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sinistra

Riflessioni sulla Palestina

di Comitato Antimperialista Arezzo e Collettivo Millepiani Arezzo

Manifestazione per la Palestina 3.jpeg1. Resistenza e Rivoluzione in Palestina

Il genocidio che lo Stato neocoloniale israeliano sta perpetrando sui palestinesi di Gaza e della Cisgiordania, un genocidio che strazia le sue vittime con tutta la sproporzione tecnica dei suoi mezzi offensivi, a cominciare dal calcolato piano generale – amministrativo, militare ed etnico – inflessibilmente seguito, si scontra tuttavia con un ostacolo, poiché viene contrastato, e quindi indebolito, nella sua furia genocida, dalla irriducibile Resistenza di mobilissime formazioni di fedayyin, che spuntano improvvise e che scompaiono prontamente in quelle distese di macerie che una volta erano gli edifici di Gaza. Il genocidio sta dentro una guerra implacabile: una guerra di sterminio, da una parte; una guerra di liberazione dall’altra. Questo è il senso storico e politico di quanto sta avvenendo in Palestina, dal quale non si può assolutamente prescindere, in un’azione di massa che miri a dare forza e valore all’espressione “Palestina libera”, gridata in tutte le piazze. Infatti, se non si appoggia, se non si rende visibile, se non si dà un volto politico alla “lotta di liberazione armata” del popolo palestinese, la parola d’ordine “Palestina libera” diviene semplice coreografia. Occorre pertanto rendere netto e inconfondibile il profilo della lotta di liberazione armata dei palestinesi e, contemporaneamente, occorre adoperarsi con tutte le nostre forze per conquistare le masse popolari occidentali a un deciso e completo “riconoscimento” di questa guerra popolare di liberazione. Come per la Repubblica spagnola, aggredita nel ’36 dall’imperialismo nazifascista, e per il Vietnam bombardato con il Napalm dall’imperialismo statunitense negli anni Sessanta, una mobilitazione internazionalista sostenne il peso di una lotta comune, così oggi, di fronte alla “soluzione finale” avanzante a Gaza con gli aerei e i blindati israeliani, diventano urgenti le idee e le parole d’ordine internazionaliste per sostenere fino in fondo e senza perifrasi la Resistenza palestinese.

Se con il pensiero corriamo alle Resistenze europee al Nazifascismo, Resistenza significa anche Rivoluzione; o almeno così appare quella situazione di conflitto fra poteri costituiti e statali, da un lato, ed eserciti popolari – o formazioni armate popolari -, dall’altro, che le Resistenze europee espressero vigorosamente, per quanto tale carattere del conflitto divenga riconoscibile soltanto se si va “alla radice delle cose”. Naturalmente nelle Resistenze europee, le borghesie più o meno liberali poterono manovrare gli avvenimenti, soprattutto grazie alla continuità burocratica degli Stati, all’inerzia dell’economia capitalistica e, soprattutto, all’occupazione anglo-americana del territorio. Ciò non toglie che nelle ambizioni, negli ideali, nelle motivazioni dei combattenti, nei simboli e, soprattutto, in molti programmi politici – oltre che in atti costituenti concreti di poteri politici partigiani – le Resistenze antifasciste potessero trascinare nel loro cammino, un mutamento profondo dei rapporti sociali di classe. Questo stato di cose è stato particolarmente intenso in Italia, e anche uno storico come Claudio Pavone, piuttosto lontano dal marxismo, ha riconosciuto che la Resistenza è stata anche una guerra di classe. Inoltre, se andiamo alla “radice delle cose”, come Marx raccomandava di fare, troviamo che sono stati soprattutto i rapporti di classe vacillanti a mettere in allarme i comandi anglo-americani, a provocare la crisi del C.L.N. e dell’unico suo fragilissimo e impotente governo, nonché a generare, subito dopo, una penosa catena di compromessi nel segno dell’unità nazionale. Le Resistenze antifasciste non sono state tuttavia “rivoluzioni mancate”; sono state piuttosto situazioni rivoluzionarie non sfruttate dai partiti proletari, risucchiati nell’orbita delle borghesie nazionali. Quindi, per concludere, in ogni resistenza scaturita dall’antifascismo europeo, per quanto l’esito della lotta non sia mai stato rivoluzionario, la prospettiva della rivoluzione è sempre rimasta aperta. Tale circostanza è istruttiva per la Resistenza palestinese, dove il dominio coloniale deve necessariamente accrescere la misura e le dimensioni dello scontro di classe. Qui la Resistenza non può che scavalcare se stessa verso la Rivoluzione.

