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sinistra

Il "proletariato" palestinese

Un po’ di cifre

di Alessandro Mantovani

F190224ARK006 1200x800.jpgI proclami e i comunicati della resistenza contro Israele non ne fanno menzione; per essa le sue rivendicazioni specifiche non hanno nella lotta di liberazione nazionale luogo a procedere. Parliamo del proletariato palestinese.

Per contro diverse tendenze internazionaliste occidentali danno per scontato che esista, che possa essere autonomo dal nazionalismo borghese, che debba respingere le false sirene della lotta nazionale e combattere - assieme al proletariato del Medio Oriente, incluso eventualmente quello israeliano - contro la propria borghesia, in vista della propria emancipazione1.

Esiste davvero un proletariato palestinese? E se sì, qual è il suo peso sul totale della popolazione araba della Palestina? Non è facile determinarlo, dal momento che non solo le statistiche sono incomplete ma soprattutto redatte secondo criteri di non facile lettura marxista.

Per il marxismo la classe proletaria, in quanto classe rivoluzionaria, non si definisce in base al mero fatto di percepire un salario, bensì tenendo conto di quegli elementi dinamici che fanno di uno strato sociale un fattore in grado di incidere sui rapporti tra le classi: ad esempio una maggior concentrazione sul territorio, nelle unità produttive e nei servizi conferiscono notevole influenza sociale e politica anche a gruppi relativamente poco numerosi rispetto al resto della popolazione. Il proletariato russo arrivò al potere in Russia, nel 1917, benché minoranza, perché a Pietrogrado era concentrato e forte. Un altro elemento da tenere presente è il grado di “purezza” del rapporto fra capitale e lavoro salariato. Ad esempio un salariato stagionale, ancora legato parte dell’anno all’agricoltura, differisce alquanto per mentalità da un operaio industriale. Un lavoratore dei servizi differisce da un addetto alla catena di montaggio, ecc.

Tutte cose sicuramente ben presenti al lettore, per cui basti ricordare che un momento cruciale della maturazione della classe proletaria è, nelle parole di Marx, il passaggio dalla “sussunzione formale” alla “sussunzione reale” del lavoro al capitale: in soldoni al passaggio dai lavori stagionale, a domicilio, artigianale, manifatturiero, manuale, ecc., sia pur sotto padrone, al lavoro nella grande industria meccanizzata, a cui possiamo in qualche modo oggi avvicinare le grandi concentrazioni di servizi (trasporti, ospedali, poste, ecc.).

Tenendo a mente queste poche considerazioni introduttive, vediamo dunque sommariamente le condizioni in cui versa il proletariato palestinese. Con tutte le cautele del caso - visto che i dati a disposizione differiscono anche sensibilmente a seconda delle fonti - non c’è altro modo per affrontare il problema che sciorinando un po’ di cifre. Sia chiaro, quello che sottopongo è un lavoro lacunoso; spero contribuisca però a riportare la discussione sul ruolo e destino del proletariato palestinese a elementi concreti.

 

I lavoratori arabi d’Israele

Nel 2019 i cittadini arabi in Israele erano 1.916.000 ossia il 21% della popolazione dello Stato sionista. Il 28,3% delle loro famiglie e il 30% dei loro bambini viveva al di sotto della soglia di povertà. Solo il 41% degli arabi israeliani partecipano al mercato del lavoro del paese2, nel quale sono fortemente svantaggiati: hanno i più alti tassi di disoccupazione (15% circa); i loro salari sono del 60% inferiori a quelli degli ebrei; sono per lo più impiegati in lavori dequalificati, in particolare nell’edilizia. Solo il 38% della forza lavoro femminile risulta occupata, contro l'82% di quella ebrea. Nel 2007 – malgrado una forte presenza nel settore sanitario - solamente il 5% circa dei dipendenti pubblici era composto da arabi israeliani3. In generale le comunità dei palestinesi d’Israele conservano il legame con la loro terra, che un tempo era l’occupazione di gran lunga prevalente, ora sempre più minacciata però dal costante e progressivo esproprio di territorio da parte dei coloni ebrei.

Non si può parlare qui, nell’insieme, di un proletariato completamente formato, né di lavoratori facilmente organizzabili.

 

I lavoratori palestinesi dei “territori occupati”

Per quanto riguarda i palestinesi che vivono nei territori occupati, la situazione è la seguente4:

A Gaza vivono 2.375.259 persone, il 41% del totale, in Cisgiordania circa 3.400.000. In tutto circa 5.700.00. Di questi almeno 2,1 milioni, dunque quasi il 40% della popolazione, vive di aiuti (secondo altre statistiche fino al doppio).

Nel 2014 circa il 68% dei lavoratori della Cisgiordania era impiegato nel settore privato, il 15.8% in quello pubblico e il 13.8% in Israele. Al contrario il settore pubblico è il maggior datore di lavoro nella Striscia di Gaza, con il 55% del totale, contro il 39% del settore privato5.

