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lantidiplomatico

Le rivoluzioni colorate e la Cina: da Tienanmen a Hong Kong

di Domenico Losurdo

"In questi giorni, la stampa occidentale, anche quella di «sinistra», esprime il suo entusiastico appoggio ai rivoltosi di Hong Kong e rievoca Piazza Tienanmen. In effetti conviene prendere le mosse da questa tragedia per analizzare le manovre messe in atto dall’imperialismo contro la Repubblica popolare cinese. Riproduciamo qui, per gentile concessione dell'autore, alcune pagine di un libro di Domenico Losurdo appena pubblicato da Carocci". Con questa premessa di un'attualità imbarazzante, Marx 21 nel 2014 rilanciava un estratto fondamentale dell'intellettuale marxista che vi riproponiamo oggi nel giorno dell'anniversario dei fatti di Tiananmen del 4 giugno 1989. E' la migliore risposta possibile alle centinaia e centinaia di fake news sino-fobiche che leggete in questi giorni in cui il cuore dell'imperialismo è in fiamme

c8a89b28e418e2dae9a568fb52bf2dd31. Un terrorismo dell’indignazione coniugato al passato

Oltre che al presente, il terrorismo dell’indignazione può essere coniugato al passato. È possibile per così dire impiccare a un’immagine, vera o falsa e comunque accuratamente e strumentalmente selezionata, un concorrente, un potenziale nemico, un nemico da screditare o, più esattamente, da additare al pubblico ludibrio dell’opinione pubblica internazionale. Nel ricordare ogni anno la tragedia di Piazza Tienanmen, agli inizi di giugno i media occidentali ripropongono immancabilmente il fotogramma del giovane cinese che, disarmato, fronteggia con coraggio un carro armato dell’esercito. Il messaggio che si vuole trasmettere è chiaro: a sfidare la prepotenza e il dispotismo è un combattente della libertà al quale l’Occidente non si stanca di rendere omaggio e che solo in Occidente può trovare la sua patria elettiva.

Ma realmente tutto è così evidente? Realmente non c’è spazio per il dubbio e la sfumatura? Voler riflettere un po’, prima di introiettare e far proprio il messaggio manicheo che viene proposto o che si cerca di imporre, è solo sinonimo di atteggiamento sofistico e di sordità alle ragioni della morale? Il terrorismo dell’immediata percezione e indignazione è in agguato. Chi voglia evitare di cadere in trappola farebbe bene a esitare per un attimo e a porsi alcune domande, prima di giungere a una conclusione non solo frettolosa ma soprattutto imposta prepotentemente dall’esterno.

Anche a volersi attenere agli anni più recenti, innumerevoli sono le foto che potrebbero assurgere a simbolo di violenza e di crudeltà. I grandi mezzi di informazione impegnati nella ricerca di immagini suscettibili di risvegliare o tener desta la coscienza morale dell’umanità avrebbero solo l’imbarazzo della scelta: potrebbero richiamare alla memoria le umiliazioni, le vessazioni e le torture subite dagli irakeni detenuti nella prigione statunitense di Abu Ghraib; oppure potrebbero riprendere il volto emaciato dei detenuti (senza processo) di Guantanamo, impegnati in uno sciopero della fame spezzato dalle autorità carcerarie con una degradante alimentazione forzata e largamente ignorato dai media occidentali. Oppure, se si vuole qualcosa di più forte, perché non dare spazio alla figura del «ribelle» che in Siria degusta il fegato estratto dal cadavere del soldato del regime odiato e combattuto dall’Occidente?

