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sinistra

Afghanistan III

L’eredità geo-storica

di Alessandro Mantovani

La prima parte di questo lavoro potrete trovarla qui, la seconda qui

external contenthu8763234"L'Afghanistan è uno di quei luoghi del mondo su cui le persone che meno ne sanno più trinciano giudizi inappellabili" (Thomas Barfield, AFGANISTAN, A CULTURAL AND POLITICAL HISTORY, Princeton & Oxford, Princeton University Press, 2010, p. 274).

"Pochi conflitti sono stati trattati così tanto, fotografati così tanto e studiati così tanto senza facilitare né il processo decisionale né la conoscenza. Con poche eccezioni, gli studi seguono l'evoluzione delle strategie politiche per confermarle, piuttosto che informarle. Inoltre, molti studi sono compiacenti sull'intervento occidentale, demonizzano il movimento talebano e sono impregnati di paradigmi obsoleti e talvolta semplicistici” (Adam Baczco, Lo Stato e la guerra in Afghanistan 1978-2012, Irsem Fact Sheet No. 19, luglio 2012, http://www.defense.gouv.fr/irsem).

Uno degli effetti di vent’anni di presenza occidentale in Afghanistan è stato quello di favorire una pletora di studi su di un paese di cui pochissimo si sapeva, ed ancora poco si sa. Anche se la più parte è come vedremo viziata da una pregiudiziale griglia di lettura “tribalista” ed “etnicista1, non

mancano ovviamente i validi contributi2, in virtù dei quali ho calibrato il tiro rispetto alle mie valutazioni di quindici anni fa3.

A partire dalla destituzione di Daud del 1978, passando per l’invasione russa, la guerra civile, l’effimero primo regime talebano, fino alla sconfitta odierna dell’Occidente, l’Afghanistan ha vissuto un eccezionale periodo di conflitti, riforme e controriforme: non solo distruzione, miseria e morte ma anche, come in tutte le guerre (e le economie di guerra) grandi trasformazioni, di cui il tanto stamburato incremento dell’esportazione dell’oppio non è che un aspetto: dimensioni essenziali di queste trasformazioni l’esacerbazione della questione fondiaria, l’esplosione dell’urbanizzazione e la crescita dell’emigrazione, che verranno trattate in appositi articoli.

Guardando l’architettura in mattoni di fango e le persone vestite in modo tradizionale nell’Afghanistan rurale di oggi, sarebbe facile inferirne che poco sia cambiato nel paese per secoli. In realtà, la società afgana è stata profondamente alterata in quasi tutti gli aspetti a causa dell’invasione sovietica e della guerra civile afgana. Prima del 1978 era comune parlare con uomini nell’Afghanistan rurale che non avevano mai lasciato la loro provincia o regione, eccetto per il tempo in cui potevano aver servito come soldati di leva nell’esercito nazionale. Le donne erano ancora meno propense a lasciare i loro villaggi. Ma man mano che la guerra sovietica progrediva ha spinto un gran numero di persone a lasciare le loro case. Da tre a cinque milioni di persone fuggirono dall’Afghanistan per diventare rifugiati in Iran e Pakistan, mentre un numero quasi uguale cercò sicurezza nelle città e nei paesi dell’Afghanistan. La popolazione di Kabul passò da mezzo milione negli anni ’70 a due milioni negli anni ’80. Per un popolo così strettamente legato alle proprie località, il massiccio spostamento di afghani come rifugiati o sfollati interni fu traumatico, colpendo almeno un terzo della popolazione del paese.4

Il discorso è a maggior ragione valido oggi. Eppure, un esame sommario di quanto si sta pubblicando sull’onda dell’attualità basta affinché anche un “non-esperto” come me possa rendersi conto che molte delle notizie che circolano sono inattuali (facendo riferimento ad un Afghanistan mitico che non esiste più), altre semplici leggende metropolitane, altre falsificazioni interessate bell’e buone.

Tanto per cominciare è opportuno sapere che quando di Afghanistan si parla, e si sciorinano dati, si dimentica di avvertire che – a causa sia della tradizionale e perdurante carenza di centralizzazione dello stato e di ramificazione delle istituzioni, sia del caos apportato da decenni di guerra - non esistono statistiche attendibili, a cominciare dalla popolazione e dal fenomeno dell’emigrazione: dato che sul numero di abitanti e rifugiati si basava in questi anni l’ammontare degli aiuti esteri, le stime che circolano sono il frutto di un bargain tra le sopravvalutazioni del governo fantoccio e delle ONG, e le sottovalutazioni dei governi finanziatori, e in questi casi non è detto che la virtù stia nel mezzo5.

