviluppo delle nuove tecnologie dell’informazione e dell’intelligenza artificiale in quel paese.

Romeo Orlandi, vicepresidente dell’Associazione Italia-Asean, ci parlerà della Cina nella globalizzazione, dell’originalità del modello intrapreso dopo la morte di Mao, che ha inanellato una serie straordinaria di successi: la politica ha delegato all’economia, allo sviluppo, la conquista del consenso, ma il Partito comunista cinese ha mantenuto il controllo della società smentendo le previsioni che la crescita dovesse accompagnarsi con la democratizzazione, il parlamentarismo e il multipartitismo. Ci troviamo di fronte al paradosso di un paese comunista che rispetto al protezionismo di Trump difende il libero mercato, e si fa araldo della libertà economica.

Simone Pieranni ci parlerà del passaggio della Cina dalla fabbrica del mondo all’esportazione di prodotti high tech, nuove tecnologie, e del suo ruolo di antesignana del controllo sociale, dell’intelligenza artificiale, delle smart city, dei meccanismi di sorveglianza, rilanciati nella crisi presente.

Marina Miranda affronterà il versante istituzionale e del Partito, concentrandosi sulla peculiarità dell’era di Xi Jinping, e dell’ultima tornata di governance, confrontandola con le precedenti, essendo quella odierna caratterizzata da una forte re-ideologizzazione e dal concentrarsi del potere in una sola persona.

 

Romeo Orlandi

Cercherò nel mio intervento di convivere con i dubbi, di rappresentare una situazione complessa, di spostare verso l’alto il livello dei dubbi.

Ci troviamo di fronte il paradosso di un paese formalmente comunista che si fa araldo del libero mercato. Due anni fa a Davos Xi Jinping rassicurò che la costruzione di muri non è all’ordine del giorno, e questo messaggio veniva dal paese della Grande Muraglia. Dall’altra parte Trump, il presidente americano, campione del libero mercato, costruisce muri, impone dazi, vuole rimettere in discussione e demolire questa forma di globalizzazione.

Anche l’identità della Cina è difficile da definire e disorienta economisti, studiosi e opinione pubblica: la Cina è un paese avanzato o arretrato, agricolo o industriale, povero o ricco? Non c’è risposta. Non lo sa neppure la Cina. Perché questi aggettivi devono necessariamente essere considerati antagonisti? La Cina è comunista o capitalista? La domanda non ha più senso. Articolazione dello sviluppo della Cina fa sì che la contrapposizione abbia perduto di senso, imboccando una tradizione millenaria di camminare sulle pietre per attraversare il fiume, in un approccio learning by doing. Non c’è più contraddizione.

Socialismo di mercato con caratteristiche cinesi. Sembra formula astrusa. Eravamo abituati alle contrapposizioni nette, o socialismo o capitalismo. O Mosca o New York. Non è più vero. La dizione “caratteristiche cinesi” è un prodigio che mette insieme due antinomie. Inedito nella storia anche del socialismo.

La Cina è stata talvolta criticata perché ha svoltato a destra. Come diceva Deng Xiaoping se si aprono le finestre, entrano i moscerini. E forse sono entrati anche dei dinosauri. Ma l’importante è che il paese è arrivato dove voleva arrivare, dopo aver delegato all’economia il compito di trainarlo fuori del sottosviluppo. Questa è stata l’impostazione denghista alla morte di Mao, consegnando alla Storia un esperimento sociale basato sull’egualitarismo, che non aveva prodotto risultati economici, ma carestie, dissenso, lotta tra fazioni e che solo il carisma di Mao aveva potuto contenere. Alla fine degli anni settanta, dopo la morte di Mao, la Cina, orfana, è un paese allo sbando. L’economia non è monetizzata, l’agricoltura non è meccanizzata, le fabbriche sono in preda all’incompetenza. Il dibattito ideologico imperversa e la ginnastica tra le varie fazioni del Partito blocca il paese. Non che il paese non crescesse: il Pil cresceva. Bastava considerare i depositi di letame come fertilizzanti e calcolarli dentro il Pil, per registrarne la crescita. Ma non era questo che poteva far uscire il paese dal sottosviluppo. Per affrancarsi dal sottosviluppo ci si è resi conto che il collettivismo non va bene e che la creazione di valore economico tanto trascurata ha un ruolo fondamentale. Senza rafforzarsi la Cina è debole. E la Cina, non dimentichiamolo, ha guerreggiato con tuti i paesi confinanti. Non è un vicino facile. Ma isolato dal resto del mondo, arretrato e isolato, non può reggere la tensione che pervade l’Asia negli anni settanta (Vietnam, Taiwan, Ussuri) La Cina si scopre debole e teme un altro secolo di umiliazioni.

Gli esperimenti maoisti non sono serviti: senza la creazione di valore economico, non riescono a infondere forza al paese. La guerra in Asia è continuata anche dopo Hiroshima, con le truppe statunitensi presenti e tante tensioni latenti. L’emersione della Cina come araldo del terzomondismo non aveva prodotto risultati. E neppure le alleanze con i paesi africani. Attanagliata dal sottosviluppo, la Cina scopre il bisogno di liberare le forze produttive, cosa che non era riuscita a fare con la collettivizzazione, le comuni, l’abolizione della proprietà privata.

Viene riscoperta l’economia, che era stata relegata a scienza triste.

Al III plenum del XI Comitato centrale del Pcc Deng Xiaoping imprime una svolta straordinaria, sia pur nel solco di una tradizione esistente: basti pensare a Kautskij, Bucharin e lo stesso Liu Shaoqi, personaggi tuttavia considerati rinnegati e oggetto di ludibrio. La liberazione delle forze produttive viene fatta propria dalla dirigenza cinese e il Partito comunista incarna le ragioni dello sviluppo, ne diventa sentinella, con un’operazione inedita nel panorama del socialismo, delegando alla sfera economica la creazione di valore per rafforzare società e partito.