Ci si vuole concentrare esclusivamente sugli avvenimenti di piazza Tienanmen? Prendiamo atto che è già avvenuta una prima selezione. Ma ecco subito intervenire una seconda. Sempre in relazione a quegli avvenimenti, si potrebbe far ricorso alla foto, che circola su Internet, del soldato cinese arso vivo dai manifestanti e poi impiccato a un traliccio. A voler rinunciare alle immagini visive, in modo da concedere un minimo di spazio alla riflessione, ci si potrebbe affidare alle descrizioni contenute nei Tienanmen Papers, in Occidente pubblicati con grande clamore e in seguito a una presunta operazione clandestina e celebrati come la rivelazione definitiva delle infamie che invano il regime al potere in Cina cerca di occultare. Grazie alla lettura ci imbattiamo in circostanze e particolari inaspettati:

«Improvvisamente è sopraggiunto di corsa un giovane, ha gettato qualcosa in un autoblindo ed è fuggito via. Alcuni secondi dopo lo stesso fumo verde-giallastro è stato visto fuoriuscire dal veicolo, mentre i soldati si trascinavano fuori e si distendevano a terra, in strada, tenendosi la gola agonizzanti. Qualcuno ha detto che avevano inalato gas venefico. Ma gli ufficiali e i soldati nonostante la rabbia sono riusciti a mantenere l’autocontrollo».

Basterebbe concentrare l’attenzione sugli spasmi e l’agonia dei soldati colpiti dal gas venefico per far cambiare radicalmente direzione alle correnti della commozione e dell’indignazione: la prima si rivolgerebbe all’Esercito popolare di liberazione (che nonostante tutto riesce a «mantenere l’autocontrollo»), la seconda investirebbe i manifestanti, non solo tutt’altro che disarmati ma pronti a far ricorso ad armi chimiche. Continuiamo a leggere:

«Più di cinquecento camion dell’esercito sono stati incendiati in corrispondenza di decine di incroci […] Su viale Chang’an un camion dell’esercito si è fermato per un guasto al motore e duecento rivoltosi hanno assalito il conducente picchiandolo a morte […] All’incrocio Cuiwei, un camion che trasportava sei soldati ha rallentato per evitare di colpire la folla. Allora un gruppo di dimostranti ha cominciato a lanciare sassi, bombe molotov e torce contro di quello, che a un certo punto si è inclinato sul lato sinistro perché uno dei suoi pneumatici si è forato a causa dei chiodi che i rivoltosi avevano sparso. Allora i manifestanti hanno dato fuoco ad alcuni oggetti e li hanno lanciati contro il veicolo, il cui serbatoio è esploso. Tutti e sei i soldati sono morti tra le fiamme» (Nathan, Link 2001, pp. 435 e 444-45).

Soffermiamoci un attimo sull’ultimo episodio: soldati si vedono condannati a morte nel momento stesso in cui cercano di risparmiare la vita e la stessa salute dei loro aggressori. Ecco un altro possibile simbolo della crudeltà umana, che però verrebbe a essere raffigurata non dal partito comunista al potere in Cina, bensì dai «dissidenti» coccolati e appoggiati dall’Occidente.

Ma immaginiamo che, per una ragione qualsiasi, a essere considerata particolarmente emblematica sia la figura del giovane cinese che fronteggia il carro armato. Ebbene, tale fotogramma fa parte di una sequenza. Come reagisce il carrista al giovane disarmato che lo sfida: lo travolge e lo schiaccia, lo falcia con la mitragliatrice o, invece, lo evita? A tale proposito, i Tienanmen Papers danno la parola a un membro della leadership di Pechino:

«Abbiamo visto tutti le immagini del giovane uomo che blocca il carro armato. Il nostro carro armato ha ceduto il passo più e più volte, ma lui stava sempre lì in mezzo alla strada, e anche quando ha tentato di arrampicarsi su di esso i soldati si sono trattenuti e non gli hanno sparato. Questo la dice lunga! Se i militari avessero fatto fuoco, le ripercussioni sarebbero state molto diverse. I nostri soldati hanno eseguito alla perfezione gli ordini del Partito centrale. E’ stupefacente che siano riusciti a mantenere la calma in una situazione del genere!» (Nathan, Link 2001, p. 486).