Le cose non vanno meglio per la descrizione della situazione nelle aree rurali e dell’economia: dopo più di quarant’anni di catastrofi, le valutazioni che circolano si basano su studi di aree campione i cui risultati vengono poi generalizzati statisticamente.

Tutto ciò, mentre da una parte, contrariamente a quanto si vede sui media, induce ad un’estrema circospezione di analisi, dall’altra obbliga a fornire un minimo di nozioni di base e di ricostruzione storica, con tutte le cautele del caso. Non certo per una completa intelligenza della storia e realtà sociale afgane, cui non basterebbero numerosi volumi, bensì ai più modesti fini d’un inquadramento scevro da pregiudizi moralistici e da presunzioni di superiorità occidentale, del peculiare fenomeno talebano: per cercare di dimostrare che esso non corrisponde alle grossolane descrizioni che ne vengono date, e che – nel contesto storico e sociale che gli appartiene - non costituisce un mero fenomeno di reazione o di ritorno al passato, bensì un momento –contraddittorio senza dubbio – dell’accidentato processo di affermazione di uno stato nazionale. Perché di questo si tratta.

 

Elementi di geografia e storia

Quando Allah ha fatto il resto del mondo, ha visto che c'era molta spazzatura, pezzi e cose che non andavano bene in nessun altro posto. Li raccolse tutti insieme e li gettò sulla terra. Quello era l'Afghanistan" (adagio afghano).

L'Afghanistan attuale comprende 653 mila km quadrati. Il paese è diviso tra nord e sud dalla catena dell'Hindu Kush. Il territorio è caratterizzato da ampie zone aride e desertiche, aspre montagne ai cui piedi si situano valli lussureggianti. Come meglio vedremo altrove, solo il 10-12% del territorio è coltivabile, e richiede un duro lavoro per essere reso produttivo. La maggior parte del territorio è adibita a pascolo e fino al secolo scorso il nomadismo e l’allevamento, soprattutto di ovini, erano la maggior fonte di sostentamento, e i kuchi, i nomadi pastori, percorrevano migliaia di chilometri tra Afghanistan, Iran e Pakistan, in cerca di pascoli.

Alle pendici meridionali dell'Hindu Kush si trova Kabul, che negli ultimi decenni, a causa delle migrazioni interne innescate dalle guerre, ha visto una crescita demografica esplosiva (dal 2001 la popolazione è triplicata), ed oggi conta ufficialmente (mancano censimenti) circa 4,5 milioni di abitanti (le stime vanno da 3,5 a 6 milioni)6. Le valli adiacenti sono la regione più produttiva del paese dal punto di vista agricolo. l'Afghanistan occidentale e meridionale segnano l'estremità orientale dell'altopiano iranico: piatto, spoglio e arido, con poche città e una popolazione scarsa. Gran parte di questa regione è chiamata dagli afgani 'registan' (deserto). L'eccezione è la città oasi di Herat, che è stata un centro di civiltà per più di 3.000 anni. A nord dell'Hindu Kush inizia la nuda steppa dell'Asia centrale, che si estende per migliaia di chilometri a nord fino alla Siberia. Nell'Afghanistan orientale si trovano catene montuose più piccole, popolate su entrambi i lati del confine col Pakistan dalle tribù pashtun. I passi attraverso queste montagne, come il famoso Khyber Pass, hanno dato per secoli ai conquistatori l'accesso alle pianure indiane.

Fin dall’antichità la posizione geografica ha fatto dell'Afghanistan un crocevia strategico della massima importanza tra l'Iran, il Mar Arabico e l'India da una parte, e tra l'Asia centrale e l'Asia meridionale dall’altra. Il territorio, senza sbocco sul mare, è stato il luogo d'incontro e scontro di due grandi onde di civiltà, quelle raffinate e urbane provenienti dall’Iran, ad ovest, e gli imperi nomadi turchi a nord, in Asia centrale.