«Noi non siamo bravi a creare valore, pensateci voi», viene detto agli imprenditori. Gli imprenditori diventano cani da riporto, il Partito e l’esercito diventano cani da guardia. Il Partito comunista mantiene il potere, non delega niente a nessuno: le aperture vengono represse, così come era avvenuto per i Cento fiori, il Muro della democrazia, i fatti di Tian’anmen. Non sono consentite divagazioni. Il fatto che l’aumento delle forze produttive aumenti la circolazione di idee non è richiesto, anzi non è nemmeno benvenuto.

Quando lo sviluppo rischia di farsi incontrollato intervengono i cingolati come a Tian’anmen. Ed è proprio a quel punto che si proietta il paese nella globalizzazione. Negli ultimi trenta-trentacinque anni nessun paese è cresciuto ai ritmi della Cina. 10% l’anno? Circa. Ma il guaio di fondo è che non lo sa nessuno, neanche la Cina. È comunque cresciuta tanto. Gli economisti lo constatano dalle immagini delle gru che tirano su grattacieli, dalle automobili che circolano, dalle macchine utensili che lavorano, dalle vetrine che si riempiono. E che cosa è divenuta? Si tratta di socialismo o di capitalismo?

Del capitalismo ha sicuramente alcune caratteristiche: la ripartizione in classi, lo sfruttamento, il plusvalore, l’accumulazione. La Sinistra operaista italiana sostiene che la Cina ha il peggio del comunismo e del capitalismo, una miscela devastante. Altri reputano il comunismo già morto e pensano che la Cina abbia messo l’ultimo chiodo allo stalinismo sovietico, creando uno sviluppo che favorisce il benessere della popolazione, sempre con un Partito comunista che discende dalla Terza internazionale.

Una situazione complessa e paradossale. Ha funzionato? Dipende. Dipende dall’angolo di visuale. La Cina è arrivata dove i suoi dirigenti volevano che fosse, un paese più prospero, più ricco, e rispettato, con lo stesso Partito comunista al potere. Non s’era mai vista una cosa del genere. I capi del Pcc hanno mantenuto potere trainando fuori dal sottosviluppo il paese e sono ancora vivi e vegeti a differenza d un Ceaucescu, o di chi deve affidare la propria sicurezza alle guardie del corpo.

Abbiamo di fronte un esperimento sociale inedito, che funziona. Era dunque da ingenui pensare che lo sviluppo economico avrebbe fatto da traino alla democrazia, seguendo ragionamenti che derivano dalla nostra cultura e dalle nostre coordinate, pensando che quello che è successo in Occidente debba accadere dappertutto. Cinquemila anni di storia non si cancellano con lo sviluppo produttivo, l’importazione delle macchine utensili, La trasformazione dei contadini in operai, l’industrializzazione. Da soli non cambiano la Weltanshauung di un paese, il suo modo di ragionare.

La Cina ci disorienta e facciamo fatica a declinarla con le nostre categorie: disorienta chi è sensibile al tema della democrazia che si era pensato trionfasse dopo il crollo del Muro di Berlino, la fine dell’Urss, il mondo divenuto piatto. Vi ricordate dell’Ottantanove e del pensiero unico, di quella melassa indistinta, che ci faceva credere che non ci fossero più ostacoli alla libera circolazione e alla felicità? Le magnifiche sorti e progressive (poi ridimensionate da Stiglitz, e Amartya Sen) esaltate dall’Ulivo mondiale, da Blair e da Clinton? Quando si pensava che la libera circolazione dei fattori di produzione avrebbe consentito di reperire fattori di produzione dovunque fosse conveniente per assemblarli producendo valore per l’umanità? Quando si esaltava il binomio ricchezza e democrazia e si pensava che il capitalismo trionfante avrebbe assicurato libertà e democrazia, mano nella mano? Invece non è stato così, ed è entrato in crisi il pensiero dominante. La crescita economica ha progredito molto più velocemente anche senza democrazia borghese e libertà. Questo disorienta. Si scopre che un altro mondo è possibile, ma non forse migliore. Chi è legato sentimentalmente alla democrazia, scopre che i modelli autoritari hanno intercettato al meglio la globalizzazione.

Abbiamo avuto una globalizzazione economica o economicista, il mondo è divenuto un immenso opificio dove bisogna produrre e consumare per tutti. Questa è la piega che ha preso la globalizzazione.

 

Silvia Calamandrei

Il quadro di successo che ci hai dato non è ovviamente esente da contraddizioni e incrinature, e nella crisi presente avvertiamo una ripresa di segnali liberisti e libertari che reagiscono al modello autoritario; ma avremo modo di tornarci.

 

Simone Pieranni

Vorrei introdurre ulteriori elementi alla complessità e alle contraddizioni finora descritte, concentrandomi sull’avanzamento tecnologico degli ultimi dieci anni, premettendo che c’è una continua rincorsa alla comprensione della realtà cinese, che richiede aggiornamenti permanenti.

I risultati straordinari raggiunti nel campo dell’innovazione tecnologia e dell’intelligenza artificiale hanno origine in anni che precedono la presidenza Xi Jinping. L’accelerazione coincide con la crisi economica del 2008 e il calo degli ordini dei mercati occidentali. La Cina, da fabbrica del mondo deve trasformarsi ed essere meno dipendente dalle esportazioni di manufatti. Deve rinforzare ed espandere il mercato interno e promuovere innovazione, passando a esportare alta tecnologia.

Lo Stato cinese ha investito e finanziato la ricerca e lo sviluppo anche senza immediato ritorno commerciale e si propone di raggiungere nel 2030 la posizione di prima potenza mondiale nell’Intelligenza artificiale. Tutto questo ha importanti ricadute interne, anche in termini di controllo sociale della popolazione. In Cina c’è sempre stato un controllo forte, capillare, con una organizzazione specifica articolata nei territori, ma la tecnologia innerva nuove potenzialità.

Il controllo sociale non è l’unica conseguenza interna. Nella sperimentazione delle smart city si sviluppa un nuovo concetto di cittadinanza: una «Linea di massa 2.0»? L’automazione è inoltre un aspetto fondamentale: la Cina esporta macchine robotizzate e anche all’interno introduce veicoli a guida automatizzata, macchinari industriali automatizzati, destinati ad avere un impatto sull’espulsione della forza lavoro dalle fabbriche cinesi.