Se si venisse a sapere dell’ostinazione del giovane disarmato a sfidare il carrista che con altrettanta ostinazione s’impegna a salvare la vita e l’incolumità dello sfidante, forse in tal caso il rispetto, la simpatia e l’ammirazione dello spettatore ideale non si rivolgerebbero esclusivamente in una direzione. Una cosa è certa: nel riproporre l’immagine del giovane che sfida il carro armato e nell’eliminare l’immagine del carrista impegnato a evitare di investirlo, i media occidentali procedono a una terza selezione. E, dunque, ben lungi dall’essere sinonimo di evidenza immediata, il fotogramma assurto a emblema della tragedia di Piazza Tienanmen non è né immediato né ha un significato di per sé evidente. Non è immediato perché è il risultato di una selezione così accurata da essere triplice. Non ha un significato di per sé evidente perché, nonostante l’accurata e molteplice selezione alle sue spalle, esso, a ben guardarlo o a ben inquadrarlo, potrebbe avere un significato ben diverso e persino opposto rispetto a quello che l’ideologia dominante gli attribuisce: in circostanze analoghe, nei territori palestinesi occupati, il carrista israeliano (e occidentale) dà prova del medesimo autocontrollo del carrista cinese?

Negli ultimi anni a gettare nuova luce sugli avvenimenti di Piazza Tienanmen hanno provveduto voci insospettabili e autorevoli. L’ex cancelliere tedesco Helmut Schmidt ha ricordato che a Pechino l‘intervento militare fu deciso a causa del prolungarsi indefinito di una situazione intollerabile (i manifestanti bloccavano l’attività di governo e respingevano ogni compromesso). Soprattutto: i soldati chiamati a ristabilire l’ordine «hanno dapprima resistito, ma essi furono attaccati con pietre e bottiglie molotov e si sono difesi con le armi che avevano» (Schmidt 2012). E questa versione dei fatti è indirettamente confermata dall’allora ambasciatore statunitense a Pechino: il ricorso alle truppe fu deciso solo allorché «il governo si trovava ormai a essere privo di opzioni, al di là dell’assalto militare». Ma si trattava di una decisione chiaramente presa di malavoglia: i primi soldati inviati a sgomberare la piazza «facevano pensare più a una crociata di bambini che a una strategia militare». Erano «truppe disarmate». Dall’altro lato: «una folla adirata aveva distrutto dieci veicoli militari». I soldati furono costretti a ritirarsi. L’attaché militare statunitense, il generale Jack Leide, poteva commentare con professionale soddisfazione: il fiasco dell’Esercito popolare di liberazione era «una versione cinese della ritirata di Napoleone da Mosca» (Lilley 2004, pp. 309 e 311-12). Inevitabile era un rinnovato tentativo di sgomberare la piazza, ma è bene non perdere di vista un punto essenziale: «Deng non ordinò un massacro». Nella misura del possibile egli cercava di evitare lo spargimento di sangue o di ridurlo al minimo. In effetti, le scene descritte dall’allora ambasciatore statunitense sono eloquenti: ecco un soldato saltare dal suo mezzo cingolato per evitare di essere «bruciato vivo». Oppure: studenti «che portavano con sé taniche di benzina cercarono, nell’angolo Nord della piazza, di dare alle fiamme veicoli dell’esercito ma furono arrestati dai soldati» (Lilley 2004, pp. 316, 318 e 320).

