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sinistra

L’Afghanistan nella morsa dello “scontro di civiltà”

di Eros Barone

niviveNel profluvio di commenti generati dal ritiro delle forze militari degli USA e della NATO dall’Afghanistan e dalla conseguente vittoria dei talebani raramente è stato posto a tema, anche solo ai fini di un confronto, l'intervento militare sovietico che ebbe luogo nel 1979 e che durò fino al 1989. Tale intervento, a differenza dell’invasione dell’Afghanistan attuata nel 2001 dall’imperialismo statunitense e dai suoi alleati occidentali, non solo derivava legittimamente da uno specifico trattato di amicizia e di cooperazione stipulato dai due rispettivi governi, ma poggiava altresì su un movimento democratico e popolare autoctono, il cui rappresentante più autorevole, ancor oggi ricordato con rispetto dalla popolazione di Kabul, era Mohammed Najibullah, ultimo presidente progressista del paese. Membro del Partito democratico popolare dell’Afghanistan (People’s Democratic Party of Afghanistan, Pdpa) dalla fine degli anni ’60, egli aveva diretto a lungo la polizia segreta, prima di essere messo a capo dello Stato nel 1986. Dopo il ritiro delle forze sovietiche nel 1989, Najibullah resistette al potere ancora per tre anni.

Come è noto, durante la guerra fredda i sovietici sostenevano Kabul, mentre gli Stati Uniti e il Pakistan appoggiavano i ribelli. Oggi, altre preoccupazioni hanno portato gli Stati Uniti ad abbandonare l’Afghanistan consegnando ai talebani, che essi non hanno mai smesso di sostenere sotto banco, una classe dirigente formata per la maggior parte dalle stesse personalità che lavoravano per Najibullah.

Dal canto suo, il Pakistan, vassallo favorito e alleato teorico degli Stati Uniti, ha continuato a sostenere i ribelli religiosi e tradizionalisti. Fu così che Najibullah, come accadrà poi ad altri leader antimperialisti (prima Milosevic e più tardi, in una analoga congiuntura, Gheddafi), venne abbandonato al suo atroce destino da due rinnegati del comunismo e venduti all’imperialismo quali Yeltsin e Gorbaciov, che spianarono la strada ai sicari appartenenti alle stesse bande cui gli USA hanno ora delegato, anche formalmente, il potere.

Sennonché va detto che per molti cittadini afghani la questione politica centrale è sempre stata molto semplice, poiché si riassume nella domanda che segue: «Non importa l’ideologia, avrò l’elettricità?». Orbene, ogniqualvolta queste persone hanno cercato di estendere la giurisdizione di Kabul sulle campagne, si sono trovate sistematicamente, a partire dagli anni ’20 del secolo scorso, di fronte all’opposizione furiosa delle forze legate alla proprietà terriera e all’oscurantismo religioso. Ma anche per i contadini la questione è altrettanto semplice, giacché si riassume nella domanda che segue: «Non importa l’ideologia, avrò l’acqua?». Questi bisogni essenziali, tuttora insoddisfatti, spiegano perché le bandiere di larghi settori del popolo afghano furono dapprima la monarchia costituzionale, quindi la repubblica presidenziale, poi il socialismo sovietico e infine il nazionalismo progressista di Najibullah, mentre sulla ‘democrazia liberale’, un regime fantoccio corrotto e legato al traffico di droga, imposto dagli USA e dalla Nato, vi è ben poco da dire, essendosi dissolto come neve al sole non appena i suoi padroni hanno annunciato il loro ritiro da quel paese. D’altra parte, non sorprende che gli ex comunisti siano stati in prima fila tra i modernizzatori e che li si ritrovasse ai livelli più alti di quello che portava il nome di governo afghano. È senza dubbio per questi motivi che ancora si appendevano ritratti di «Najib» a Kabul. La sua visione del mondo, nonostante tutti i suoi difetti, comprendeva l’elettricità e l’acqua: due conquiste che non possono essere realizzate con la guerra, tanto meno in una realtà che non sembra così distante da quanto scriveva Engels più di centosessant’anni fa circa l’indole del popolo afghano quale la giudicavano i paesi confinanti: «pericolosi vicini, capaci di essere sballottati dai venti più mutevoli o istigati da politici intriganti che eccitano astutamente le loro passioni».