L’intelligenza artificiale è alimentata da quelli che potremmo chiamare i riders dell’Ai. Crescono nuove forme di lavoro non distinguibili da quelle occidentali: le persone che alimentano le macchine taggando foto, video, ecc.

Quello che succede in Cina influenza l’Occidente: sempre più l’asse si sposta a Oriente, come già prevedeva Arrighi descrivendo il cambio di paradigma nell’accumulazione del capitale. Non è più l’Occidente a proporre stili di vita, e questo riguarda non solo la Cina. Si tratta di fenomeni di cultura di massa. Basti pensare al successo del film coreano Parasite, o del film di fantascienza cinese campione di incassi Wandering earth in cui il mondo viene salvato dai cinesi.

E pensiamo alle applicazioni, come la Grab indonesiana, o Tik tok, app cinese molto popolare anche tra gli adolescenti occidentali. Dietro le quinte si profila un controllo sociale massiccio, che non è una novità, perché capitalismo di sorveglianza e socialismo di sorveglianza si intrecciano e sono omologati dallo stesso metodo estrattivo del valore: tutti noi consentiamo di estrarre valore dalle nostre azioni, dall’uso dei nostri smartphone: i nostri dati tracciabili consentono tutta una serie di possibilità per i governi e per le imprese.

Lee Kaifu, un venture capitalist taiwanese (già a capo di Google e Apple in Cina) che finanzia start up cinesi sostiene che la Cina è l’Arabia saudita dei dati, perché i dati sono il nuovo petrolio. E la Cina ne ha tanti, e qualitativamente eccellenti perché WeChat, strumento indispensabile nel quotidiano, controlla le transazioni finanziarie oltre che le comunicazioni e mette a disposizione una massa di dati enorme, di cui può servirsi sia lo Stato che il mondo imprenditoriale.

Un’azienda cinese, la NucTech, un’azienda statale, si è specializzata in sistemi di sicurezza degli aeroporti internazionali. A controllarla c’è il figlio di Hu Jintao, a proposito della meritocrazia che tanto è stata decantata per la Cina da autori come Daniel Bell.

In Cina sono stati banditi sistemi come Facebook e Youtube, lasciando campo libero ad aziende cinesi che hanno conquistato fette di mercato e poi si sono potute imporre anche a livello internazionale. Ora Facebook vorrebbe replicare le dinamiche di Wechat, che fa molti più soldi perché riceve percentuali sui pagamenti, mentre FB si finanzia solo con la pubblicità. Quando parliamo di meccanismi di controllo in Cina è come se guardassimo in uno specchio che ci fa paura perché abbiamo paura di finirci anche noi. Il sistema di controllo viene esaltato in Cina in funzione del mantenimento della stabilità: i cinesi rinuncerebbero alla privacy in cambio di sicurezze in relazione alla criminalità o alla quotazione delle aziende, classificate con crediti sociali come più o meno affidabili. Dopo i tanti scandali sui prodotti alimentari, i cittadini cinesi sembrano accettare di consentire al Partito e a allo Stato di sorvegliarli in cambio di un ambiente securitario e di garanzie sulla sicurezza dei prodotti.

Di fronte al Corona virus, tutto questo comparto dell’informazione e dell’Intelligenza artificiale è stato posto al servizio del miglioramento della sicurezza sanitaria. Gli imprenditori e i funzionari cinesi non lo ammetteranno mai, ma l’emergenza ha consentito di far tornare indietro, di bloccare la discussione che si era aperta sulla privacy, introdotta dal fondatore del colosso Tencent, Ma Huateng all’Assemblea nazionale. Ma con la crisi sono anche aumentate le capacità di raccogliere dati.

Va detto che la tecnologia cinese del riconoscimento facciale attraverso le videocamere viene esportata in tutto il mondo, se ne servono anche le basi militari americane. Le videocamere – anche se non cinesi – sono in funzione anche nella nostra Firenze e il sindaco Nardella non manca di elogiarne la funzionalità in termini di sicurezza urbana.

La crisi sta consentendo alle aziende cinesi di raccogliere dati oltre i limiti che si erano poste. Lo Stato gli ha consentito di ingrandirsi, ma se lo Stato vuole i dati devono essere consegnati. Del resto questo riguarda non solo Wechat, perché anche Yahoo ha consegnato mail di dissidenti. E questi poi hanno addirittura vinto una causa contro Yahoo, essendo stati detenuti e torturati. Si accusa la Cina di essere un regime, ma quando si tratta di affari, anche le imprese occidentali mettono in secondo piano privacy e diritti delle persone.

Nelle ultime settimane c’è stato un grande uso di droni per propagandare norme sanitarie e per avvisare la popolazione in zone remote. Sono stati impiegati robot per sostituire gli umani in azioni pericolose dal punto di vista sanitario, come la disinfestazione. E si sono introdotti incroci di dati, intrusivi della privacy, per meglio individuare e tracciare la mobilità delle persone e possibili contatti con fonti di contagio. C’è un software che consente tutto ciò e si può acquisire una app individuale. Questi sviluppi aiutano a mantenere tranquilla la popolazione, ma estendono il rischio di controllare incontri, riunioni, assembramenti, ecc. incrociando dati dei trasporti, delle transazioni e delle telefonate.

Altri elementi sono ancora più significativi. La tecnologia non impatta solo su questioni interne ma anche sugli equilibri internazionali. La Cina è uno dei paesi più avanzati nei computer quantistici e nell’elaborazione velocissima di dati, il che impatta anche sugli equilibri internazionali.