Allorché ripropongono, almeno una volta all’anno, il fotogramma di cui ci stiamo occupando, i media occidentali denunciano al tempo stesso la censura esercitata dalle autorità cinesi. In effetti, queste compiono sforzi disperati per cercare di bandire le immagini dell’«incidente di Piazza Tienanmen». Sennonché, a questo punto s’impone la domanda forse più inquietante: a manipolare la verità di più e più in profondità è la censura cinese o l’apparente mancanza di censura di cui l’Occidente si vanta? Nel primo caso abbiamo senza dubbio a che fare con una mutilazione della verità: un pezzo viene cancellato. Nel secondo caso, ben lungi dall’essere cancellato, quel pezzo, quel fotogramma, risultato di un triplice processo di selezione, viene ossessivamente mostrato e esibito, e tuttavia questa verità è ora solo un momento del falso complessivo. Peggio, tale verità è ora parte integrante non solo del falso, ma di un falso che mira a inibire la riflessione e l’argomentazione razionale e a produrre, come una sorta di riflesso condizionato, un’indignazione manipolata e suscettibile di essere strumentalizzata per fini inconfessabili. È già all’opera la prima funzione bellica della società dello spettacolo (la demonizzazione del nemico o del potenziale nemico), mentre è in agguato la seconda, la riduzione a spettacolo della violenza esercitata in nome della causa umanitaria dei diritti dell’uomo. Forse lo storico futuro collocherà l’immagine del giovane cinese che fronteggia il carro armato accanto alle immagini o alle «notizie» relative all’affondamento dell’incrociatore Maine, del piroscafo Lusitania e delle navi affondate a Pearl Harbor o «attaccate» nel Golfo del Tonchino; e forse lo storico futuro si interrogherà sulla carica di violenza insita in un’immagine che pretende di voler raffigurare la condanna della violenza in quanto tale.

 

2. Il «dispotismo illuminato» a Piazza Tienanmen

Sì, la verità dell’immagine del giovane che fronteggia il carro armato è solo un momento del falso complessivo. Mediante il terrorismo dell’immediata percezione e indignazione mira a impedire la riflessione e l’interrogazione: se non la causa della non-violenza, il movimento di Piazza Tienanmen rappresentava in modo inequivocabile la causa della democrazia? Non pochi dei manifestanti guardavano con simpatia e ammirazione a Zhao Ziyang. Prima di ascendere ai vertici della dirigenza cinese, questi «si era fatto notare reprimendo le ultime turbolenze della sinistra radicale» nel Sichuan; al momento della crisi della primavera del 1989 egli era fautore di «una soluzione “neo-autoritaria”, paternalista e tecnocratica» (Domenach, Richer 1995, pp. 697 e 550). Si trattava di un dirigente noto e apprezzato (in certi circoli cinesi e internazionali) quale campione di un «dispotismo illuminato» (Minqi Li 2008, p. XI). Non ci sono dubbi: «Zhao non era un democratico. In quegli anni mirava a promuovere l’economia di mercato con il pugno di ferro». Nelle agitazioni in corso egli vedeva e cercava la sua grande occasione:

«Le “masse” in buona parte erano state autorizzate da esponenti riformisti del PCC a dimostrare, ed erano state condotte alle manifestazioni con camion e autobus delle fabbriche, degli uffici pubblici, dei ministeri. Allo stesso modo il supporto logistico agli studenti era stato offerto da funzionari e imprenditori privati vicini a Zhao Ziyang» (Ferraro 2001).

Quest’ultimo – sottolineano due autori statunitensi – era da considerare «probabilmente il leader cinese più filo-americano nella storia recente»(Bernstein, Munro 1997, p. 39). Ma cosa ammirava egli negli Stati Uniti e cosa la dirigenza statunitense apprezzava in lui? A stimolare il rapporto simpatetico tra le due parti era l’amore della libertà o piuttosto il decisionismo neoliberista, pronto all’occorrenza a far ricorso anche a misure «neo-autoritarie» e persino «dispotiche»?

A questo punto ci si può porre una domanda ulteriore: la rivolta di Piazza Tienanmen è stata un avvenimento del tutto interno alla Cina? Un colloquio è rivelatore. Allorché, qualche tempo dopo la tragedia, gli inviati del presidente Bush sr. si recavano a Pechino per conferire con Deng Xiaoping, questi si lamentava con loro per il fatto che gli USA risultavano «profondamente coinvolti» negli avvenimenti di piazza Tienanmen e aggiungeva: «Per essere franchi, ciò poteva persino condurre alla guerra» (Kissinger 2011, pp. 418-19). A parlare in tal modo era uno statista noto per il suo pragmatismo e la sua prudenza, un teorico del «basso profilo» sulla scena internazionale che per di più in quel momento aveva tutto l’interesse a ricucire i rapporti con Washington, anche al fine di sfuggire all’isolamento diplomatico e commerciale. E a riportare tale dichiarazione è un campione della Realpolitik che non sente il bisogno di respingere un’accusa così dura e che non riferisce di una risposta polemica da parte degli interlocutori statunitensi del leader cinese.