Le guerre anticoloniali di liberazione hanno spesso mostrato questa parabola. L’Algeria è stata, a tal proposito, un caso esemplare, poiché durante la mobilitazione capillare del popolo contro l’occupante francese - attraverso attentati, scioperi, boicottaggi e varie forme di guerriglia dislocate nei due poli geografici della città e della campagna - il Fronte di liberazione algerino strappò il popolo alla duplice ipoteca della modernizzazione capitalistica francese e della ricaduta reattiva nella tradizione, favorendone una maturazione politica che le insurrezioni dei primi anni sessanta avrebbero reso imponente e risolutiva. Una lotta per l’indipendenza coloniale aveva acquisito, in tale cammino, una prospettiva socialista che, nonostante il ricatto neocoloniale degli accordi di Evian, orientò i primi passi della nuova società algerina. La circostanza che di lì a pochi anni una controrivoluzione arrestasse questo moto storico, nulla toglie al fatto che, nel periodo precedente, una Resistenza era divenuta, nelle vicissitudini della lotta, una Rivoluzione.

Rispetto a questo corso storico, la vicenda delle organizzazioni della Resistenza palestinese sembra – dal punto di vista della cronaca dei fatti – un po’ diversa. La Resistenza palestinese, infatti, ha compiuto i suoi passi decisivi in un tempo ben più lungo, dagli anni ’60 agli anni ’90 – segnati, questi ultimi, dalla battuta di arresto del protocollo di Oslo, con tutto il disorientamento che ne è seguito -, ed è poi proseguita, dopo l’avvio della possente Intifada del 2000/2005, in forme più spontanee, con una direzione frammentaria, e contando su una base logistico-militare e su reti di protezione sociale costruite da confraternite mussulmane riunite nel cartello Hamas. Solitamente, in questo lungo arco storico, vengono distinti due periodi, o due fasi, che spesso vengono contrapposti, ma che invece corrispondono a due diverse congiunture storiche: il periodo dell’OLP e il periodo di Hamas, con un passaggio intermedio, quello delle trattative avviate ad Oslo, con il penoso strascico di un tutore palestinese dell’ordine israeliano. Un tutore con la divisa, denominato Autorità Nazionale Palestinese.

Siamo dell’avviso che la differenza fra questi due contesti storici sia tutt’altro che irrilevante e che l’O.L.P., soprattutto nelle sue componenti marxiste, abbia rivestito un ruolo importantissimo di avanguardia politica, ideologica e culturale, riuscendo a intrecciare con esso una lotta armata capace di contrapporsi all’occupazione israeliana e di irrompere nel quadro degli equilibri e delle penetrazioni imperialistiche in Medio Oriente. Per questo, la dissoluzione dell’O.L.P., in seguito all’assorbimento dei moderati di Al-Fatah nel sistema di governo dei territori nato all’ombra di Israele, ha lasciato un vuoto immenso, causa di disgregazione e di smarrimento. Tuttavia, la Rivoluzione palestinese era già in moto, sospinta e alimentata dai decenni di Resistenza armata e di educazione politica del popolo palestinese, nelle quali si erano prodigati i gruppi dell’O.L.P., e questa onda della Rivoluzione, culminata nell’Intifada del 1987, era stata una realtà cosi pervasiva, e, al tempo stesso, una forza così radicale, che, in forme diverse, è proseguita successivamente. E’ stata questa Rivoluzione – frutto maturo della Resistenza – a mantenere la lotta dei palestinesi in un asse antimperialistico che ha attirato su di loro l’avversione e la diffidenza dei regimi oligarchici o dispotici della regione, laici o religiosi che fossero, e a ispirare alle diplomazie piani di neutralizzazione tutelare delle organizzazioni politiche del popolo, con affidamenti a rappresentanze diplomatiche terze; ed è stata questa Rivoluzione che ha reso il popolo palestinese così poco manovrabile per il mantenimento degli assetti neocoloniali della regione; e infine, e soprattutto, è stata questa Rivoluzione palestinese che ha reso impraticabile la strategia israeliano-nordamericana di reclusione dei palestinesi in uno Staterello satellite e subordinato, agganciato a una nuova e ancor più iniqua spartizione della Palestina, denominata, questa volta, “Processo di pace”. Ma queste tenaglie sono sempre state rotte: la Rivoluzione continua.