Per queste due influenze, che si sono avvicendate in grandezza e conquista nel corso dei secoli, il controllo dell'Afghanistan era vitale quanto lo fu, in epoca moderna, per l’impero britannico da un lato, e quello zarista dall’altro. Quando non fu sottoposto al dominio altrui, il paese funse da cuscinetto che teneva separati questi due campi, mentre altre volte servì da corridoio attraverso il quale invadere l'India. Qui, a causa degli intensi scambi culturali, fiorirono lo zoroastrismo, il manicheismo e il buddismo. Fu attraverso l'Afghanistan che i pellegrini e i commercianti che lavoravano sull'antica via della seta portarono il buddismo in Cina e in Giappone.

Nel 329 a.C. Alessandro Magno conquistò l'Afghanistan e l'Asia centrale proseguendo per l'India. I greci si lasciarono alle spalle una civiltà buddista-greca nelle montagne dell'Hindu Kush.

Nel 654 d.C. gli eserciti arabi attraversarono l'Afghanistan per arrivare al fiume Oxus, al confine con l'Asia centrale. Portarono con sé la loro nuova religione, che predicava l'uguaglianza e la giustizia e penetrò rapidamente nell'intera regione.

Sotto la dinastia persiana dei Samanidi, che durò dall'874 al 999 d.C., l'Afghanistan fece parte di un nuovo rinascimento persiano, al cui centro stavano le città di Bukkara e Samarcanda. La dinastia turca dei Ghaznavidi governò dal 977 al 1186 e conquistò il Punjab dell'India nord-occidentale e parti dell'Iran orientale.

Nel 1219 Gengis Khan e le sue orde mongole attraversarono l'Afghanistan distruggendo città come Balkh e Herat, lasciandosi alle spalle i moderni hazara (azeri), frutto dell’unione tra mongoli e indigeni. Nel secolo successivo Tamerlano creò un nuovo vasto impero attraverso la Russia e la Persia. Egli catturò Herat nel 1381 e suo figlio Shah Rukh spostò nel 1405 la capitale dell'impero Timurida ad Herat. I timuridi, un popolo turco, portarono la cultura nomade dell'Asia centrale nell'orbita della civiltà persiana, stabilendo a Herat una raffinata civiltà. Questa fusione della cultura centroasiatica e persiana fu un'eredità importante per il futuro dell'Afghanistan.

Nei secoli successivi le tribù afghane orientali invasero periodicamente l'India, conquistando Delhi e creando vasti imperi indo-afghani. La dinastia afgana Lodhi governò Delhi dal 1451 al 1526. Un discendente di Tamerlano, Babur, conquistò prima Kabul nel 1504 e poi Delhi. Stabilì la dinastia Mogul che avrebbe governato l’India fino all’arrivo degli inglesi. Allo stesso tempo il potere persiano declinò ad ovest e Herat fu conquistata dagli uzbechi. Nel XVI secolo l’Afghanistan occidentale tornò di nuovo al dominio persiano sotto la dinastia safavide.

Questi sono solo cenni, ma aiutano a capire come questa serie di invasioni e contro-invasioni portò ad un complesso mosaico etnico, culturale e religioso, che tuttora rende difficile la costruzione della nazione afghana (ne parleremo in un prossimo articolo)

I nomadi afgani di ieri sono in parte divenuti i commercianti e gli autisti di camion odierni, cruciali per gli scambi, incluso il contrabbando (non solo di Oppio) con i paesi vicini, seguendo percorsi che affondano le origini agli albori della storia.

 

Il modo di produzione

Mentre questi imperi vastissimi si facevano e disfacevano, quali i rapporti di produzione prevalenti? L’agricoltura, in Afghanistan, a causa dei vasti deserti, è in gran parte, da sempre, dipendente dall’irrigazione e da lavori idraulici di grande estensione. Come vi si provvedeva?

Il cosiddetto “modo di produzione asiatico” non ha dato vita soltanto a società centralizzate dove la sfera di autonomia delle comunità rurali è ridotta al minimo, bensì anche ad aree dove la compresenza agricoltori-allevatori, la natura desertica, la geografia dei grandi spazi e la storia, hanno fornito la base a società etnicamente frammentate, dove l’elemento tribale ha potuto sopravvivere più a lungo e più forte (la cosiddetta economia “delle oasi”). Questo è segnatamente il caso dell’Asia centrale, e dell’Afghanistan.