Il 5G è un sistema che accelera la trasmissione dei dati e la Cina lo sta sperimentando su larga scala e proponendo a livello mondiale. Noi users normali non ce ne accorgeremmo neppure, ma per calcolatori che devono far andare macchine nelle fabbriche o consentire alle smart city di funzionare ha un’importanza enorme. Chi arriva prima avrà molto potere. La Huawei, principale azienda delle reti al mondo, non è un’azienda di Stato ma di fatto è la rappresentante commerciale della Cina per il 5G, la cui esportazione comporta conseguenze geopolitiche. L’Italia col governo precedente aveva dato il benvenuto al 5G, mentre il nuovo governo vuole esercitare il golden power. Il fronte occidentale è spaccato: da una parte l’opposizione americana, dall’altra la disponibilità del Regno Unito e della Germania, per il timore che la Cina accaparri dati e mini la sicurezza nazionale. Con questa tecnologia la Cina impatta non solo al suo interno, ma influenza l’Occidente, praticando una politica di prezzi interessante, che spinge a utilizzare le tecnologie cinesi. Viene rimesso in discussione il bipolarismo, che si sta frantumando, spaccando alleanze.

 

Silvia Calamandrei

Potremmo considerare la crisi presente come un’esperienza di choc economy secondo la definizione di Naomi Klein. Cioè la crisi dà ulteriore impulso allo sviluppo delle eccellenze cinesi, come le tecnologie della sorveglianza, presentate in modo funzionale al controllo dell’epidemia, limitando la privacy. La diffusione dello streaming con la chiusura dei cinematografi, il telelavoro e le teleconferenze con la chiusura di fabbriche uffici e scuole, hanno avuto impulso enorme nelle città sotto assedio, congelate; anche i videogiochi sono l’ineludibile passatempo dei cinesi chiusi in casa.

Ma la crisi rivela anche punti di debolezza e di resistenza. Ricominciano a circolare in rete, subito censurati, temi come la libertà di espressione e accesso all’informazione. Grande eco di proteste ha suscitato la notizia della censura dei primi allarmi, e la morte del medico che aveva denunciato il virus ha provocato una petizione che chiede di dargli riconoscimento come eroe nazionale e di trasformare la data della sua morte in giornata della libertà di espressione. È tornato a esprimersi con un articolo critico il professore di Tsinghua, Xu Zhangrun, sospeso dall’insegnamento, che aveva criticato l’eccessivo potere personale di Xi Jinping acquisito con la modifica della Costituzione che ne prolunga il mandato. Personalizzazione e verticalizzazione renderebbero più fragile la capacità di promozione meritocratica che il sistema vantava. Fino a un certo punto si è riusciti a selezionare una classe dirigente capace di quello sviluppo che Romeo ha descritto, ma ora si passa alla selezione di fedelissimi, come sta avvenendo a Hong Kong e a Wuhan. Una trappola in cui un dirigente come Xi Jinping si sta infilando? Marina Miranda ci darà lumi.

 

Marina Miranda

In effetti la Cina nell’era di Xi Jinping è un paese un po’ diverso rispetto a quello dei periodi precedenti. Vanno quindi comprese le peculiarità di questa fase, mentre spesso in Italia si tende a pensare che la Cina sia sempre la stessa, dagli anni ottanta a oggi. Invece ci sono state trasformazioni enormi e dal 2012 Xi Jinping è riuscito ad accentrare il potere in brevissimo tempo, dopo una grave crisi politica, quella dello scandalo di Bo Xilai e del suo arresto: il fatto è stato ridimensionato come un caso di corruzione, ma è stato la punta dell’iceberg di una corsa alla spartizione dei posti-chiave ai vertici del Partito, che avrebbe avuto risultati diversi senza il suo arresto. Dal 2012 un sistema già autoritario si è ulteriormente centralizzato e personalizzato.

Occorre fare un breve excursus per capire meglio la realtà attuale del Partito e delle istituzioni del paese.

Gli anni ottanta in Cina sono stati un grande laboratorio di esperimenti per la transizione post-comunista, con intensi dibattiti all’interno dell’intellighenzia non solo sullo sviluppo economico ma anche sulla evoluzione politica e istituzionale. La crisi di Tian’anmen ha posto una pietra tombale su quegli anni irripetibili, che meriterebbero un’analisi più approfondita. Comunque la Cina ha vissuto un boom economico da 1992 in poi, stimolato anche dal viaggio al sud di Deng per rimettere in moto il processo che Romeo ci ha descritto. La definizione dei giovani sulla piazza come controrivoluzionari ha significato la criminalizzazione della controparte, la non volontà di riconoscerla. È l’etichetta peggiore, non a caso usata anche contro i manifestanti di Hong Kong, che esclude ogni forma di dialogo e di trattativa.

Durante le manifestazioni di Tian’anmen c’era stato un gruppo di imprenditori privati che avevano finanziato gli studenti, e noi occidentali ci saremmo aspettati che assieme allo sviluppo economico sarebbe cresciuta la domanda di rappresentanza: pensavamo che il ceto emergente degli imprenditori cinesi chiedesse rappresentatività politica. Ma anche lo sviluppo del ceto imprenditoriale ha assunto “caratteristiche cinesi”. Gli anni novanta sono stati anni di grande crescita e di sperimentazione, gestiti dal nuovo segretario Jiang Zemin, in carica a Shanghai, nominato per merito, per aver tenuto sotto controllo la sua città durante le manifestazioni di piazza. Sottovalutato dapprima, paragonato a un secondo Hua Guofeng, si è rivelato invece molto abile ed è lui che ha condotto la Cina alla crescita a due cifre, allo sviluppo straordinario di Pudong, elaborando la teoria delle “tre rappresentatività”: non solo operai e contadini, ma anche i nuovi strati emergenti con le loro istanze dovevano essere rappresentati dal Pcc, trasformandolo in un Partito di tutto il popolo. Si pensò addirittura di modificare il nome del Partito, ma ce se ne guardò bene.

Furono anni di crescita impetuosa e selvaggia, che lasciarono un’eredità pesante alla dirigenza successiva, la coppia Hu Jintao, Wen Jiabao. Nel loro doppio mandato 2002-2012, essi cercarono di sanare gli squilibri insorti a seguito della crescita, i grandi divari tra zone e classi sociali, ma l’esperimento non ha avuto successo. In quegli anni venne alla ribalta anche il problema ecologico, che si cominciò ad affrontare nel 2004, quando Hu Jintao parlò di sviluppo sostenibile con “caratteristiche cinesi”.