Nell’insieme dei territori occupati, nel 2022 il tasso di impiego della forza lavoro è stato del 45,0%. Alquanto basso come si vede. Il rapporto occupazione/popolazione ha raggiunto il 34,0%. Il tasso di disoccupazione complessivo si attesta al 24,4%, quello giovanile al 36,1%, quello femminile al 40,4.

Il mercato del lavoro palestinese è caratterizzato da forti disparità di genere e di età. Nel 2022, il tasso di attività delle donne era del 18,6%, rispetto al 70,7% degli uomini. Quello dei giovani (tra i 15 e i 24 anni) era del 30,8%, rispetto al 51,4% degli adulti (dai 25 anni in su).

Il settore alberghiero e della ristorazione è quello che ha visto l’incremento più rilevante di posti di lavoro dopo la crisi occupazionale seguita al COVID. Al contrario l’agricoltura ha sofferto un calo. E ben lo si comprende a partire dall’estensione degli insediamenti ebrei. dall’appropriazione da parte di questi dell’acqua, dalla distruzione delle abitazioni palestinesi, e così via.

Il tasso di lavoro informale complessivo nel 2022 è stato del 53,9%. Più della metà del totale dunque. La crescita netta dell'occupazione formale tra i lavoratori palestinesi nel 2022 proviene interamente dai posti di lavoro in Israele e negli insediamenti di coloni ebrei (infra). Nei territori palestinesi occupati, il numero di posti di lavoro formali è diminuito drasticamente, e l'aumento netto dell'occupazione si è concentrato interamente nel settore informale. L'occupazione informale è aumentata anche in Israele e negli insediamenti (infra).

L'analisi per branche mostra che il settore delle costruzioni gode del salario medio più alto: 2,4 volte superiore al salario pagato nel settore agricolo, che è il peggiore sotto questo aspetto. Tuttavia i lavoratori qualificati dell'agricoltura e dell'artigianato sono i meglio retribuiti, con salari giornalieri più che doppi rispetto a quelli degli impiegati e degli addetti ai servizi e alle vendite.

Nei territori occupati, solo i lavoratori del settore pubblico - dipendenti pubblici e membri delle forze di sicurezza - beneficiano di una copertura previdenziale. Questi lavoratori rappresentano circa il 21% di tutti gli occupati palestinesi.

La legge palestinese sul lavoro n. 7 del 2000 proibisce l'impiego di bambini di età inferiore ai 15 anni, nonché il lavoro pericoloso o con orari prolungati per i giovani tra i 15 e i 17 anni. Nonostante ciò il numero di bambini lavoratori tra i 10 e i 14 anni è passato da 6.169 nel 2021 a 7.321 nel 2022, portando l'incidenza del lavoro minorile in questa fascia d'età al 1,2%. Il numero di ragazzi tra i 15 e i 17 anni che svolgono lavori pericolosi è aumentato in modo più marcato, passando da circa 12.000 nel 2021 (3,6%) a quasi 17.000 nel 2022 (4,9%).

La prevalenza del lavoro informale, gli alti tassi di disoccupazione, la disomogeneità per sesso ed età, lo sfruttamento minorile, l’assenza di garanzie, sono tutte testimonianze di un sottosviluppo che ostacola la formazione di un proletariato numeroso e coeso.

 

Il lavoratori pubblici della Cisgiordania

La Cisgiordania è divisa in tre zone con giurisdizioni diverse: le zone A, B e C, come definito dal nefando accordo di Oslo II. La zona A comprende i centri urbani e copre il 18% della Cisgiordania, ed è l’unica controllata dall’Autorità palestinese. L'area B comprende le piccole città e le aree periurbane6; è sotto controllo israeliano per la sicurezza e sotto controllo palestinese per l'amministrazione civile. L'area C copre il 61% della Cisgiordania ed è sotto esclusivo controllo israeliano. Essa rimane off-limits per la maggior parte dei palestinesi e, pur costituendo la maggior parte del territorio teoricamente previsto per un futuro fantomatico Stato palestinese, conta più coloni israeliani che palestinesi.

In Cisgiordania l'ingente spesa salariale del settore pubblico (44% del totale), sta diventando intollerabile per il bilancio. I dipendenti pubblici non hanno ricevuto l'intero stipendio per gran parte del 2022. Questo fatto ha rappresentato – in questa categoria malgrado tutto privilegiata – un incentivo alla lotta sindacale (infra); può rappresentare perciò un fattore di maturazione classista.

 

I lavoratori di Gaza

La situazione dei lavoratori della Striscia di Gaza è la più disastrosa. Prima dell’attuale invasione Israeliana, il tenore di vita dei gazesi equivaleva a poco più di un quarto di quello dei Cisgiordani. Ad avere la peggio le donne e i giovani, due terzi dei quali disoccupati.

L'accesso al mercato del lavoro israeliano da Gaza nel 2022 era più che raddoppiato rispetto all'anno precedente. In totale, l'anno scorso erano stati rilasciati 27.000 permessi. Un numero basso rispetto a quello dei permessi rilasciati in Cisgiordania. Inoltre, solo il 3% circa dei permessi ottenuti dai gazesi riguardava lavori in regola. In ogni caso, il numero di gazesi che lavoravano in Israele e negli insediamenti rimaneva basso, rappresentando circa il 5% della forza lavoro gazese.

