Print Friendly, PDF & Email

comuneinfo

Non ce ne andremo. Parlano le donne

di Aseel Jundi

Muna and Nabil al Kurd 1320x880Probabilmente tra qualche giorno del quartiere di Sheikh Jarrah di Gerusalemme Est, dove migliaia di palestinesi vivono in case su cui pendono come macigni gli ordini di demolizione, non si parlerà più. Il ministero degli esteri israeliano ha detto che i “terroristi stanno presentando una controversia immobiliare tra privati ​​per incitare alla violenza a Gerusalemme”. L’articolo che trovate qui sotto, racconta chi sono quei terroristi, anzi quelle terroriste, visto che le donne stavano assumendo ruoli preminenti in questo nuovo episodio di una resistenza che uno degli eserciti più potenti del mondo non riesce a cancellare da oltre settant’anni. Abbiamo scritto “stavano”, perché non saranno le donne, arabe o israeliane, a decidere quel che avverrà nei prossimi giorni. Non sarebbe possibile, perché la guerra, i missili, i razzi, i fiumi di sangue versato si prenderanno ancora una volta l’intera scena. Una scena patriarcale. Il volume di fuoco mediatico sull’opinione che “conta”, quello con il quale Israele vince le sue guerre da decenni, riuscirà a cancellare perfino le granate lanciate dalle forze di occupazione negli “scontri” all’interno della moschea di Al Aqsa, il terzo luogo più santo dell’Islam. Lo Statuto di Roma del 1998, che istituì la Corte Penale Internazionale all’Aia, dichiara che chiunque “diriga intenzionalmente attacchi contro edifici dedicati al culto, all’educazione, all’arte, alla scienza o a scopi umanitari [oppure] a monumenti storici” commette un crimine di guerra. Non è necessario che si riscontrino danni significativi – lo statuto considera un crimine l’attacco in sé, non le conseguenze. Crimini di guerra. A questa notte, la notte di venerdì 14 maggio, sono 103 palestinesi uccisi, tra i quali 27 bambini e adolescenti e 11 donne.

I feriti 580. I morti isreliani dovrebbero essere ancora 7. Nessuna di quelle morti ha la benché minima giustificazione, sia chiaro, ma presto com’è sempre avvenuto, i morti non si conteranno più. E a nessuno dovrebbe essere ancora consentito, in un regime di evidente Apartheid, confondere le ragioni dell’ennesimo massacro che piove dal cielo su Gaza mentre il terrore dei carri con la stella di Davide prepara una nuova invasione. È la terra, la fame insaziabile di terra, la causa di tanto orrore.

* * * *

Da dietro le linee, le donne di Sheikh Jarrah stanno conducendo la propria lotta per salvare il quartiere dal piano di Israele di appropriarsi della terra su cui loro e le loro famiglie sono state allevate da generazioni.

Mi incatenerò nella mia stanza se dovessero fare irruzione nella nostra casa per espellerci con la forza”, dice Muna al-Kurd, 23 anni, la cui famiglia vive sotto la minaccia di sfratto a Karm al-Jaouni a Sheikh Jarrah, nella Gerusalemme Est occupata. “Non lascerò la mia casa di Sheikh Jarrah.”

Mentre i palestinesi vengono attaccati dalle forze israeliane e dai coloni per aver difeso il diritto a rimanere nelle loro case, Muna, l’unica giornalista del quartiere, raramente può essere trovata a casa.

Si è infatti resa prontamente disponibile per documentare le violazioni quotidiane da parte dei coloni israeliani e delle forze di occupazione.

Middle East Eye l’ha incontrata vicino alla casa di famiglia, dove ha condiviso la sua storia su come le donne di Sheikh Jarrah trascorrono il loro tempo tra la tensione crescente, l’oppressione quotidiana e la crescente solidarietà da parte degli attivisti, mentre devono fare i conti con gli ordini di sfratto a favore dei coloni.

L’esperienza di Muna con i soprusi israeliani è iniziata nel 2001, tre anni dopo la sua nascita, quando una parte della sua casa venne chiusa e le chiavi confiscate come preludio al trasferimento della casa ai coloni.

‘Vado a dormire vestita e con l’hijab per paura di eventuali incursioni improvvise - Nuha Attieh, residente a Sheikh Jarrah

“Alcune delle prime storie che ho sentito e di cui ho raccontato erano storie di sfratti ed espulsioni che hanno minacciato alcuni residenti del quartiere, fino a quando la minaccia non ha bussato alle nostre porte”, dice Muna.