Non solo Deng non viene smentito, ma la sua lettura dei fatti è oggi indirettamente confermata da un autorevole testimone. Si tratta dell’allora ambasciatore statunitense in Cina. Egli ricorda che in quei giorni «dieci appartamenti dell’Ambasciata furono colpiti da più di cento pallottole» sparate dall’esercito cinese impegnato a dare la caccia – questa la versione delle autorità di Pechino – a «un cecchino che aveva ucciso un soldato di una colonna in ritirata». L’ambasciatore statunitense riferisce di aver commentato subito dopo la sparatoria: «Penso che i cinesi stiano tentando di inviarci un messaggio» (Lilley 2004, p. XII). Già, ma quale?

Lo possiamo desumere da altri particolari di questa testimonianza. Mentre il confronto tra studenti e governo cinese si inaspriva, ecco l’«attaché militare» dell’ambasciata statunitense a Pechino prendere accordi e lavorare fianco a fianco «con le sue controparti nelle ambasciate australiana, britannica, canadese, francese, tedesca e giapponese». Con quale obiettivo?

«Essi si divisero la città in settori e si scambiarono informazioni ottenute grazie a pattuglie. Alla fine di maggio, in risposta all’attenuarsi della crisi, gli attaché militari delle diverse ambasciate istituirono posti di ascolto a tempo pieno in luoghi della città precedentemente scelti. Con una mossa lungimirante, il generale Jack Leide, l’attaché militare dell’ambasciata statunitense, si dette da fare per ottenere e ottenne il permesso di affittare stanze di albergo per i controllori USA. Oltre a una stanza al Fuxingmen Hotel sulla parte occidentale della città, prenotammo due stanze laterali al Peking Hotel, immediatamente a Nord-Est di piazza Tienanmen, che ci consentivano una chiara visione della piazza. Inoltre Leide equipaggiò i suoi uomini con radiotelefoni portatili (walkie-talkies) contrabbandati dall’estero. Era una violazione del protocollo diplomatico, per il fatto che alle missioni diplomatiche non è consentito di mantenere all’interno della Cina la loro radio privata di comunicazioni, ma nel commettere tale violazione mi sono tuttavia sentito a mio agio» (Lilley 2004, p. 306).

L’attività promossa dagli attaché militari delle ambasciate dei più importanti paesi (occidentali o filo-occidentali), dispiegata grazie a strumenti vietati e illegalmente contrabbandati e diretta da un «lungimirante» generale statunitense, mirava solo a seguire in diretta la crisi o anche a influenzarla? Facendo tesoro dell’«eccellente» conoscenza del «mandarino» di alcuni suoi membri, «il nostro [statunitense] staff diplomatico a Pechino aveva stabilito solidi rapporti con membri dell’esercito, del movimento studentesco e della classe intellettuale»; e tali rapporti erano suscettibili di conseguire cospicui «dividendi» (Lilley 2004, pp. 314 e 306). Quali possono essere i «dividendi» derivanti dal rapporto con membri e settori dell’esercito cinese?