Il settore pubblico e l'amministrazione del lavoro di Gaza operavano in condizioni disastrose. Secondo la Banca Mondiale, nel 2022 l’Autorità palestinese pagava nella striscia circa 39.000 dipendenti pubblici, ma non è chiaro quanti fossero autorizzati a svolgere le loro mansioni dalle autorità de facto, cioè Hamas. Inoltre, un numero considerevole di dipendenti pubblici era impiegato dalla stessa Hamas, che non applica la stessa scala salariale. Non sono a conoscenza di dati in proposito.

Il meno che si possa dire è che anche qui non siamo certo di fronte a un proletariato consistente rispetto al totale dei lavoratori e della popolazione, né pienamente formato. Gran parte della popolazione dipende o dai sussidi della United Nations Relief and Work Agency for the Palestine Refugees in the Near West (UNRWA)7, o dalle istituzioni caritatevoli e assistenziali di Hamas, o dall’impiego pubblico a sua volta controllato da Hamas.

ll tasso di disoccupazione palestinese su base annua è destinato perlomeno a raddoppiare a causa dell’escalation delle ostilità a Gaza. L’Organizzazione internazionale del lavoro e l’Ufficio centrale di statistica palestinese stimano che le ostilità in corso abbiano già cancellato, mentre scriviamo, almeno il 66% dell’occupazione nella Striscia di Gaza8.

 

I lavoratori palestinesi pendolari

In generale, l'economia palestinese dipende sempre più da Israele e dagli insediamenti ebraici in Cisgiordania.

In totale prima della guerra attuale 192.700 lavoratori palestinesi erano impiegati in Israele e negli insediamenti. Un numero alquanto esiguo ma importante dato che qui i salari dei lavoratori palestinesi sono in media 2,7 volte superiori che nei territori occupati (2,2 volte superiori a quelli della Cisgiordania e ben 4,4 volte superiori a quelli di Gaza).

Sempre nel 2022, più di 40.000 palestinesi lavoravano negli insediamenti ebraici al di fuori di qualsiasi regolamentazione, il più delle volte sottopagati (il loro numero è quasi raddoppiato in cinque anni, e non può che essere così vista la progressiva infiltrazione dei coloni ebrei nelle terre palestinesi). Altri 40.000 circa, provenienti dalla Cisgiordania, lavoravano in Israele senza documenti e in modo informale, particolarmente vulnerabili allo sfruttamento e all'abuso. In totale, circa un quinto della forza lavoro proveniente dalla Cisgiordania era privo di documenti.

In altre parole quasi la metà della forza lavoro palestinese in Israele e negli insediamenti lavorava in modo informale. La situazione varia molto da un settore all'altro: il 66,3% dei palestinesi che lavorano in agricoltura lavorano in nero, mentre solo il 22,4% di quelli che lavorano nel settore dei trasporti, dell'immagazzinamento e delle comunicazioni versano in tale condizione. La maggior parte entrano ed escono giornalmente da Israele.

Le donne impiegate negli insediamenti ebraici, in particolare, fanno i lavori più declassati nell'agricoltura e nel settore domestico. Sono persistenti le accuse di lavoro minorile negli insediamenti agricoli, così come di salari inferiori al salario minimo e di molestie sessuali nei confronti delle donne.

Fra i lavoratori dei territori occupati in Israele possiamo quindi ipotizzare, al massimo, circa 100 mila lavoratori più o meno puramente proletari, ma frammentati e segnati dalla condizione di pendolarità.

Quando questi flussi di lavoratori - oggi ovviamente fortemente perturbati dal conflitto - potranno riprendere non è dato sapere. Certo è che i capitalisti israeliani stessi vedono i loro interessi minacciati dalla presente scarsità di manodopera causata dal conflitto e chiedono fin d’ora il ritorno dei lavoratori palestinesi. Una parte dei pendolari Cisgiordani ha anzi già ripreso il lavoro e presto o tardi il flusso dovrà riprendere9. Intanto però la situazione è drammatica.

 

Agitazioni sindacali

Un indice indiretto della forza di una categoria o di una classe sociale sono le sue lotte.

L'Autorità Palestinese aveva negli ultimi tempi attuato pesanti misure di austerità, tra cui la riduzione del 20% degli stipendi dei dipendenti pubblici. La legge sulla sicurezza sociale del 2016 è stata sospesa all'inizio del 2019 in seguito alle vaste proteste da essa suscitate in Cisgiordania. Anche la stesura di una legge sui sindacati è stata sospesa nello stesso anno. Tuttavia continuano a essere registrate nuove organizzazioni sindacali. Nel 2022 il tasso di sindacalizzazione nei territori palestinesi occupati si attestava al 19,3%. Questo tasso era 18% per gli uomini e 25,8% per le donne. A Gaza, il 37,1% dei lavoratori è iscritto a un sindacato, rispetto al 13,2% della Cisgiordania. Alla fine del 2022 c'erano 433 sindacati fra nazionali, settoriali e aziendali. Se da un lato ciò denota una crescita del sindacalismo, dall’altro dimostra un’estrema frammentazione dello stesso. Se la percentuale di organizzati può essere considerata in relazione con il grado di proletarizzazione, ciò a quanto pare non avviene in modo proporzionale, come mostra il fatto che la percentuale di organizzati a Gaza, dove il tasso di proletarizzazione è minore, supera quello della Cisgiordania.