I talebani, dal canto loro, hanno già annunciato la loro intenzione di instaurare la ‘Sharìa’ e quindi attendiamo che, da parte dell’Occidente, sempre così sensibile al tema dei diritti umani, si accenda la polemica sulla liceità del ‘burkini’ e si ridia fiato alle trombe dello “scontro di civiltà”. Ora, non vi è alcun dubbio che l’imposizione del velo sia una pratica biecamente oscurantista e liberticida, una manifestazione dell’oppressione delle donne legittimata dalla religione islamica, ossia da una religione che, non diversamente dal cristianesimo e da qualsiasi altra religione, è funzionale all’imperialismo. Può allora essere utile riflettere sulla categoria di islamofascismo, osservando che senz’altro fascismo e fondamentalismo islamico hanno in comune un’ideologia mistico-irrazionalistica, il rifiuto dell’illumini­smo, l’opposizione al comunismo ecc., cioè tutta una serie di elementi che hanno parallelamente favorito nell’Occidente capitalistico l’alleanza fra Chiesa cattolica, mondo protestante e fascismi. Sennonché, quando si fa uso del termine di islamofascismo occorre tenere presente che il fascismo è solo una delle forme politiche funzionali all’imperialismo, essendo caratterizzato, per un verso, dagli interessi del capitale monopolistico finanziario e, per un altro verso, dalla propaganda demagogica circa una fantomatica “terza via”, cioè dal corporativismo e dal­l’anticomunismo. Anche l’islàm sostiene infatti una “terza via” che, mantenendo gli assetti economici e proprietari capitalistici, li sussume in una dimensione corporativistica del tutto organica all’imperialismo, di cui il fascismo è una manifestazione specifica. Se si pensa poi al polo imperialistico emergente, costituito dall’Arabia Saudita, dalla Turchia, dal Pakistan e dagli Emirati Arabi del Golfo Persico, polo che sta dietro al fondamentalismo islamico e allo stesso terrorismo jihadista, non è difficile comprendere che il fondamentalismo islamico può essere uno strumento nelle mani di una parte del grande capitale arabo e quindi un fattore della lotta fra capitali. Inoltre, occorre considerare che la lotta al fondamentalismo e al terrorismo consente di giustificare le guerre imperialistiche all’esterno e le legislazioni limitative delle libertà all’interno, in modo da permettere agli esportatori della “civiltà”, dei “diritti umani” e della “democrazia” di instaurare una dittatura più o meno mascherata. In questo senso, “scontro di civiltà” e “islamofascismo” sono due facce della stessa medaglia, vale a dire di un’unica strategia che consiste nel mobilitare in senso reazionario le popolazioni dei centri dell’impe­rialismo superando divisioni di classe e politiche.

Accade così che all’interno dei paesi capitalistici dominanti il razzismo nei confronti dei lavoratori immigrati venga recuperato per impedire ogni collegamento fra proletariato autoctono e straniero. Che poi questo tipo di razzismo si basi sulla differenza etnica o su quella religiosa è del tutto indifferente per gli scopi della mobilitazione interclassista, come dimostra il fatto che lo stesso procedimento viene seguito dai sostenitori dell’islamismo politico nella lotta contro i “crociati” occidentali. Del resto, se per attaccare l’islàm viene denunciata la condizione di sottomissione delle donne nei paesi caratterizzati da questa religione, si rischia davvero di cadere nel ridicolo: non perché questa sottomissione non sia presente (per altro con grandi differenze tra i diversi paesi arabo-islamici), ma perché al­l’interno della “civiltà ebraica e cristiana occidentale” l’eguaglianza femminile è stata pagata al prezzo di strenue lotte. È difficile allora dimenticare che la motivazione ideologica fornita dagli imperialisti occidentali per giustificare l’invasione dell’Afghanistan riguardava (non l’obiettivo strategicamente fondamentale del controllo degli oleodotti ma) la liberazione delle donne. Potrebbe perciò essere opportuno ricordare come uno dei gruppi generosamente finanziati dagli USA nella lotta antisovietica in Afghanistan sia stato lo Hizb-i-Islami (Partito dell’Islàm) guidato da Gulbuddin Hekmatyar, noto sfiguratore, tramite acido, di donne “scostumate” che frequentavano l’università e non portavano il velo (nel­l’Afghanistan comunista, al contrario, le donne godevano di eguali diritti!).

In conclusione, la contrapposizione ideologica fra i fondamentalismi ha dietro di sé lo scontro interimperialistico per il controllo delle principali vie e fonti di approvvigionamento di materie prime ed energia e quindi, nel caso specifico, il conflitto fra le plutocrazie occidentali e quelle islamiche. Così, se da un lato appare sempre più chiaro che il fondamentalismo è espressione e strumento dell’impe­rialismo, dall’altro è evidente che ad incarnare in buona misura, anche se non esclusivamente, le aspirazioni di indipendenza nazionale dei paesi vittime del­l’aggressione imperialistica non vi è più il movimento comunista né il nazionalismo arabo di matrice laico-socialista, ma un movimento islamico interclassista, fascisteggiante ed ultrareazionario. Di fronte a questa situazione l’atteggiamento dei comunisti non può essere ovviamente quello dello “scontro di civiltà”, ma neppure quello antitetico-speculare di chi ritiene di dover sostenere come soggetti di una lotta antimperialista i mozzateste dell’Isis o le bande di al-Quaida o i tagliagole salafiti.