Come chiarisce il risvolto di copertina del suo libro, l’autore di questa testimonianza «ha prestato servizio per circa trenta anni nella CIA a Tokyo, Taiwan, Hong Kong, Laos, Bangkok, Cambogia e Pechino prima di entrare agli inizi degli anni ’80 nel Dipartimento di Stato e di iniziare una brillante carriera diplomatica». Era solo un caso che a dirigere l’attività frenetica appena vista fosse un diplomatico con una consolidata esperienza di agente della CIA alle sue spalle? In quei giorni era presente nella capitale cinese anche Gene Sharp (Engdahl 2009, p. 93), il teorico delle rivoluzioni colorate. Siamo in presenza di un’altra casuale coincidenza? E come spiegare allora che, sempre in quel periodo di tempo, Winston Lord, ex-ambasciatore a Pechino e consigliere di primo piano del futuro presidente Clinton, non si stancasse di ripetere che la caduta del regime comunista in Cina era «una questione di settimane o mesi» (Bernstein, Munro 1997, p. 95)? E a cosa mirava la contraffazione della «testata del “Quotidiano del popolo”», l’organo ufficiale del Partito comunista cinese (Nathan, Link 2001, p. 324), e chi era il responsabile di una operazione così sofisticata e suscettibile di lacerare in due frazioni contrapposte il Partito al potere e lo Stato in quanto tale?

Ci ritorna in mente la messa in guardia di Deng Xiaoping, non contraddetta né da Kissinger né da alcun membro della delegazione statunitense: gli USA si erano resi responsabili di un’operazione che poteva «condurre alla guerra». E cosa poteva essere questa operazione, questo casus belli, se non un tentativo di colpo di Stato pilotato dall’esterno e mirante forse a portare al potere «il leader cinese più filo-americano», quello pronto a far ricorso a un «dispotismo illuminato» in chiave neoliberista? Visti retrospettivamente, gli incidenti di piazza Tienanmen del 1989 si presentano come la prova generale dei colpi di Stato camuffati ovvero delle «rivoluzioni colorate», che si sarebbero susseguite negli anni successivi.


(Ripreso da Domenico Losurdo, La sinistra assente. Crisi, società dello spettacolo, guerra, Carocci, Roma)
http://www.marx21.it/storia-teoria-e-scienza/marxismo/24535-la-sinistra-assente-di-domenico-losurdo.html

 

Comments

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Alfonso
Monday, 08 June 2020 23:15
Caro Mario Viola, pur preso da un moto d'affetto generazionale, criticherei la tua definizione di 'politica' imperialista prendendo a prestito [sic!] quanto dice Paolo: "Sull'imperialismo verso i Paesi africani (e non solo) hai perfettamente colto nel segno: esportazione di capitali e tecnologia (e persino di manodopera nella "loro" cantieristica) e importazione di materie prime è uno dei tratti distintivi....." dell'imperialismo appunto, caratteristica economica prima che politica. E sarei contento di ricevere il tuo pensiero in forma critica. Duellare a colpi di testi con un compagno medico? Che strana tenzone! Un abbraccio
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Paolo Selmi
Monday, 08 June 2020 16:59
PS dimenticavo di dirti che concordo con tutte e quattro le obiezioni che poni.
1. non solo i contadini sono vincolati a non emigrare verso le città, ma se lo fanno lo fanno a loro rischio e pericolo perché sono trattati alla stregua dei nostri immigrati irregolari. Ciò nonostante, lo hanno fatto fino a tre mesi fa, perché la differenza fra salari di campagna e salari di città era abissale. Il fatto che, dopo il Capodanno cinese non siano rientrati in molti, è dovuto alla crisi che attanaglia attualmente l'industria cinese (per mancanza di ordinativi dall'estero) e che quindi renderebbe il loro precariato del tutto inutile ai fini di un salario da fame ma sicuramente maggiore di quello che piglierebbero da salariati nelle campagne. Quindi, preferiscono restare nelle campagne.
2. Sull'imperialismo verso i Paesi africani (e non solo) hai perfettamente colto nel segno: esportazione di capitali e tecnologia (e persino di manodopera nella "loro" cantieristica) e importazione di materie prime è uno dei tratti distintivi dell'economia della dipendenza che da mezzo secolo critichiamo perché foriera di catene per economie che non riusciranno mai a risollevarsi. E il discorso potrebbe continuare con le minere di metalli rari nella Repubblica democratica del Congo, con le confezioni in Etiopia, ecc.
3. Sulla crescente finanziarizzazione del capitalismo con caratteristiche cinesi, sul ruolo pivotale di Hong Kong, e sulle borse di Shanghai e Shenzhen avevo svolto anni fa alcune ricerche per certi versi ancora attuali e raccolte qui negli ultimi capitoli: https://www.academia.edu/37305627/Riportando_tutto_a_casa._Appunti_per_un_nuovo_assalto_al_cielo
4. Anche qui non posso che concordare, la legge fondamentale che regola i rapporti economici di questo moto-modo di produzione globalizzato e globalizzante non fa eccezioni. Anni fa, quando ancora a queste latitudini riuscivamo a scroccare la televisione elvetica, su LA1 avevano passato questo documentario finlandese (in italiano!):
Punaisen metsän hotelli (2011)
http://www.redforesthotelthemovie.com/
Mai passato per ovvi motivi in italia (anche se doppiato da noi a uso e consumo del canton ticino). Parla di una multinazionale svedese (non è l'IKEA, perché si ferma un gradino più in su della filiera, quella della polpa di legno) e dell'esproprio delle terre ai contadini cinesi per la "green economy"... di pioppi e altri alberi a crescita veloce da caricare subito su container. D'altronde, anche la foresta siberiana non è infinita...