Il 2022 e l'inizio del 2023 sono stati caratterizzati da azioni sindacali nel settore pubblico. Particolarmente rilevante lo sciopero degli insegnanti delle scuole statali. L’agitazione, indetta per le retribuzioni, le condizioni di lavoro e la libertà di associazione, interessò la maggior parte delle scuole pubbliche, compresa Gerusalemme Est. Una decisione del Tribunale amministrativo dell’Autorità palestinese del 13 marzo 2023 ha ordinato la revoca dello sciopero, facendo aumentare il malcontento verso di essa, percepita come corrotta, compromessa con Israele e l’Occidente e inefficiente.

Quanto visto fin qui porterebbe a giudicare problematica, precaria, embrionale, la formazione di un proletariato palestinese nel senso pienamente “marxista” del termine. La questione però non può essere risolta senza allargare l’orizzonte di indagine all’eventuale presenza di un proletariato nella diaspora palestinese. Quest’ultima infatti non solo raccoglie circa la metà dei palestinesi oggi viventi ma è anche in costante contatto e osmosi con i palestinesi “dell’interno”, sia dal punto di vista sociale che politico. È opportuno pertanto uno sguardo alla realtà di questa diaspora, per quanto reso possibile da dati ancor più rarefatti e difficilmente interpretabili di quelli che abbiamo elencato sinora.

 

Diaspora palestinese e proletariato10

Secondo i dati del Palestinian Central Bureau of Statistics, aggiornati a metà del 2023, vi sono nel mondo approssimativamente 14,5 milioni di palestinesi, di cui circa 1,7 milioni in Israele, 5,48 milioni nei “Territori occupati”, 6,3 milioni nei paesi arabi e 750 mila nel resto del mondo11 (dati che differiscono leggermente da quelli da me dati in precedenza, targati ILO, relativi al 1922).

Lo spostamento forzato degli abitanti arabi dei territori palestinesi in seguito al conflitto del 1948 (circa 757.000 persone) li condusse principalmente nei territori della Palestina sotto il controllo degli eserciti arabi: 280.000 nella "Palestina centrale" (la Cisgiordania), annessa dalla Giordania nel 1950, e 200.000 nella Striscia di Gaza, amministrata dall'Egitto. Inoltre 75.000 palestinesi trovarono rifugio in Siria, 97.000 in Libano, 70.000 in Transgiordania e 5.000 in Iraq. All'epoca in Israele rimasero solo 158.000 palestinesi.

La diaspora palestinese è stata fortemente caratterizzata dalla rivendicazione del diritto collettivo "al ritorno", questione forse poco compresa e sottovalutata dai rivoluzionari occidentali: si tratta del diritto a tornare nelle terre abbandonate, oppure al risarcimento per coloro che avessero scelto di non tornare, come stabilito dalla Risoluzione 194 dell’Assemblea Generale dell’ONU dell’11 dicembre 1948. Rivendicazione riguardante in seguito anche i profughi successivi, in particolare quelli che hanno lasciato la Palestina dopo la guerra “dei sei giorni” del 1967. Nel 1974 l'Assemblea generale delle Nazioni Unite ha consolidato questo legame rendendo il ritorno dei palestinesi "alle loro case e proprietà da cui sono stati sfollati e sradicati" un diritto “inalienabile”, al pari del loro diritto all'autodeterminazione (Risoluzione 3236).

Va sottolineato che l’attaccamento a questo diritto prescinde dalla reale possibilità che il ritorno stesso si realizzi, in quanto costituisce la base legale di futuri possibili risarcimenti, da una parte, e dall’altra, e sopratutto, la condizione giuridica per accedere in itinere all’assistenza da parte dell’UNRWA.

Per comprendere l’enorme peso sociale e politico della questione è bene tener presente che i rifugiati registrati presso l'UNRWA in Palestina e nella diaspora sono circa 6 milioni12, di cui il 39% in Giordania, il 25% nella Striscia di Gaza, il 17% in Cisgiordania, l'11% in Siria, il 9% in Libano13. Ben il 64% della popolazione totale della Striscia di Gaza è costituito da rifugiati, contro il 26% in Cisgiordania. Alla fine del 2018 nei territori occupati la percentuale di rifugiati ha raggiunto circa il 41% della popolazione palestinese totale residente.