In fondo, anche i talebani lottano contro l’imperialismo, dopo esserne stati utili pedine. Tuttavia, contrariamente ai sermoni che dispensa il buonismo cattocomunista non basta far parte del cosiddetto “Sud del mondo” per essere i “buoni”, dimenticando che all’interno di questo Sud esistono le divisioni in classi e facendo finta di non vedere come lo “scontro di civiltà” sia l’aspetto sovrastrutturale di uno scontro di classi dominanti e capitali in contrasto fra di loro. Di fronte a questi movimenti che si definiscono anticapitalistici (si definiva così anche il fascismo) e antimperialisti bisogna invece ricordare che il fondamentalismo è, a seconda delle fasi politico-militari e delle convenienze tattiche, o lo strumento di un polo imperialistico emergente facente capo alle classi dominanti arabe o lo strumento dell’imperialismo occidentale facente capo agli USA o entrambe le cose. La storia, peraltro, insegna che la rivoluzione russa détte un fondamentale slancio alle lotte di indipendenza dei paesi sottomessi al dominio imperialistico e riguardo alle nazioni e agli Stati più arretrati, dove predominavano i rapporti feudali o patriarcali, Lenin è chiarissimo nel sottolineare «la necessità di lottare contro il clero e gli altri elementi reazionari e medievali, che hanno influenza nei paesi arretrati; la necessità di combattere il panislamismo e le analoghe tendenze che cercano di collegare il movimento di liberazione contro l’imperialismo europeo e americano con il rafforzamento della posizione dei ‘khan’, dei grandi proprietari fondiari, dei ‘mullah’ ecc.» [cfr. V. I. Lenin, “Tesi per il II congresso dell’Internazionale comunista”, 14.7.1920, “Opere complete”, Editori Riuniti, 1967, vol. xxxi, p. 164]. Questo discorso non ha perso un briciolo del suo valore: semplicemente oggi ai soggetti socio-economici indicati da Lenin vanno aggiunti gli interessi della finanza islamica e dei petrolieri arabi, strettamente collegati al quadro dello scontro interimperialistico e delle alleanze che ne possono derivare.

In buona sostanza, se di fronte alla nuova offensiva imperialistica si sviluppano lotte in difesa dell’indipen­denza nazionale, è nondimeno necessario, da un punto di vista comunista, capire quali siano gli obiettivi di classe dei combattenti, fermo restando il diritto di una legittima resistenza all’invasione. Infatti, la lotta può essere contrassegnata da interessi estranei a quelli del proletariato ed egemonizzata da soggetti che, a volte, esprimono visioni del mondo premoderne. Il fatto che poi questi movimenti, allevati e finanziati dall’imperialismo in funzione anticomunista, si siano in alcuni casi messi a mordere la mano che li aveva generosamente nutriti non toglie che la scelta degli imperialisti fosse corretta, avendo questi ultimi ravvisato in tali forze una radicale ostilità al marxismo e al comunismo.

Comments

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Romke
Saturday, 04 September 2021 09:57
Semplicemente, la borghesia Pashtun, che si esprime politicamente con i talebani, ha cavalcato la lotta contro l’imperialismo americano. Ora tenta di consolidare il potere (provando a formare un governo basato sulla Sharia afghana) contro la vecchia guardia, borghesia compradora al servizio degli imperialisti americani e occidentali (italiani compresi) e contro i signori feudali del nord. Compromessi con tali settori sociali però non sono da escludere. Obiettivo: far la pace con l’occidente (aiuti al paese sull’orlo della bancarotta) e gestire gli affari (minerari) con la Cina. La fine della “emergenza” della guerra contro gli occidentali sgombera il campo dall’unità nazionale e libera la strada a possibili sviluppi dello scontro di classe: il sostegno occidentale alla coltivazione del papavero (esplicitamente autorizzata nella propaganda nei villaggi), ha incrementato le aree coltivate con volumi di produzione in continuo aumento negli ultimi anni. Di conseguenza è aumentato il numero dei braccianti (spesso contadini/allevatori poveri rovinati dalla guerra) e degli operai dell’edilizia (boom di costruzioni nuove case finanziate dai papaveri). È probabile che questi proletari saranno il motore di rivendicazioni economiche e sociali (non ultima la condizione delle donne) e andranno sostenuti dai rivoluzionari di tutto il mondo
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