Anche Marx ed Engels erano ben consapevoli di tale varietà delle società idrauliche. Il Marx maturo si occupò lungamente del “modo di produzione asiatico” e delle ampie tracce di ‘comunismo primitivo” che permanevano nelle sue comunità di villaggio. Anche se molti giudizi sull’immobilismo e l’egualitarismo dei villaggi dell’Oriente vanno rivisti ed attenuati, specie per quanto riguarda i paesi islamici, resta suggestiva l’indagine sugli ostacoli all’affermazione della proprietà privata che i modi di produzione orientali opponevano. Già nel 1853 Engels, in una lettera a Marx, così si esprimeva:

«L'assenza della proprietà fondiaria è in effetti la chiave di tutto l'Oriente. Qui risiede la storia politica e religiosa. Ma per quale motivo gli orientali non arrivano ad avere una proprietà fondiaria, neanche quella feudale? Io credo che la ragione risieda soprattutto nel clima, assieme con le condizioni del suolo, specialmente con le grandi zone desertiche, che si estendono. dal Sahara, attraverso l'Arabia, la Persia, l'India e la Tartaria, fino ai più alti altopiani dell'Asia. L'irrigazione artificiale è qui la prima condizione dell'agricoltura, e questa è cosa, o dei comuni o delle province o del governo centrale»7.

Nell'Asia centrale, le tradizionali forme di proprietà della terra fanno riferimento a due sistemi di diritto: l'adat e la sharia, che hanno d'altra parte molte somiglianze. La terra veniva divisa in tre categorie principali: myulk (proprietà individuale), waquf (proprietà delle istituzioni religiose e caritative) e amlyak (proprietà dello Stato); nelle due ultime forme, le terre erano per lo più date in uso a famiglie contadine sottoposte a diverse forme di tassazione, da quelle simboliche (che dunque avvicinavano il conduttore del terreno ad un proprietario) a quelle che avrebbero potuto configurarsi come rapporti di affitto o colonìa parziaria. In ogni caso la proprietà della terra era limitata dai diritti collettivi sui pascoli e sull'acqua, che venivano persi quando la comunità si spostava su altri terreni, come nel caso degli allevatori. Un altro limite derivava dall'obbligo di lavori collettivi. Per quanto riguarda i pascoli, essi appartenevano alle tribù.

«In tutti i casi la proprietà dei mezzi di produzione fondamentali, nel modo di produzione asiatico, è inevitabilmente limitata e convenzionale. Perciò non c'è vera proprietà privata della terra in Asia centrale»8. Anche la tassazione colpiva il prodotto, non la terra, onde era «inutile attendersi lo sviluppo di relazioni merce-denaro». Inoltre, «l'uso di una gran parte del prodotto sociale per scopi improduttivi era una delle ragioni chiave di stagnazione nella società asiatica». «La differenziazione di classe [in questa economia]; [...] non giunge oltre l'ineguaglianza della proprietà. Di norma, non c'era riconoscimento della proprietà e le relazioni col mondo esterno erano basate su principi etnici». Persino nell'agricoltura irrigua, molto specializzata e spesso essenzialmente rivolta al mercato, nonché caratterizzata da un raffinato artigianato, «non si sono sviluppati gruppi sociali chiusi monopolizzanti i diritti di possesso dei mezzi di produzione, inclusa la terra, sebbene ci fosse una considerevole stratificazione della proprietà». Lo stesso giudizio era stato espresso a suo tempo da Marx a proposito dell'Algeria9.

Sono molti gli studiosi che hanno sottolineato come i lavori idraulici (e i lavori pubblici in genere), persino in Cina e in India, non sempre e non necessariamente implicassero l'intervento del potere centrale, dipendendo spesso da iniziative coordinate dei villaggi10. L’Afghanistan, col suo sbalorditivo e meraviglioso sistema di irrigazione sotterranea, il qanat o kariz 11 , ora catastroficamente compromesso da decenni di invasioni straniere12, va incluso tra questi.