In generale, a parte la Giordania, i paesi arabi si sono guardati dal concedere la cittadinanza ai rifugiati, ufficialmente in nome della salvaguardia della loro nazionalità palestinese e del loro diritto a tornare alle loro case originarie, in realtà per mantenere costantemente sotto minaccia di espulsione una popolazione altamente politicizzata. Nella generalità dei paesi arabi i palestinesi sono oggi fortemente discriminati. Al di là dell’impossibilità che ne è conseguita di integrarsi completamente nel tessuto sociale del paese di “accoglienza”, il grado di tolleranza (o intolleranza) nei loro confronti ha risentito dei mutevoli equilibri politici e dei rapporti, talvolta amichevoli, talvolta antagonistici, con la politica dell’OLP.

Lasciando per il momento da parte le famigerate giornate del settembre 1970 in Giordania, di cui parlerò poi, l’esempio più significativo di questa oscillazione fu il Kuwait, distintosi all’indomani della guerra del 1967 come terra d’esilio per centinaia di migliaia di palestinesi, che andarono a coprirvi il fabbisogno di manodopera qualificata. Ciò grazie a una popolazione palestinese istruita e sradicata, che costituì la maggior parte dei dirigenti del settore pubblico e privato (lo stesso Arafat emigrò in Kuwait come ingegnere dei lavori pubblici). Allorquando l’Iraq invase il Kuwait, nell’agosto del 1990, l’OLP si schierò con Saddam Hussein, che soleva fornire annualmente all’organizzazione decine di milioni di dollari. Quando la coalizione guidata dagli Stati Uniti sconfisse le truppe irachene, più di 20 mila palestinesi furono espulsi dall’emirato. Altri 150 mila palestinesi erano fuggiti in precedenza verso la Giordania.

Anche in Iraq la caduta di Saddam Hussein nel 2003 causò persecuzioni contro i palestinesi da parte delle milizie sciite. In tal caso e in molti altri l’Autorità nazionale palestinese installata a Ramallah (infra) fu accusata dai profughi di indifferenza per il loro destino.

Tornando alle discriminazioni che i palestinesi subiscono nei paesi di destinazione, esse ostacolano in genere l'accesso al lavoro, all'istruzione superiore e alla proprietà, specie nei paesi in cui i rifugiati rappresentano una percentuale significativa della popolazione totale (come il Libano) ma anche in Egitto a partire dagli anni '70.

La società palestinese, che nel 1948 era prevalentemente contadina, si trasformò forzatamente nella diaspora in una società urbanizzata. Alcuni suoi membri, specie i più giovani, beneficiando dell'istruzione generale e professionale fornita dall'UNRWA o dai Paesi ospitanti, divennero professionisti qualificati, soprattutto nel campo dell'istruzione, dei servizi e dell'industria. È da questa giovane borghesia "espatriata" che è partita la rinascita del movimento nazionale palestinese alla fine degli anni Cinquanta, con la creazione nel 1958 del Movimento Nazionalista Arabo, precursore del Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina, e di Fatah nel 1959.

La costituzione – su input, si badi, della Lega Araba - dell'Organizzazione per la liberazione della Palestina, nel 1964, da un lato consacrò lo sforzo di conservazione dell'identità intrapreso dai rifugiati, dall’altro però ne sanzionò la dipendenza dalle capitali arabe. All'epoca l’OLP non aveva alcuna rappresentanza internazionale e l’Esercito di Liberazione della Palestina, di stanza in Siria, Egitto e Iraq, era legato al comando militare dei paesi arabi. Tanto era la sottomissione dell’OLP che essa aveva accettato perfino di rinunciare a qualsiasi sovranità sulla Cisgiordania e sulla Striscia di Gaza, allora controllate rispettivamente dalla Giordania e dall'Egitto. Era un organismo in cui ai dipartimenti politici e militari di ispirazione nasseriana si sovrapponevano reti familiari di notabilato tradizionale.

Solo all'indomani della sconfitta dei Paesi arabi nella “guerra dei giorni” del giugno 1967, si venne rafforzando un nazionalismo palestinese parzialmente autonomo e Cisgiordania e Gaza tornarono a essere rivendicate dall’OLP. Costituitasi in “Stato diasporico”, quest’ultima arricchì il proprio apparato istituzionale di dipartimenti amministrativi (finanza, informazione, giustizia e polizia), di organizzazioni mediche, educative e sociali14, nonché di uffici di rappresentanza nel mondo arabo e oltre. I suoi dirigenti fondarono anche istituzioni non governative il cui campo d'azione includeva attività di sviluppo economico all'interno e nei dintorni dei campi di rifugiati.

È questo il periodo di massimo prestigio di Al Fatah, del suo leader Yasser Arafat e della stessa OLP. Tale era la sua influenza in Giordania, dove si trovava la maggior parte della diaspora, cheagiva come uno Stato nello Stato, spingendosi sino a tentare di rovesciare la monarchia. Ciò portò nel “settembre nero” del 1970 a uno scontro di vaste proporzioni fra i feddayn e le truppe regolari di Amman. Le vittime, tra cui numerosi civili, furono almeno 5.000. Sconfitte, le organizzazioni palestinesi furono espulse verso il Libano e la Siria. Malgrado ciò i rifugiati palestinesi in Giordania superano oggi i due milioni e si stima che ben più della metà della popolazione giordana sia di origine palestinese dal momento che – unico caso nei paesi arabi – molti rifugiati palestinesi del 1948 e del 1967 ne hanno ottenuto la cittadinanza. Gran parte della comunità palestinese risiede nelle città, specie nei sobborghi poveri. Ma vi è anche nelle zone residenziali una dinamica borghesia palestinese che domina nei settori della finanza, del commercio e delle costruzioni, mentre la borghesia giordana fa difetto.