Ma la Resistenza palestinese, come tutte le altre Resistenze, antifasciste o anticoloniali, non è stata un movimento uniforme e compatto, in quanto la composizione di classe della società apre sempre la via alle divisioni interne delle organizzazioni di lotta. Così, quando si profilò, intorno alla metà degli anni Ottanta del Novecento, un’intesa tra Arafat e Re Hussein per il progetto di una Confederazione giordano-palestinese, che conteneva una clamorosa capitolazione, le correnti rivoluzionarie dell’O.L.P., che avevano in Habash e Hawatmeh i loro rappresentanti più noti, costituirono il “Fronte del rifiuto”. Certo, la Confederazione era un ripiegamento, era, in parte, la conseguenza dei colpi durissimi che la Resistenza palestinese aveva ricevuto in Libano, dove la guerra di sterminio israeliana del 1982 aveva già sperimentato la tattica dei bombardamenti terroristici sui quartieri palestinesi di Beirut, sepolti sotto tonnellate di bombe, e dove, in combutta con i governi israeliani, le bande fasciste cristiano-maronite dei signori della guerra libanesi, finanziate dai banchieri e dai magnati del paese dei cedri, avevano compiuto scempi e massacri fra i palestinesi dei campi-profughi, da Tell al Zatar, nel 1976, a Sabra e Shatila, nel 1982. E non mancò, nel periodo libanese della Resistenza, un pieno appoggio siriano alla morsa che veniva stretta intorno ai palestinesi, poiché l’intento manifesto del regime di Damasco, sempre rinascente durante la guerra civile libanese, era quello di sbarazzarsi dell’O.L.P. E’ questo, dunque, il contesto nel quale Fatah immaginò un avvicinamento al re di Giordania, all’uomo che, qualche anno prima, nel “settembre nero” del 1970, aveva spopolato i quartieri palestinesi di Amman con i carri armati e i tiratori scelti. Quelle infauste circostanze rendono facilmente riconoscibile la drammatica crisi attraversata dalla Resistenza palestinese, ma ciò non toglie che la china capitolarda della trattativa con Hussein avrebbe affossato definitivamente ogni prospettiva di Rivoluzione; per questo essa venne decisamente osteggiata dalle frazioni marxiste e radicali dell’O.L.P. Poi venne la prima intifada, e lo stato insurrezionale permanente, nei territori occupati e tra i rifugiati, spazzò via quel piano, con tutte le illusioni che lo accompagnavano. Ma la cecità e l’ingenuità del compromesso, sullo sfondo del quale già si intravedevano gli interessi di una sorniona borghesia commerciale palestinese, rispuntò nei primi anni Novanta. E così la Resistenza si arenò negli accordi di Oslo.