Furono dieci anni perduti? I grossi nodi del moderno sviluppo vennero denunciati ma non sanati. Nel frattempo si è assistito anche allo sviluppo di una stampa relativamente liberale soprattutto al sud del paese. I temi di cui non si poteva parlare, finalmente potevano essere menzionati, come quello della disoccupazione, in precedenza parola tabù. Gli anni duemila sono stati anni di ascesa della Cina come grande potenza economica, che negli importanti appuntamenti internazionali ha cominciato a far sentire la sua voce.

Dato il suo tipo di presidenza, Xi Jinping può essere denominato “presidente di tutto”, perché egli accentra in sé tutti i poteri: quello di segretario del Pcc, quello di presidente della Repubblica e quello di capo della Commissione militare centrale. I leaders precedenti non erano riusciti a riunire sin da subito contemporaneamente tutti questi poteri, c’erano stati passaggi graduali. Inoltre Xi ha creato piccoli gruppi direttivi (lingdao xiaozu), di cui egli stesso è a capo, dei quali fanno parte membri del Partito, dello Stato e dell’esercito. Si abbandona così lo sforzo intrapreso ai tempi di Deng Xiaoping di separare le funzioni del Partito da quelle dello Stato e si formano commissioni trasversali su ogni questione, sovrapponendo completamente Partito e Stato.

Anche per il corona virus è stato costituito un comitato ad hoc, sia pur non presieduto da Xi Jinping, ma da Li Keqiang. Il primo ministro risulta molto in subordine rispetto a Xi Jinping, ora segretario e presidente anche a vita, avendo modificato la costituzione del 1982.

Ormai leader a vita, Xi Jinping non affronta il problema della successione, non designando un successore, come si era usi fare. Dopo la morte di Mao sappiamo che i momenti di successione sono momenti molto difficili di lotta per il potere tra le diverse fazioni. Il fatto che non sia al momento prevista una successione ordinata a Xi ci fa pensare che potranno esserci problemi in futuro.

La crisi cui stiamo assistendo sta avendo ripercussioni notevoli a livello internazionale. Mi sono interrogata sui vantaggi di cui gode un sistema autoritario nell’affrontarla, guardando anche al precedente della Sars, gestita da Hu Jintao e Wen Jiabao. Allora ci fu una gestione dal volto umano, stavolta no. Hu e Wen andavano a visitare i malati negli ospedali. Ora Xi nomina i fedelissimi. Le sostituzioni non sono nuove, sono state molto usate nella lotta contro la corruzione, ai fini però della lotta politica. La classe dirigente viene quindi selezionata in base alla fedeltà e l’opposizione è molto ridotta.

Quanto vantaggio ha un sistema autoritario? Sto studiando la questione. Certamente la centralizzazione del processo decisionale è fondamentale. Dopo l’Ottantanove c’era stato un certo decentramento dei processi decisionali, ma ora prevale la centralizzazione. Un’altra variabile è quella del sostegno dell’opinione pubblica. È una questione problematica. Opposizioni ci sono state, alcuni accademici si sono espressi contro la personalizzazione e contro la re-ideologizzazione nelle università. C’è una notevole insofferenza del mondo intellettuale, per il controllo dei corsi, per le materie vietate, per la pressione sui costituzionalisti che non riescono più a insegnare diritto comparato.

Ma la situazione in ogni caso non va valutata in base alle nostre categorie. Ci sono forme di dissenso, circolano petizioni e video; ma sono segnali di scollamento, non di vera opposizione. Soprattutto dopo la morte lo scorso 6 febbraio di Li Wenliang, l’oftalmologo che, inascoltato e perseguito, aveva lanciato l’allarme del virus a fine dicembre, si sono manifestate varie forme di dissenso: circolano in rete video di attivisti arrestati con il pretesto di accertamenti sanitari per il coronavirus, come nel caso di Xu Zhiyong, avvocato difensore dei diritti umani, già incarcerato e condannato nel 2014 a 4 anni di detenzione per aver richiesto che tutti i membri del Partito rendessero pubbliche le loro proprietà personali, il quale questa volta è arrivato a invitare pubblicamente Xi Jinping a dimettersi. Inoltre è stata indirizzata alla Assemblea nazionale del popolo e al suo Comitato permanente una petizione a favore della libertà di stampa e di espressione, in applicazione dell’art. 35 della Costituzione, firmata da varie personalità accademiche, tra cui il giurista Xu Zhangrun, già citato da Silvia e un altro docente dell’Università di Pechino, Zhang Qianfan. Possiamo dire che sono importanti segnali di scollamento, ma non di una vera e propria opposizione strutturata.

Un elemento caratterizzante della nuova fase è il rigido controllo dei media. Hu Jintao non era certo un campione di liberalismo, ma Xi Jinping, nella sua visita durante il Capodanno lunare del 2016 alla redazione del «Quotidiano del popolo», ha dichiarato che i media devono «portare il cognome del partito» (xingdang), devono essere fedeli portavoce del partito. Il Partito comunista cinese oggi assomiglia sempre di più a quello degli anni cinquanta e sessanta per volontà di controllo.

Passando a un’altra questione, la classe media, menzionata da Romeo Orlandi, quanto assomiglia alla nostra? Utilizzando le nostre categorie sociologiche, non si può dire che sia una vera classe media come quella occidentale. Si tratta piuttosto di una élite, considerando i consumi, la possibilità di accedere ai beni di lusso, di andare all’estero, tenendo conto dei grandi gap tra strati sociali.

Per quanto riguarda poi la democrazia, non bisogna pensare che i cinesi siano attratti da quella occidentale. Quelli che vengono a studiare nelle nostre università ci dicono che il nostro sistema è in crisi, che l’esportazione del nostro modello è improponibile, in base a una critica dei nostri valori e un rilancio di quelli asiatici, contro l’universalità dei valori. Negli anni scorsi si era parlato di democrazia con “caratteristiche cinesi”, ma è un’elaborazione ormai abbandonata. C’erano stati autori, quali per esempio Yu Keping, che avevano parlato di democrazia incrementale o progressiva, ma recentemente hanno abbandonato o modificato il tema della loro analisi. In conclusione, possiamo dire che l’era di Xi Jinping si distingue nettamente dalle fasi precedenti.