La postura radicale dell’OLP non era destinata a durare a lungo. I suoi sforzi per un approccio più pragmatico sono visibili - malgrado i famosi 10 punti dello stesso anno che rivendicavano l’instaurazione di uno stato binazionale nell’insieme della Palestina - almeno a partire dal suo riconoscimento da parte della Lega Araba come unico "rappresentante del popolo palestinese" e l’ammissione all’ONU come “osservatore permanente” (1974).

Progressivamente, da una richiesta incentrata sul ritorno dei rifugiati si passa a quella di un’ “autodeterminazione” limitata ai territori occupati di Gaza e Cisgiordania, ovvero il 22% della Palestina storica. Studi effettuati dalla Banca Mondiale avevano valutato la possibilità di ritorno (nei territori occupati) solo di una minima frazione dei rifugiati, cioè tra le 250.000 e le 500.000 persone. Già alla fine degli anni '80, l'immagine che alcuni leader palestinesi avevano del futuro era quella di uno Stato moderno con un'economia competitiva, una "Singapore mediorientale" basata sulla libera impresa, che avrebbe potuto accogliere o beneficiare solo del sostegno dei membri più istruiti della diaspora. Nel 1993 avviene il riconoscimento dello Stato d’Israele.

A partire dal 1994, gran parte del personale politico dell'OLP, guidato dal suo presidente Arafat, emigrò dalle varie aree di assegnazione in Medio Oriente e Nord Africa per partecipare alla gestione dell'Autorità Nazionale Palestinese. Nel 1997 erano circa 267.000, intorno al 10% della popolazione dei territori. In seguito, altri membri della diaspora - in provenienza dal mondo arabo od occidentale - tornarono a stabilirsi in Palestina. Il loro arrivo rispondeva al bisogno di personale qualificato richiesto dallo sviluppo istituzionale dell'Autorità nazionale palestinese, nonché alla necessità di espandere il settore imprenditoriale. Nel 2010, quasi tre quarti di questi rimpatriati provenivano dai Paesi arabi: Giordania (36,1%), Stati del Golfo (29%) e altri Paesi arabi (Egitto, Iraq, Maghreb – 14%). Ma i più in vista, per il loro stile di vita occidentale e l'uso dell'inglese come lingua franca, provenivano dagli Stati Uniti e da altri Paesi occidentali (20,6%).

La creazione di uno Stato riconosciuto dalla comunità internazionale comporterebbe la cessazione dei servizi e dei benefici di cui godono i rifugiati, e ciò mentre l’impianto dell’ANP non si dimostra in grado di rappresentare una vera alternativa, dal momento che l’economia dei territori occupati è ormai totalmente dipendente da Israele, la quale non cessa la progressiva occupazione del territorio, senza più trovare ormai l’OLP a combatterla. Di qui una crescente opposizione alla prospettiva dei “due Stati”.

In tal senso a partire dalla fine degli anni '90 ebbero luogo diverse iniziative popolari: conferenze, manifestazioni, discussioni parlamentari, creazione di comitati per la difesa dei diritti dei rifugiati, ecc. Il messaggio di questi "profughi dell'interno" diveniva sempre più il seguente: "la Palestina di Oslo non è la nostra Palestina". Nella seconda metà degli anni ‘90 i rappresentanti locali giungono a sfidare la legittimità dell’OLP a negoziare con Israele, rivendicando la partecipazione alle trattative. Sulla loro scia si muovono anche i rifugiati esterni. Nascono associazioni come Aidun in Libano e Siria15 e la Coalizione per il diritto al ritorno, nata nel 2001, che raccoglie associazioni provenienti da Palestina, Paesi arabi ed Europa. Nel 2017 la Conferenza dei Palestinesi all'estero, a Istanbul, riunì quasi 5.000 persone, tra cui anche palestinesi dell'America Latina, prendendo le distanze dalla leadership palestinese, a cui si imputava corruzione e liquidazione dei diritti dei rifugiati.

Questo processo corrispondeva anche al travaso di forze tra ex membri insoddisfatti dell’OLP ed Hamas, della quale mi propongo di occuparmi in altra occasione.

La seconda Intifada (2000-2005) – che a differenza della prima vede la partecipazione dei palestinesi israeliani – determina una radicalizzazione politica di massa: di conseguenza molti uomini d'affari e professionisti palestinesi spostano di nuovo i loro interessi all'estero. Si valuta che dalla fine del 2000 ben 100.000 palestinesi abbiano lasciato la Cisgiordania per la Giordania o l'Occidente.