Dopo l’Intifada che ha inaugurato il XXI secolo in Palestina e che ha svincolato i palestinesi dalla ragnatela ideologica e diplomatica che spettacolarizzava la finzione della pace, la Resistenza palestinese ha ripreso slancio e determinazione, anche se Hamas e le altre organizzazioni della Resistenza - riuniti in un blocco politico e militare, eterogeneo nelle idee e nei programmi, ma compatto nell’azione - non soltanto non colmano il vuoto lasciato dalla dissoluzione dell’O.L.P., ma, rispetto alle correnti radicali e marxiste di quella fase della Resistenza palestinese, la loro strategia e i loro programmi appaiono ristretti in un orizzonte nazionale che vela – o lascia ai margini - le ripercussioni e gli effetti di un’azione rivoluzionaria - comunque intransigente – nel quadro generale del Medio Oriente. Gli obiettivi nazionali dei palestinesi, infatti, quando questi ultimi rifuggono dagli inganni diplomatici e smascherano la disparità delle posizioni nelle trattative, intaccano i meccanismi sociali e la distribuzione del potere politico in tutta l’area mediorientale, e in tal modo sconvolgono i piani dell’imperialismo degli Stati Uniti e dell’Europa occidentale nella regione. La guerra di liberazione nazionale dei palestinesi sottrae a Israele la sua periferia coloniale e quindi indebolisce tutta la catena imperialistica, anzi, per dirla con il linguaggio di Lenin, ne spezza un anello fondamentale. Per questo, la portata rivoluzionaria della Resistenza palestinese va ben oltre i fini tattici che, per astuzia diplomatica o per la congiuntura storica sfavorevole, essa, di volta in volta, si propone.

Ed eccoci a un nodo decisivo di ogni discorso su Resistenza e Rivoluzione in Palestina. Questo nodo riguarda, infatti, la “composizione di classe” di un vasto movimento popolare – oltreché delle sue avanguardie politiche e guerrigliere – che è iniziato nel periodo del mandato inglese sulla Palestina, durante il quale divamparono ben due intifade, la prima nel 1929, e la seconda nel 1936, repressa dagli inglesi con i fucilieri, le torture e lo stato d’assedio. In quel periodo la popolazione della Palestina, prevalentemente contadina, venne espulsa dalla terra, e fittavoli e piccoli coltivatori autonomi vennero trasformati in braccianti occasionali, con salari da fame, o in sradicati urbani. Infatti, le terre dove vivevano e lavoravano, e che fruttavano rendite a notabili e possidenti sparsi per l’Oriente e per l’Europa, vennero acquistate dalla ricca e vorace agenzia sionista che dirigeva la colonizzazione economica della Palestina. Gli insediamenti sionisti diventarono ben presto un sistema sociale, l’Ishuv, con un suo ben addestrato strumento militare, l’Haganà, e la terra, che Ben Gurion, da nazionalista tutto d’un pezzo, non si stancava di reclamare per i coloni, venne sottratta ai palestinesi, non soltanto con il potere del denaro, ma anche con la forza delle armi. Le origini della Resistenza palestinese sono dunque origini contadine e tali restarono anche dopo la nascita dello Stato d’Israele, nei primi anni Cinquanta del Novecento, quando, dopo la Nakba e le prime cruentissime pulizie etniche, si formarono, in condizioni avverse e con scarsi mezzi, i primi movimenti di guerriglia.

Dopo gli anni Sessanta del Novecento, e soprattutto dopo la guerra del 1967 e l’occupazione israeliana della Cisgiordania e di Gaza, la diaspora palestinese divenne imponente ed i campi di rifugiati accolsero una popolazione ridotta in una miseria estrema, sostentata a malapena con le elemosine dell’O.N.U., alloggiata in baraccopoli e circondata dall’ostilità delle classi agiate dei paesi di approdo, dalla Giordania, alla Siria, al Libano. I palestinesi rimasti nei territori divennero manodopera precaria e sottopagata, sottoposta a una maniacale sorveglianza e reclutata a giornata dietro ai fili spinati dei check point dai commessi delle ditte, dei cantieri e delle fattorie israeliane. Naturalmente è stata l’edilizia a sfruttare di più questa riserva di forza lavoro, poiché in Israele le cementificazioni e le “grandi opere” non hanno conosciuto limiti. Anche l’industria pesante non è mai stata scarsa nell’economia israeliana, ma l’industria israeliana, intrecciata com’è con gli apparati militari, ha filtrato etnicamente i dipendenti, e quindi per i palestinesi non è mai stata uno sbocco lavorativo importante. Spesso i precari palestinesi hanno intrapreso difficili lotte sindacali, e sono stati loro gli attori principali dei pochi scioperi che sono avvenuti in Israele. Pochi furono gli agricoltori che cercarono di sopravvivere nei territori, anche perché la moltiplicazione degli insediamenti, le requisizioni e il metodo delle punizioni collettive, con il quale l’IDF (le forze armate israeliane) mirava a soffocare in una cappa di terrore un popolo irriducibile a una condizione di pariah, e infine il controllo delle forniture e delle reti idriche, resero impraticabile, per i palestinesi, il lavoro nelle campagne. Le campagne divennero, da un lato, gli orti lussureggianti intorno alle villette dei coloni, e dall’altro, la terra arida dei palestinesi. Gli olivi curati intorno alle decorose dimore degli uni; gli olivi segati intorno alle case degli altri. Ecco qua il quadro umano di un rapporto di classe.