 

Silvia Calamandrei

Dopo questa carrellata di temi molto densi, sicuramente ci sono domande da parte di un pubblico particolarmente attento. Già formulo io una domanda per Romeo: il binomio successo economico-rafforzamento della credibilità del Partito come uscirà da una situazione in cui la crisi metterà a repentaglio la crescita economica?

 

Domande dal pubblico e risposte dei relatori

Giorgio Catorci: Si può parlare di Cina come realtà unitaria? O non bisogna considerare la Cina come una realtà a macchia di leopardo, con zone distinte, città e campagne, arretrate e avanzate? Non facciamo lo stesso errore di quando parliamo dell’Europa senza considerare le diverse realtà?

Sergio Benassai: Non è che in tutta la storia cinese c’è un rispetto per l’autorità, un culto del potere imperiale in una millenaria tradizione autoritaria?

Ugo Pagano: forte elemento di novità, ma effettivamente in Cina esiste una lunga tradizione del mandato celeste, di un imperatore legato al successo nel provvedere al benessere del popolo, di una burocrazia selezionata con esami competitivi. Quello che noto è una sorta di cattolicizzazione in senso spinto rispetto alla tradizione imperiale. È stato inserito il mandato a vita come per il papa? Si tratta di un modello sperimentato nella storia dell’umanità, con forti radici in Cina. Al posto dell’imperatore un capo di partito, esami basati su cose diverse. Del resto, anche le imprese che vanno bene in Italia sono un po’ cinesi come l’Eni e l’Enel. Non vedo grande discontinuità col passato.

Giorgio Resta: da giurista vorrei rilevare alcune contraddizioni sul tema della legalità. Nell’aprile 2020 entrano in vigore in Cina due nuovi libri del nuovo codice civile. Per la prima volta a livello mondiale viene inserito un Libro sui diritti della personalità, con norme sull’informazione creditizia, la protezione dei dati, alterazione della voce. In astratto siamo abituati a percepire una scarsa presenza del principio di legalità. In verità guardando più a fondo, c’è un sistema asimmetrico. Molto attenti ai diritti orizzontali nei rapporti privati, di mercato, economici. Più sottili invece i rapporti verticali tra individuo e Stato. Quasi all’opposto di quanto avviene negli Stati Uniti. Legalità è dunque un sistema a geometria variabile? Secondo punto: se è vero che in Cina il controllo sullo sviluppo dei dati sembra funzionare drammaticamente bene, ma noi europei quale modello di sviluppo dell’Intelligenza artificiale scegliamo? In questi giorni si discute a livello europeo la nuova strategia sui Big Data. In Cina la raccolta dei dati si è sviluppata anche eliminando il contante, controllando le micro-transazioni. Se ne discuteva anche da noi, ma poi tutto si è bloccato. Se lo sviluppo nei settori ad alta tecnologia presuppone un accesso massivo ai dati privati, cosa estranea ai nostri valori, dobbiamo rassegnarci a essere un paese che può esportare solo regolazione?

Giovanni I. Giannoli: Abbiamo parlato di grande sviluppo in termini di Pil. Ma due aspetti mi interessa approfondire: in primo luogo, il rapporto col neoliberismo. Nell’analisi di Giovanni Arrighi, che si ferma al 2005, c’è l’idea che la caratteristica cinese dell’economia di mercato equivaleva a resistenza al paradigma di Washington e della Banca mondiale, un affidamento ai cinesi d’oltremare, un controllo sovrano anche sul reinvestimento dei profitti. Oggi vorrei capire meglio che rapporto c’è con la finanza internazionale. La contemporaneità più che sulla fabbrica del mondo si fonda sulla finanza. Integrazioni con la finanza? Altra questione è quella dello Stato sociale: questa grande crescita del Pil si è tradotta, suppongo, in scolarizzazione, tasso universitario più alto del mondo, abitazioni, salute pubblica. Infine la questione della società civile e della democrazia. In Cina si assiste a sviluppo di arte, cultura, cinema, scienza, anche se non rappresentato dal punto di vista istituzionale in strutture democratiche. Come si spiega? Ci sono anche zone destinate agli artisti?

Franco Ippolito: Che impatto c’è stato sul rapporto città-campagna, i cambiamenti economici sono arrivati a muovere qualcosa a livello rurale? La teoria neoliberista afferma che, arricchendo chi sta in alto, poi la ricchezza sgocciola. È sgocciolata fino alle campagne? Contraddizione quasi personale: se si chiude il discorso comparativo, come si accoppia con l’attenzione alla cultura romanista ormai introiettata da tanti giuristi cinesi? Alcuni romanisti italiani insegnano in Cina. Da una parte si instaura controllo universitario e dall’altro il governo cinese invia borsisti, giudici e pubblici ministeri ad aggiornarsi qui da noi e io a Tor Vergata devo organizzare loro seminari su giurisdizione nei modelli occidentali. Non c’è contraddizione?

Domanda a tutti e tre: «Caratteristiche cinesi»: tutti e tre avete usato questa formula, che trasmette un alone di inesplicabilità: non prendete le categorie occidentali, vanno adattate, volete farci intendere: “badate che è un’altra cosa”. Per esempio, il tentativo di una politica ecologica, ambientale: l’ecologia è un problema universale, quali possono essere le caratteristiche cinesi del problema?

Silvia Calamandrei: Personalmente sono in contatto con la scuola cinese di romanistica, e civilisti italiani come Guido Alpa hanno tenuto importanti corsi proprio a Wuhan. L’ambiente dei giuristi soffre contraddizioni profonde: lo constato nelle difficoltà che incontrano le traduzioni di scritti di Calamandrei, appena si tocca la questione dell’indipendenza della magistratura o i diritti costituzionali. Anche gli scritti del numero speciale del «Ponte» sulla Cina del 1956, con commenti di Calamandrei e Bobbio molto simpatetici, risultano “argomenti sensibili” per la censura cinese. I giuristi che si formano da noi fruiscono delle conoscenze, ma ne fanno un uso ponderato, evitando temi sensibili che li facciano incorrere in censure. D’altra parte appena uno scritto critico circola in rete, sparisce nel giro di mezz’ora. È avvenuto per uno scritto di Fang Fang, una scrittrice sottoposta a censura perché ha osato trattare in modo non ortodosso il periodo della riforma agraria, che ha commentato criticamente la situazione di Wuhan. L’ho ricevuto e non ho pensato a stamparlo. Ma appena l’ho inoltrato tutti i miei corrispondenti mi hanno detto che non era più disponibile.