Sembra arduo, se non impossibile, stabilire la percentuale di proletari nella diaspora palestinese. In ogni caso improponibile in un lavoro limitato come questo. Ma dopo quanto detto si possono avanzare alcune ipotesi e considerazioni. Nei paesi dove più grande è il numero di rifugiati palestinesi, la Giordania e il Libano, fra la popolazione palestinese ivi residente esiste sicuramente una quota di proletari; ma di quale proletariato stiamo parlando? I proletari “puri” vi devono costituire una minoranza, immersa in un magma di profughi diseredati, di semi proletari precari, di piccola borghesia.

Nelle petro-monarchie del Golfo i proletari palestinesi ammontano probabilmente intorno ai 200-250 mila. Sia chiaro: il loro limitato numero non è l’unico lato della storia: essi dividono la condizione di salariati con indiani (oggi i più numerosi, con quasi sette milioni), seguiti da bangladesi (3,3 milioni), pakistani (3,2 milioni), egiziani (2,4 milioni), indonesiani (1,7 milioni), filippini (1,6 milioni), nepalesi (1,3 milioni), srilankesi (1,1 milioni), yemeniti (un milione), sudanesi (650.000), giordani (550.000), libanesi (330.000). La crescita del numero di stranieri ha portato a una situazione in cui essi rappresentano ormai la metà della popolazione dei Paesi del Golfo nel suo complesso e, secondo stime ampiamente prudenti, più di un terzo della popolazione in Arabia Saudita, il 44% in Oman, il 55% in Bahrein, il 70% in Kuwait, l'88% in Qatar e negli Emirati Arabi Uniti, con un record mondiale assoluto nella città di Dubai.

La popolazione migrante è costituita principalmente da lavoratori giunti senza le loro famiglie. Gli stranieri sono quindi sovra rappresentati nella forza lavoro, e ancor più nel settore privato. Rappresentano i due terzi dei dipendenti in Arabia Saudita e ben il 99,5% di quelli negli Emirati Arabi Uniti. Dall'energia ai trasporti, dalla distribuzione dell'acqua ai servizi di ristorazione, la maggior parte dei settori dell'economia dipende dall'importazione di manodopera straniera, con una concentrazione particolarmente elevata nei settori dell'edilizia, del commercio e dell'occupazione domestica. Per quanto massiccia, questa presenza straniera è solo parzialmente visibile: i lavoratori domestici sono confinati nelle case dei loro datori di lavoro, mentre gli operai e i lavoratori delle fabbriche sono spesso alloggiati in città dormitorio in periferia o fuori città.

In altre parole – dal momento che le tipologie di lavoro sono per lo più assegnate dai paesi ospitanti su base nazionale – ci troviamo di fronte a un enorme potenziale di solidarietà di classe internazionalista, che però al momento attuale è relegato al futuro, difficili essendo le relazioni tra le diverse nazionalità, ancora divise da questioni linguistiche, culturali, religiose. Si può presumere che, con il loro alto grado di politicizzazione, i palestinesi potranno giocare in tale futuro un ruolo di avanguardia, ma non è meno vero che il loro numero è davvero esiguo di fronte a quello di lavoratori di altre nazionalità. Non bisogna poi scordare che l’oppressione nazionale di cui soffrono rappresenta attualmente una remora all’indipendenza di classe e un fattore di influenza su di loro dell’egemonia politica esercitata fin qui dalla borghesia palestinese.

 

Qualche ipotesi conclusiva

In Palestina appare dunque problematico immaginare che un proletariato frammentato, precario, poco consistente e immerso in un brodo di coltura di diseredati, piccoli borghesi e profughi possa proporsi, fin da oggi, un’influenza autonoma sugli avvenimenti drammatici che vi si svolgono. Anche nella diaspora palestinese, abbiamo visto, manca una robusta quota di proletari. Ciò dovrebbe far riflettere coloro che - magari con sincero spirito classista, ma con troppa leggerezza - se ne fanno i mentori. Nondimeno, un proletariato palestinese si va formando. Ma – ecco il punto nodale – non tanto come classe nazionale, bensì come parte di un proletariato che, nel Medio oriente, è fin d’ora internazionale non solo come vocazione storica, bensì proprio come caratteristica concreta, composto com’è di lavoratori di svariate nazionalità. È in tale direzione che marcia il futuro delle lotte di classe in un’area che va considerata nella sua globalità.

Se è dunque vero che la fine dell’oppressione nazionale è interesse dello stesso proletariato palestinese, lo è altrettanto che, per quanto embrionale esso sia, esso deve sin d’ora evitare di appiattirsi sul confronto fra popolo palestinese e sionismo. Su questo aspetto spero di poter tornare a breve.