In tal senso ha ancora qualcosa da dirci la in parte fantasiosa ma affascinante distinzione avanzata nel 1377 da Ibn Khaldun13 tra “civiltà del deserto” e “civiltà sedentarie”, tra la rozza “purezza” e il relativo egualitarismo delle comunità tribali nomadi basate su legami di sangue e la “mollezza” delle più stratificate città. Le prime, basate prevalentemente su di un’economia di sussistenza, o sul traffico carovaniero, ostacolavano lo sviluppo di classi sociali differenziate e, quando consentivano l’accumulo di ricchezze (come nel caso del commercio), queste, sia pur gestite dai capi tribali, rimanevano almeno in principio all’intero clan, e non venivano investite ai fini dell’accumulazione, bensì consumate per politiche clientelari, di prestigio e di ospitalità, per le doti delle spose e i matrimoni destinati a suggellare legami tribali o inter tribali14.

In tali realtà la leadership, basata ancora in larga misura su qualità morali come il coraggio, la saggezza e l’onore, si consolida difficilmente. In teoria ogni uomo o meglio ogni gruppo può aspirare al posto di primus inter pares, e pochi tollerano indefinitamente una posizione subordinata. Il che favorisce la competizione e la rivalità. In pashto, la lingua pashtun, questa rivalità tra cugini agnati (di ascendenza maschile) ha persino un termine specifico: tarburwali15.

Sulla base di quanto sopra, il fatto che l’etnia pashtun, maggioritaria in Afghanistan, venga sovente descritta come la società tribale più vasta del mondo attuale, ha per i marxisti un significato. Benché sia in buona parte una lente deformante destinata a supportare una visione esotica del paese, questo giudizio ha il merito di rammentare l’attuale permanere di importanti residui precapitalistici a quanti vedono ormai il modo di produzione capitalista impiantato ovunque, e dunque giudicano i conflitti di classe di paesi arretratissimi come l’Afghanistan secondo un’ottica occidentale distorta (esempio macroscopico di questa visione pregiudiziale è il modo assurdamente occidental-centrico con cui viene affrontata – sommariamente – la problematica femminile afghana, causando danni immensi alle donne afghane stesse che si pretenderebbe di tutelare, tema che affronteremo in altra occasione).

Il sistema tribale generalmente non sviluppa un potere politico istituzionalizzato che possa tollerare fluttuazioni nelle capacità individuali dei capi […]. L’ideale Pashtun di eguaglianza si basa sul sistema tribale. L’idea è che tutti i Pashtun sono nati uguali, e sono discendenti di un antenato comune; le differenze economiche e sociali, che ovviamente esistono, non sono date dalla natura o dalla nascita ma sono ottenute individualmente, e sono minacciate ed aperte ai cambiamenti in ogni momento”16

La forza che i rapporti sociali tribali conservano, ci dice che la formazione delle classi sociali moderne è lungi dall’essere in Afghanistan un fatto compiuto, e che le forze religiose, sociali, politiche che si muovono nella sua arena vanno commisurate a questa cornice di arretratezza. Ma più di quarant’anni di riforme e controriforme, di guerre civili e di invasioni straniere hanno sconvolto questa realtà, e, anche se hanno impedito di superarla, ne hanno determinato la decadenza.

Benché colga un aspetto importante della realtà afgana, la lente tribalista è tuttavia a sua volta una semplificazione mediatica, oltre che un approccio comodo alla politica imperialistica la quale, dietro il pretesto della difesa delle specificità culturali e religiose, è come sempre ben contenta di dividere per dominare. Svilupperemo il tema nel prossimo articolo.