Simone Pieranni: Anzitutto la questione dell’impatto della crisi: si preannuncia evidentemente una forte contrazione, anche in funzione della durata del blocco dovuto all’epidemia: il tasso era del 6,1, il che era già crescita lenta per la Cina. Le difficoltà di un’eventuale crisi economica avrebbero impatto su quella élite, quella classe media che è definita più in termini di spesa che come rivendicazioni da società civile. In Cina mancano i corpi intermedi. Dal 1989 il Pcc assicura benessere, prosperità e crescita in cambio di compressione dei diritti e della libertà di espressione. Questo scambio potrebbe essere messo a repentaglio da una crisi economica. La questione ambientale è un altro tema molto rilevante. Ẻ vero che Hu Jintao ha cominciato una politica ambientale, dopo che la Cina aveva sempre avuto atteggiamento difensivo: «Avete inquinato voi, non è colpa nostra, non sta a noi». Ora scelta ecologica, si ripete in tutti i discorsi. I cosiddetti “incidenti di massa”, manifestazioni di dissenso che riguardavano essenzialmente il mondo del lavoro, ora si innescano spesso su questioni legate all’ambiente. Sono manifestazioni trasversali, perché nessuno vuole vivere in un paese inquinato e spesso si registrano successi delle lotte ambientaliste. Non mettono in discussione il potere centrale. E se la dissidenza viene fortemente repressa riguardo al potere centrale, la critica è invece consentita riguardo ai poteri locali. Il Centro è l’ago della bilancia. Nessun cinese vuole il caos, tutto quello che serve alla stabilità è legittimato a livello popolare. Vedremo se la grande popolarità di Xi Jinping sarà intaccata da questa crisi. Concordo che il periodo di Hu Jintao e Wen Jiabao, di direzione collegiale, pur avendo avuto momenti repressione, dava l’impressione di un paese che poteva cambiare, in cui stavano nascendo contrappesi in grado di limitare l’ingerenza del Partito. Nel frattempo si è assistito a una normalizzazione delle zone di artisti e alla sospensione dei Festival indipendenti. Ma non tutto è bloccato. Succedeva anche prima: ogni volta che viene chiusa una zona di artisti se ne apre un’altra, come per il 798. Si può dire che il sistema censorio incita alla creatività. Quanto ai rapporti città-campagna, la Cina è ormai un paese a maggioranza urbana. È imminente un nuovo censimento, ma già il precedente aveva registrato l’urbanizzazione. Ora siamo alla fase della creazione delle smart city, con 2 milioni di abitanti e rispetto dell’ambiente, ma chi ci andrà ad abitare, chi potrà permetterselo? Da segnalare anche che le campagne sono le zone che usano di più internet e comprano online.

In conclusione, per quanto riguarda i Big data, l’Europa deve scegliere se essere carne da macello o avere una propria autonomia. Scegliere se è preferibile farsi spiare dai cinesi o dagli americani. Vogliamo considerare i Big data un bene comune? Vogliamo averne una gestione trasparente? Altrimenti saremo incastrati.

Romeo Orlandi: Dalla crisi del 2007 è emersa una contraddizione insanabile e continuiamo a vivere nell’incertezza, dovuta alla divaricazione tra aspetto finanziario e aspetto reale dell’economia. Abbiano assistito a un enorme trasferimento di capacità produttive verso l’Oriente e ancora lo paghiamo: vedi la Brexit e il Midwest americano. Squilibrio fondamentale.

Si è concluso un bizzarro matrimonio di interesse tra un paese formalmente comunista come la Cina e le multinazionali, trasformando il paese nella fabbrica del mondo. La Cina ha esercitato una fortissima attrazione sugli investimenti produttivi, epocali. Esito è stato che si è trasformata nella fabbrica del mondo. Produzione sterminata di beni che andavano a riempire le case delle persone in Occidente. In sintesi: il risparmio dei contadini e degli operai cinesi ha finanziato i consumi delle classi medie americane. Questo non va bene ed è squilibrio ancora irrisolto, ma lo squilibrio manteneva il mondo in equilibrio, evitava la guerra. Questo determinava uno spostamento enorme di capacità produttive ma, attraverso la compressione dei salari e dei consumi degli operai, faceva accumulare riserve rendendo ricco il paese, ma non i cinesi; una cosa è la ricchezza prodotta, una cosa è la distribuzione del reddito. La Cina ha avuto le casseforti più pingui e ha potuto intervenire nell’economia mondiale. Come si fa a riempire le casseforti di riserva? Con gli attivi commerciali e l’attrazione degli investimenti.

E quale paese al mondo era più attraente della Cina? Con un cocktail inimitabile di fattori: basso costo dei fattori di produzione, stabilità politica, clima favorevole agli investimenti, sistema infrastrutturale funzionante, promessa di mercato interno sterminato. Provate a produrre in Bangladesh e poi a trasportare le merci su una di quelle strade su un camion! In Francia ci sono le strade, ma quanto costa un operaio e un ingegnere? Ecco perché si è accumulata questa capacità produttiva e finanziarizzazione del mondo occidentale. Da una parte si produceva dall’altra si estraeva valore. Da una parte ciminiere, dall’altra Wall Street.

Faceva comodo a tutti finché non ci si è resi conto che noi in Occidente stavamo ipotecando il futuro. Inoltre la Cina non è un paese docile. Perché doveva rassegnarsi a rimanere fabbrica del mondo? Quel paese, con quella storia, con quel nazionalismo, che costruisce muraglie per proteggere la propria identità, perché dovrebbe rassegnarsi a rimanere fabbrica del mondo?