Note
1 Esistono posizioni intermedie, e in particolare quella secondo cui il problema dell’autonomia del proletariato palestinese esiste ma va rimandato alla fase successiva alla lotta contro lo Stato sionista. Mi propongo di parlarne in altra occasione.
2 Employment Among Israeli Arabs, A Document Prepared by IDI's Arab-Jewish Policy Forum, October 31, 2011. https://en.idi.org.il/articles/10190
3Frei, A. (2001). Israele e i suoi cittadini arabi. “Rivista di Studi Politici Internazionali”, 68(4 (272)), 569–586. http://www.jstor.org/stable/42739755.
4 Mi baso per questa parte quasi esclusivamente su La situation des travailleurs des territoires arabes occupés, Rapport du Directeur général, Annexe, Conférence internationale du Travail 111e session 2023, Organisation internationale du Travail, https://www.ilo.org/wcmsp5/groups/public/---ed_norm/---relconf/documents/meetingdocument/wcms_883210.pdf . Molti dati sono reperibili nel Palestinian Centrale Bureau of Statistics, l’ufficio statistico dell’ Autorità nazionale palestinese: https://www.pcbs.gov.ps/default.aspx
5 LABOUR MARKET AND EMPLOYMENT POLICIES IN PALESTINE, European Training Foundation, 2014. https://www.etf.europa.eu/sites/default/files/m/49583C88B3C1AD0DC1257CD1003DA5FC_Employment%20policies_Palestine.pdf
6 Le aree semi-agricole in prossimità delle città.
7 Fondata nel 1949, l’UNRWA è finanziata da contributi volontari. Nel 2018, gli Stati Uniti (che avevano creato l'UNRWA ed erano il principale Paese donatore, insieme all'Unione Europea) annunciarono la fine dei loro contributi. Malgrado tutto, non si deve pensare all’Agenzia come ad una mera emanazione dei finanziatori o della stessa ONU. Nella sola Striscia di Gaza essa conta 13.000 operatori, in maggioranza palestinesi, ed è quindi infiltrata da Hamas e dalle altre fazioni politiche che operano nella Striscia. Non solo per questo, ma per la sua stessa funzione, l’Agenzia è invisa allo Stato d’Israele, che ha proposto di abolirla, e non è indenne dagli attacchi delle forze di difesa d’Israele. A partire dal 7 ottobre fino al 18 novembre dell’anno scorso 103 suoi operatori erano caduti sotto il fuoco sionista (N. Boffa, L. Santucci, UNRWA e Hamas. Storia di un legame controverso e inevitabile, Huffpost), https://www.huffingtonpost.it/esteri/2023/11/17/news/unrwa_e_hamas_storia_di_un_legame_controverso_e_inevitabile-14156446/
https://theconversation.com/un-peuple-disperse-les-palestiniens-face-a-la-guerre-de-gaza-217942
9 Si vedano in proposito i seguenti articoli opportunamente segnalati dai blog pungolorosso.com e combat-coc.org:https://peoplesdispatch.org/2024/01/05/indian-construction-workers-reject-labor-export-deal-to-israel-as-sinister-ploy-reaffirm-solidarity-with-palestine/
https://wac-maan.org.il/return-to-work-2/?fbclid=IwAR1z5KVc0yEGSVAVsrskRY_fQ9T9RPOu5TgjwjLv7nxEZo7iRZmQoY5tslk
10 Per questa parte ho utilizzato principalmente le seguenti fonti:
- Claire Beaugrand, Travailleurs migrants dans les pays du Golfe, GRAND ANGULAIRE
AFKAR/IDEES, 2019
https://www.iemed.org/wp-content/uploads/2019/07/Travailleurs-migrants-dans-les-pays-du-Golfe.pdf
- Jalal Al Husseini, La diaspora palestinienne, Réseaux réfugiés, réseaux citoyens? Marseille, Beyrouth, Diacritiques Éditions, Presses de l'Ifpo Collection : Sciences humaines et sociales 2020, OpenEdition Books, 2022
- ID, The Management Of The Palestinian Refugee Issue In The Arab States in Search Of An Uneasy Equilibrium, in MIGRATION ET POLITIQUE AU MOYEN-ORIENT, Beyrouth, Presses de l’Ifpo, 2006, OpenEdition Books, 2014.
- Sari Hanafi, Les réfugiés palestiniens, la citoyenneté et l’État-Nation; idem
- https://merip.org/1985/05/the-palestinian-diaspora-of-the-gulf/
- https://www.today.it/mondo/dove-vivono-palestinesi-nakba-diaspora.html
- https://fr.wikipedia.org/wiki/Diaspora_palestinienne
11 Palestinian Central Bureau of Statistics, https://www.pcbs.gov.ps/post.aspx?lang=en&ItemID=4544
12 Va osservato che il numero dei rifugiati non corrisponde a quello dei palestinesi: un certo numero di espatriati hanno acquisito la cittadinanza dei paesi di destinazione.
13 Si vedano le statistiche dell'UNRWA sui siti web dei Paesi interessati: ad es. https://www.unrwa.org/prs-lebanon; https://www.unrwa.org/prs-Jordan, ecc.
14 Ad es. l'Unione Generale degli Studenti Palestinesi nel 1959, la Mezzaluna Rossa Palestinese nel 1968, le scuole di educazione politica e militare per ragazzi e ragazze, l'Unione Generale degli Insegnanti Palestinesi nel 1969 e l'Associazione per i Figli dei Martiri Palestinesi nel 1970
15 http://www.aidoun.org/en/global-palestine-right-of-return-coalition/

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