Fino a qui, nel profilo sociale della Resistenza, appare chiara e netta la fisionomia di un proletariato palestinese. Tuttavia, una borghesia commerciale e professionale non manca. Questa borghesia, per i suoi traffici, si appoggia sui territori, ed in parte vi risiede; ma la parte più consistente di essa si è stabilita all’estero, nel Golfo e in Europa, ed è da queste aree che essa muove la sua rete commerciale. All’origine di questa borghesia ci sono, soprattutto, le emigrazioni di piccoli proprietari e di artigiani espulsi dalla Palestina nel corso delle frequenti “pulizie etniche”; si è trattato, nel caso in questione, di un’emigrazione che ha favorito il successo economico di lavoratori specializzati, di professionisti e di imprenditori e dalla quale è emerso uno strato sociale molto distante, nella condizione sociale, dai palestinesi dei territori e dai profughi. Alla borghesia palestinese appartengono inoltre i funzionari dell’Autorità Nazionale Palestinese e la burocrazia degli enti e degli uffici a essa connessi, poiché la posizione politica di questi gruppi è inseparabile da uno status sociale nettamente privilegiato rispetto agli altri gruppi della popolazione. La borghesia palestinese, trascinata anch’essa nella Resistenza, l’ha appoggiata e sostenuta con un guardingo timore delle svolte rivoluzionarie, e non è difficile riconoscere gli interessi e le aspettative di questa classe nelle opzioni moderate di Fatah, dalla Confederazione Giordano-palestinese ai negoziati di Oslo e agli inganni del dopo-Oslo, fino al disastro dell’ANP, ridotta a una brutta maschera dell’occupazione israeliana.

A questo punto, in conclusione, ci domandiamo: quale carattere specifico della Rivoluzione palestinese viene lasciato intravedere da un proletariato composito, lontano dalla fabbrica taylorista, proveniente dallo sradicamento contadino, ammassato nei suburbi o disperso in mezzo a insediamenti coloniali, in una condizione di servaggio subindustriale e infine, ed è la cosa più importante, esposto al terrore militare di uno Stato colonialista e razzista? La risposta viene fuori facilmente: qui la lotta anticoloniale è immediatamente un attacco ai rapporti di classe, poiché in Palestina una borghesia nazionale consolidata non c’è, e il popolo, ampiamente proletarizzato, riversa le sue basi contadine in una periferia metropolitana sempre pronta a insorgere. E allora l’immagine della Rivoluzione palestinese prende piede, ed è quella, maoista, della “campagna che accerchia le città”. Così un detto di Mao che oppone il colonialista metropolitano al contadino colonizzato può dischiudere il fondo sociale e di classe di una Resistenza palestinese che, forse, fin dall’inizio era già incamminata verso una Rivoluzione. Per Fanon e Che Guevara, nelle prime sollevazioni popolari dei paesi colonizzati, i contadini erano la classe rivoluzionaria. I Palestinesi di oggi, non sono certo i fellàhin di un tempo, ma la Palestina di Gaza e della Cisgiordania è, nell’economia-mondo capitalistica, una campagna che accerchia la metropoli.