“Sono cresciuta e sono maturata con concetti come il diritto internazionale, i crimini di guerra, con la terminologia dei crimini contro l’umanità e ad altre espressioni simili”.

I coloni vivono nella casa degli Al Kurd dal 2009.

Oggi, Muna si ritrova a ripetere queste stesse espressioni sui social media e con le testate giornalistiche, assumendosi la responsabilità conferitole come giornalista dai residenti di Sheikh Jarrah di raccogliere sostegno internazionale.

Muna sostiene da tempo Sheikh Jarrah. Due mesi fa, ha lanciato una campagna con l’hashtag #SaveSheikhJarrah per evidenziare la difficile situazione della gente del quartiere.

 

Senza respiro

A Sheikh Jarrah, le donne palestinesi stanno assumendo ruoli vitali e preminenti, dice Muna, partecipando alle riunioni dei residenti e al processo decisionale. Stanno anche prendendo iniziative individuali nei confronti degli attivisti, partecipando alle udienze presso i tribunali israeliani e monitorando da vicino la battaglia legale.

“Non posso citare la loro resilienza senza sottolineare come le donne del quartiere vivano sia in uno stato di incredibile paura per i loro mariti e figli sulla scia della quotidiana e brutale oppressione israeliana, sia in una profonda ansia derivante dal timore di essere sfrattate dalle loro case da un momento all’altro”, dice.

“Ho avuto per anni un incubo ricorrente, in cui sento che qualcuno cerca di cacciarmi da casa con la forza, mentre io cerco di resistere” –  Muna al-Kurd, residente a Sheikh Jarrah

“Dopo aver rotto il digiuno del Ramadan, le donne si affrettano a intrattenere gli attivisti offrendo loro tè, caffè o meloni freschi per smorzare il caldo della giornata, e poi quando gli attivisti se ne vanno corrono a sorvegliare la zona “, dice Muna con un sorriso, nascondendo con esso anni di costrizione.

La stessa impavidità Muna l’ha mostrata quando ha cercato di liberare suo fratello dalle mani delle forze speciali israeliane mentre lo stavano picchiando duramente. Il fratello è stato infine arrestato pochi giorni fa.

Alla domanda sulle sue paure, Muna dice che parlarne è doloroso e non poteva riassumerle in poche parole.

Sono nata e cresciuta a Sheikh Jarrah e non riesco a immaginarmi di vivere altrove”, dice. “A volte mi addormento e all’improvviso mi sveglio senza fiato“.

“Ho avuto per anni un incubo ricorrente, in cui sento che qualcuno cerca di cacciarmi di casa con la forza, e io cerco di resistere.”

Muna ribadisce che indipendentemente dal pericolo quotidiano che circonda lei e la sua famiglia da quando i coloni occupano metà della loro casa, e l’incombente minaccia di essere espulsa con la forza dalla parte rimanente, non si sentirebbe al sicuro da nessun’altra parte.

Prima che mia nonna morisse, non avevo una stanza tutta mia e dormivo nel soggiorno vicino alla finestra, dove immaginavo una mano che mi puntava addosso una pistola e mi sparava”, ha detto. “Tuttavia, rifiuto totalmente l’espulsione forzata.”

 

Una storia di spostamenti

Nel 1948, il padre di Muna, Nabil al-Kurd, fu costretto dalla milizia ebraica a lasciare la sua casa ad Haifa durante la Nakba palestinese, o Catastrofe. La sua famiglia fu tra le 28 che la Giordania, in collaborazione con l’agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati, UNRWA, decise di reinsediare a Gerusalemme nel 1956, in cambio della rinuncia ai propri diritti di rifugiati.

‘Mi sono sposato in questa casa e vorrei poter morire qui. Ogni singolo pezzo all’interno di queste mura e intorno ad esse ha un profondo significato per me’ - Salwa Skafi, residente a Sheikh Jarrah

Queste famiglie sono state selezionate e fornite di unità abitative costruite dal governo giordano, dopodiché, trascorsi tre anni, la proprietà sarebbe divenuta automaticamente loro.

Dopo l’occupazione di Gerusalemme nel 1967, con la parte orientale della città sotto il controllo israeliano, gli abitanti del distretto di Sheikh Jarrah restarono sorpresi quando nel 1972 due comitati ebraici registrarono la loro proprietà della terra di 18 dunam presso il Land Department.