Ti dovevo queste quattro risposte, pur brevi.
ciao!
paolo
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Mario Galati
Monday, 08 June 2020 15:59
Chiedo scusa se sono telegrafico, ma non è per mancanza di rispetto, quanto perché non ho oggettivamente tempo di sviluppare un ragionamento.
1- La Cina ha sottratto dai 600 agli 800 milioni di persone dalla povertà. Gran parte di questi sono contadini. Non mi risulta che i contadini si siano impoveriti rispetto al passato. La terra, e il ritorno alla comunità di provenienza del contadino urbanizzato che ha perso il lavoro, è una specie di ammortizzatore sociale (che, tra l'altro, non ha consentito il formarsi di slums alle periferie delle metropoli cinesi).
2- Qualificare politica espansionistica la politica cinese con l'Africa è un colossale errore di capitolazione alla propaganda occidentale. È chiaro che la Cina persegue i suoi interessi, ma con modalità del tutto diverse dalle nostre e con benefici anche per gli africani.
3-Anche sull'inquinamento e l'ambiente le cose stanno in termini diversi da quelli propagandistici occidentali. La Cina è all'avanguardia nelle tecnologie ambientali; è una delle pochissime aree al mondo dove la superficie boschiva sta crescendo e non diminuendo (ci sono programmi, risorse e personale pubblico addetto alle operazioni di rimboschimento). Il programma del partito comunista cinese ha messo il miglioramento e benessere ambientale tra i primi punti.
Dopo i primi decenni di sacrificio (anche ambientale) le cose stanno svoltando nella direzione programmata dal partito comunista (sottolineo comunista, e non solo di nome).
Invito vivamente il compagno Mario Viola a leggere i tanti testi di Losurdo che trattano questi e altri temi, soprattutto il senso storico complessivo e per la stessa teoria marxista e il movimento dei lavoratori, dell'esperienza cinese. La chiarezza e incisività di Domenico Losurdo non renderanno faticosa la lettura.
Chiedo anticipatamente scusa se non potrò dare seguito all'eventuale discussione per urgenti impegni di qualche giorno.
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Paolo Selmi
Monday, 08 June 2020 15:24
Caro Mario,

da parte mia non ho assolutamente nessuna critica da farti: non perché sia d'accordo con la tua ideologia, che ha contrassegnato la tua vita intera da militante e intellettuale, ma perché vedo in quanto scrivi una perfetta aderenza, coerenza, rigore analitico nel cercare di applicarla all'oggi, senza "trucchi", senza cercare di far rientrare ex-post dalla finestra ciò che per una vita hai buttato fuori dalla porta.

La mia critica è a monte e 500 pagine di tesi di dottorato non sono bastate a svilupparla appieno. Non avrei, del resto, neppure il tempo e le energie oggi di alzarmi alle cinque e lavorare prima delle otto ore, per poi chiudere la giornata con un'altra oretta.