Stiamo pagando il conto della globalizzazione che abbiamo promosso. Lavorare in fabbrica è peggio di fare l’agente a Wall Street. O fare il contadino in Cina è peggio che creare una smart company nella Silicon Valley. La nostra Europa è un posto di pace e di serenità: non abbiamo mai vissuto così bene. Ma qualcuno ne pagava il prezzo e ora ci porta il conto.

Il restringimento degli spazi pluralistici e la verticalizzazione e concentrazione del potere possono essere considerati causa ed effetto. L’accentramento con le commissioni, che tutte sono controllate da Xi Jinping, mentre il primo ministro ha funzione minore, sono fenomeni che non devono meravigliarci. L’accentramento del potere nelle mani di Xi è una necessità: una Cina così forte ha bisogno di un uomo forte. Una Cina che sta rilanciando la propria posizione nel mondo, uscendo dal low profile raccomandato da Deng Xiaoping. Ora vengono rivendicate le isolette del Mar cinese meridionale e si lancia la Belt and road initiative. Il paese è talmente cresciuto che non si può più nascondere. La delega all’economia ha funzionato, ma ora bisogna passare dal soft power all’affermazione della propria posizione strategica.

Come va interpretato Il ritmo del 6,1% di crescita? Come una flessione o come un dato di stabilità? Nessun paese può crescere indefinitamente. 6% annuale significa che ogni anno c’è l’aggiunta di una intera Turchia: non è cosa da poco. Xi Jinping incarna questa necessità, l’uomo forte di cui c’è bisogno, ma anche in Urss, Stalin fu una necessità quando si costruì il socialismo in un solo paese, dato che la rivoluzione mondiale era inimmaginabile.

Sembra esserci una congiura contro Xi: prima le manifestazioni di Hong Kong, poi la guerra commerciale con gli Usa, la diminuzione della crescita e ora il Corona virus. Ma la Cina è la seconda potenza mondiale e se si guarda al Pil è il numero uno. La vera domanda non è quando diventerà la prima economia ma perché non lo sia già. Cosa impedisce al paese demograficamente primo di essere la prima economia? Più persone, più alto dovrebbe essere il Pil. Uno vale uno. C’è ovviamente il problema della produttività, gli Usa sono più avanti in termini di produttività. E la Cina deve ridurre questo gap. La “Sinitudine” è il vero problema che la Cina non riesce ancora a risolvere. O imbocca scorciatoie o punta sul 5G. Non può attendere uno sviluppo graduale. Verosimile dunque un aumento di tensioni, come già constatiamo nel Mar cinese meridionale. La pax americana imposta dopo la Seconda guerra mondiale è ormai in discussione, la Cina non vuole più sopportare: ecco perché ha lanciato la Belt and road. Le ambizioni securitarie della Cina puntano a evitare un altro secolo di umiliazioni, assicurandosi una rete di protezione. Non sarà un processo indolore. Perché dovrebbe esserlo per chi cerca una rivincita della storia?

Marina Miranda: La figura dell’uomo forte al comando corrisponde all’archetipo imperiale: un sovrano non di origine divina, come in Giappone, ma che veniva legittimato dal mandato celeste, e che poteva essere anche un contadino, al di là di una tradizione di sangue. La classe dirigente veniva selezionata in base a esami statali, favorendo la mobilità sociale. Il nostro sistema degli esami è stato importato dalla Cina dai gesuiti.

Tutto questo è vero, ma non bisogna trascurare il contributo della Cina moderna, quella del Quattro maggio, che si era proposta di ribaltare il paradigma imperiale. Lo stesso Mao Zedong negli anni di Yan’an era un primus inter pares. Il suo culto della personalità si è affermato solo negli anni sessanta. Prima Mao condivideva il potere con altri, come Deng Xiaoping e Liu Shaoqi. Bisognerebbe esaminare meglio i primi anni sessanta: dopo la carestia del Grande Balzo, una parte del Partito, senza accusare apertamente Mao, cercò di praticare una politica di riaggiustamento economico e di riforme, che poi sarebbe stata ripresa da Deng e Zhou Enlai a metà degli anni settanta. La Rivoluzione culturale mise però fine a questi sforzi.

Romeo dice che è un processo ineludibile? La Cina ha programmato la sua ascesa come potenza globale e in realtà Xi Jinping interpreta un momento particolare. Il sogno cinese, che a noi sembra solo propaganda (i cinesi giocano molto sulla terminologia, tra sogno e incubo), è come un contenitore vuoto che viene riempito di tanti contenuti. Può essere definito in contrapposizione al sogno americano e come differenziazione dall’Occidente. Quello sul Modello Cina è un dibattito che è stato in auge negli anni scorsi; iniziato dagli occidentali, come per esempio da Francis Fukayama, è stato ripreso e ampliato dagli studiosi cinesi. Essi insistono su un modello alternativo a quello occidentale, e qui interviene l’espressione «con caratteristiche cinesi», che significa percorrere una strada particolare, che non riproduce quella degli altri. In fondo anche la rivoluzione di Mao è stata una rivoluzione «con caratteristiche cinesi», con le campagne che accerchiavano le città. E il Grande Balzo è stato un altro tentativo in alternativa alla pianificazione sovietica. Tutta la storia della rivoluzione cinese si caratterizza con il non prendere lezioni da nessuno, né dal Grande fratello sovietico, né dall’Occidente.

Se da una parte ha sollevato grande interesse l’esaltazione da parte di Daniel Bell del prototipo confuciano, adattato da Singapore e Taiwan, e poi reso compatibile con il marxismo, in contrapposizione a tale modello neoconfuciano meritocratico, teorizzato da Bell, bisogna considerare la cosiddetta «teoria della linea di sangue politica» (zhengzhi xuetong lun): infatti anche Xi Jinping è un “Principino rosso”, fa parte di una “aristocrazia” di nuova generazione assurta ai vertici del Partito, che trae legittimità a governare perché gli antenati hanno versato il proprio sangue per il paese. È una classe dirigente sicuramente meglio formata e selezionata della nostra, ma in cui la meritocrazia è in declino.


* Fondazione Basso

Add comment

Submit