Note
1 Malgrado le dichiarazioni in contrario, un esempio in Thomas Barfield, AFGANISTAN, A CULTURAL AND POLITICAL HISTORY, Princeton & Oxford, Princeton University Press, 2010 (cfr. in proposito la recensione di Jamil Hanifi, https://journals.openedition.org/samaj/3147 ). Il ‘misunderstanding” tribalista- etnicista inizia fin dal primo testo occidentale che si propose di indagare la società afgana, dovuto all’attaché britannico alla Corte di Kabul agli inizi del XIX secolo, Mountstuart Elphinstone (Account of the Kingdom of Caubul, and Its Dependencies in Persia, Tartary, and India: Comprising a View of the Afghaun Nation, and a History of the Dooraunee Monarchy, Cambridge, Cambridge University Press, 2011). Per una disamina delle prime “etnicizzazioni” della storia e società afghane, cfr. Nivi Manchanda, The Imperial Sociology of the ‘Tribe’ in Afghanistan, 2017, https://doi.org/10.1177/0305829817741267.
2 Le fonti specifiche del mio lavoro verranno indicate di volta in volta, ma per evitare di appesantire il testo di questo e degli articoli che seguiranno con molte note bibliografiche, indico qui una volta per tutte le mie principali fonti di carattere generale (oltre a quelle indicate nel mio libro del 2006):
T. Barfield, op. cit.
Antonio Giustozzi, Koran, Kalashnikov and laptop: the Neo-Taliban insurgency, 2002-7, Columbia University Press; Empires of mud: war and warlords in Afghanistan, Columbia University Press, 2009; Decoding the New Taliban, Insights from the Afghan Field, Columbia University Press, 2009; The Taliban at War 2001–2018, Oxford University Press, 2019.
Gilles Dorronsoro, La révolution afghane, Paris, Karthala, 2000; Le gouvernement transnational de l’Afghanistan, Une si prévisible défaite, Paris, Karthala, 2021.
Ahmed Rashid, Taliban, The Power of Militant Islam in Afghanistan and Beyond, London, I.B. Tauris & Co Ltd, 2010.
Barnett R. Rubin, Afhanista, What everyone needs to Know, Oxford University Press, 2020.
3 Cfr. Alessandro Mantovani, Rivoluzione islamica e rapporti di classe, Afghanistan Iran Iraq, Genova, Graphos, 2006.
4 Barfield, op. cit., p. 280.
5 Tra gli anni ’70 e ’90 del novecento, all’Afghanistan si attribuiva una popolazione di sedici milioni di persone, frutto del compromesso tra i 20 milioni denunciati dal governo e i 12 stimati dall’ONU. Oggi si parla di 38 milioni circa, ma sono valutazioni altrettanto aleatorie, vista l’a mancanza di censimenti aggiornati e l’elevato numero di emigrati e rifugiati in Pakistan.
6 Afghanistan, Principali indicatori economici, European Asylum Support Office, 2020.
7 MEO, XXXIX, p. 273.
8 SERGEJ PETROVIC POLYAKOV, Modern Soviet Central Asia Countryside: Traditional Forms of Property in a Quasi-Industrial System, in VITALY NAUMKIN (a cura di), State, Religion and Society in Central Asia. A Post-Soviet Critique, London, Ithaca Press, 1993, p. 134.
9 R. Galissot e G. Badia (a cura di), Marxisme et Algérie / textes de Marx-Engels, Paris, Éditions 10/18, 1976.
10 Per una messa a punto del dibattito, si veda il cap. III dell'opera di GIANNI SOFRI, Il modo di produzione asiatico. Storia di una controversia marxista, Torino, Einaudi, 1969.
11 Paul Ward, The Origin and Spread of Qanats in the Old World, Proceedings of the American Philosophical Society, Vol. 112, No. 3 (Jun. 21, 1968), pp. 170-181, http://www.jstor.org/stable/986162
12 Goes, B.J.M., Parajuli, U.N., Haq, M. et al., Karez (qanat) irrigation in the Helmand River Basin, Afghanistan: a vanishing indigenous legacy. Hydrogeol J 25, 269–286 (2017). https://doi.org/10.1007/s10040-016-1490-z
13 Ibn Khaldun, Discours sur l’Histoire universelle, Al-muqaddima, Actes Sud, 2000.
14 Questo contrasto tra società nomadi egualitarie e città socialmente stratificate non significa che tutte le società sedentarie siano stratificate e tutte le nomadi egualitarie. La distinzione – che Khaldun non coglie appieno – è più propriamente posta fra economia di sussistenza ed economia che consente un surplus. I pashtun orientali ad esempio sono sedentari, ancora relativamente poco stratificati a causa di un’economia povera, e più legati ai costumi tribali rispetto a molti pashtun nomadi, che grazie all’allevamento ed al commercio hanno potuto accumulare ricchezze.
15 Barfield, op. cit., p. 59.
16 Bernt Glatzer, The Pashtun Tribal System, Chapter 10 in: In G. Pfeffer & D. K. Behera (eds.): Concept of Tribal Society (Contemporary Society: Tribal Studies, Vol 5). New Delhi: Concept Publishers, 2002, pp 265-282.

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