Sono infine da due anni coinvolto in un altro progetto che mi impegnerà, se le forze mi sosterranno e se il destino non mi riserverà qualche scherzo, per almeno altri due o tre anni.

La mia tesi di dottorato la trovi qui: https://www.academia.edu/3394081/Il_substrato_confuciano_e_tradizionale_del_marxismo_di_Mao_Zedong

Lascio a te le conclusioni, ma questo te lo posso scrivere, e in totale sincerità: il mio è stato un percorso di ricerca che è partito ben prima di essere arrivato secondo al concorso e sta proseguendo ben oltre i tre anni canonici di lavoro previsti dal piano di studi. Le conclusioni a cui giungo sono per me scoperte. Parto convinto di trovare una cosa e ne individuo un'altra, che pone continuamente in discussione le certezze da cui ero partito per cercare di "pilotare", almeno per sommi capi e restringere, quindi, il campo di ricerca. Ma è un lavoro che mi fa bene, perché s-coprire e com-prendere sono parti di uno stesso movimento. E studiare su Mao in originale, non tanto inteso come originale cinese, ma come prima scrittura originaria e, quindi originale, prima delle foglie di fico messe da solerti correttori di bozze su scritti finiti e pubblicati pur di renderli "ortodossi" nell'edizione delle Opere scelte e bene accetti al Correttore che, in quel momento, rappresentava per la giovane Repubblica Popolare il lao dage (老大哥), il "grande fratello maggiore", mi ha aiutato non solo a capire Mao, ma la Cina di oggi.

Sempre nella stessa pagina di academia.edu, trovi anche i contatti via mail perché ora in teoria ti sto scrivendo da una pausa e su certi argomenti preferisco scrivere dopo cena (la stanchezza e l'abbiocco aiutano, fin troppo anche, la capacità di sintesi).

Ti saluto che la sigaretta è finita.
Ciao
Paolo
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mario viola
Monday, 08 June 2020 11:05
Salve, sono un compagno medcio in pensione che ha militato negli anni della gioventù nel PC-ML, lottando per portare avanti gli insegnamenti del GRANDE TIMONIERE. Non sono un "pentito" di quella esperienza ed ho sempre continuato, anche nel mio lavoro, oltre che nel privato, a lottare per una società più giusta. Credo però a leggere l'articolo riportato del compagno Losurdo, ho avuto l'impressione che qualcosa sia sfuggita in questa analisi. Mi riferisco al fatto che centrare l'attenzione solamente sulla immagine che viene regolarmente sfruttata dai media occidentali, sia riduttivo rispetto ad una analisi seria della "evoluzione" (involuzione?) del sistema cinese, che a mio modesto parere ha ormai ben poco che possiamo definire NUOVA VIA AL SOCIALISMO. E porto alcune brevi considerazioni a tal proposito. 1) Lo sviluppo in senso capitalistico del paese sta portando ad un impoverimento della classe dei contadini (una dei due pilastri che hanno guidato la marcia cinese verso il socialismo); 2) la politica espansionistica della Cina moderna verso i territori africani, frutto di una politica che a me sembra piuttosto di tipo imperialistico, anzicchè di liberazione ed uguaglianza tra i popoli; 3) La presenza di supermiliardari cinesi che fanno oramai ridere anche tantissimi paperoni del mondo capitalistico; 4) La distruzione dell'ambiente e l'inquinamento conseguente allo sviluppo di una economia basata sulla "industrializzazione forzata".
Sono solo pochi esempi, dei quali credo occorre tener conto per una analisi più serena ed attenta, secondo i principi del marxismo-leninismo e dello stesso maoismo, vista che la lotta di classe in Cina ha visto la sconfitta di quei principi che proprio alla nostra amata ideologia faceva riferimento. Un saluto comunista e mi piacerebbe riceve delle critiche ai miei pensieri. SALUTI COMUNISTI
Mario Viola
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