Di conseguenza, dozzine di casi giudiziari sono stati sollevati nei tribunali israeliani, poiché le 28 famiglie palestinesi originarie si erano espanse e il numero di residenti che dovrebbero essere sfrattati a favore dei coloni è salito a 500, inclusi 111 bambini.

Nel 2001, con la crescita della sua famiglia, Nabil completò l’ampliamento della sua casa. Tuttavia, quattro giorni prima che la famiglia potesse trasferirsi, le autorità di occupazione israeliane ne confiscarono le chiavi.

Nel 2009, i coloni israeliani si sono trasferiti e hanno occupato la casa, trasformando la vita della famiglia in un inferno attraverso continue molestie.

Ora sulla settantina, Nabil e altre tre famiglie di Sheikh Jarrah stanno aspettando che la Corte Suprema di Israele raggiunga un verdetto riguardo il loro sfratto. La corte aveva rinviato la sua decisione la scorsa settimana a causa dell’escalation delle tensioni.

 

Salwa Skafi

Dalla casa della famiglia Al Kurdi alla casa della famiglia Skafi, in direzione nord, si possono vedere le postazioni dei coloni vicino alla casa di Umm Kamel al-Kurd, che i coloni hanno occupato con la forza nel 2008.

Sul cancello di ferro della casa Skafi, si viene accolti da una targa con inciso in inglese “non lasceremo mai la nostra terra”. La sessantaduenne Salwa Skafi, la padrona di casa, vive lì dal 1976.

Ho dato alla luce tutti i miei figli e le mie figlie qui, e anche i miei nipoti sono nati qui”, dice Salwa a MEE.

“Ogni volta che mi viene in mente che potrei essere espulsa da questa casa, sento un nodo alla gola.

“Non godiamo più di un sonno calmo e viviamo sotto un’immensa costrizione, specialmente durante i periodi di deliberazioni giudiziarie israeliane, a cui ho voluto partecipare ultimamente”.

Salwa parla della sua grande preoccupazione per i figli e il marito malato in caso di sfratto. Ha poi ricordato il marito di Umm Kamel morto per un ictus celebrale dopo un mese dallo sfratto.

Mi sono sposata in questa casa e vorrei poter morire qui. Ogni singolo pezzo all’interno di queste mura e intorno ad esso significa molto per me ” dice.

“A volte penso di sradicare gli alberi nel cortile di casa mia, per timore che i coloni ne godano i frutti.

“In un paio di mesi l’albero di cachi maturerà e ogni giorno mi chiedo, chi mangerà i frutti quest’anno, noi o i coloni?”

Salwa descrive uno stato generale di frustrazione che prevale tra le donne del quartiere, che devono affrontare un destino duro e un futuro vago se gli sgomberi saranno effettuati.

Sheikh Jarrah Women 1 1320x816 

Nuha Attieh

Nuha Attieh, un’infermiera di 59 anni che vive a Karm al-Jaouni a Sheikh Jarrah, da quando si è sposata nel 1988, afferma che da quando nel 2008 la prima famiglia è stata sfrattata dal quartiere, non si è mai sentita al sicuro.

Questo Ramadan, le responsabilità delle donne sono state capovolte. Nuha non è più impegnata a preparare il pasto dell’iftar per la sua famiglia. Si sente invece più responsabile nei confronti degli attivisti e si precipita in loro aiuto quando se ne presenta la necessità. Si prende cura di loro offrendo tè, caffè e biscotti per farli sentire a casa.

Il trauma di vedere le forze israeliane fare irruzione nella casa dei loro vicini nel cuore della notte 13 anni fa, è servito solo ad amplificare il sentimento di insicurezza di Nuha.

“Ho visto le porte dei nostri vicini, la famiglia Al-Gawi, sfondate durante una notte buia, le donne buttate fuori con i loro indumenti da notte e sfrattate con la forza dalla loro casa”, dice Nuha a MEE.

“Questa scena non mi abbandona mai. Ricordo di aver preso dei vestiti e di averli dati alle donne.

Oggi, sulla scia della tensione in cui vive il quartiere, vado a dormire vestita e con l’hijab per paura di eventuali incursioni improvvise mentre ci confrontiamo con le bande dei coloni”.


Fonte in inglese: Middle East Eye

Traduzione in italiano per Invicta Palestina: Grazia Parolari “Tutti gli esseri senzienti sono moralmente uguali”

Add comment

Submit