 

2. Prospettive rivoluzionarie

Dove va oggi la Rivoluzione palestinese? La risposta è ancora una volta semplice e diretta, poiché si riassume in una parola d’ordine, in un nome e in un aggettivo che sono diventati un’onda sonora nelle nostre piazze: Palestina libera! Già, Palestina libera; ma che cosa vuol dire veramente? E perché queste due parole che diventano un grido appassionato, possono accordarsi, se prese sul serio, con una rivoluzione anticoloniale in cui sono in gioco importanti rapporti di classe internazionali? In fondo, la parola libertà è così vaga e indeterminata che può andare bene per padroni e proletari. Perché, allora, in questo caso, l’aggettivo “libera”, nello slogan “Palestina libera”, può essere altrettanto esplosivo della parola d’ordine “Palestina rossa”, che gridavamo un tempo, in anni politicamente migliori di questi? E che cosa intendiamo quando diciamo che queste due parole, innocue se rituali, hanno in sé un potenziale rivoluzionario se vengono prese sul serio? I sentieri di queste domande ci conducono nelle prospettive della Rivoluzione palestinese.

Innanzitutto la prospettiva di ogni Resistenza al dominio coloniale è la Rivoluzione anticolonialista, e la Rivoluzione anticolonialista, per essere veramente tale, deve liberare lo spazio geografico e sociale della società, ossia deve distruggere la base materiale della “condizione coloniale”. Ciò comporta la dissoluzione del mondo asimmetrico delle sorveglianze disseminate, la fine dell’incubo quotidiano dell’iscrizione razziale dello sfruttamento di classe - nel quale lo sfruttamento del lavoro salariato è raddoppiato dalla fungibilità illimitata di una forza-lavoro ghettizzata - e la ricomposizione dei territori, spezzettati dai colonizzatori per fortificare le terre sottratte e per tenere a bada i colonizzati. Ebbene, tutto ciò, in Palestina, reclama un assetto politico unitario, uno spazio comune per le popolazioni, con istituzioni e ordinamenti plurinazionali e socialisti, e non la permanenza dello Stato d’Israele, che è il braccio armato coloniale dell’Occidente in Medio Oriente e uno Stato genocida e razzista. La circostanza che i gruppi della Resistenza palestinese, in questi tempi, e nelle tremende avversità che devono affrontare, non trasformino questa esigenza - emergente con forza dalla situazione storica - in un programma, o, se non in un programma, perlomeno in un intento esplicito, dipende dalla priorità tattica che, nelle lotte anticoloniali, spetta alla questione nazionale. Molto spesso, infatti, dalle ferite e dai traumi inferti dal padrone occidentale alle forme di vita culturali e storiche dei popoli assoggettati, è scaturita la rabbia per le umiliazioni subite, per le tante umiliazioni che esasperavano l’impoverimento estremo delle società coloniali. Così, assai frequentemente, l’identità nazionale è stata la prima e più immediata espressione del progetto anticoloniale. In questa identità, tuttavia, per la tipica composizione di classe delle periferie coloniali, si nascondevano tensioni sociali ben più profonde, tensioni che dovevano esplodere man mano che la questione nazionale avanzava verso le sue soluzioni. Lo scontro di classe, inevitabile all’interno del processo travagliato e contraddittorio delle decolonizzazioni, con il passaggio delle borghesie nazionali all’imperialismo, e con l’emergere di tendenze socialiste e internazionaliste nei movimenti anticoloniali, proviene proprio da questa dinamica rivoluzionaria di forze sociali inizialmente orientate su forme di resistenza. Franz Fanon ha descritto questi passaggi in pagine famose e Ho Chi Minh li ha mostrati con la sua condotta.

Tuttavia, se ci addentriamo nell’intrico fra la questione nazionale palestinese e la matassa dei rapporti di classe in Palestina, l’aspirazione a una “Palestina libera” acquista un significato che la Resistenza palestinese intravede e lascia intravedere, ma che soltanto ulteriori traguardi rivoluzionari potranno rendere manifesto. Infatti, la prima e fondamentale condizione di una Palestina libera, è, in base a ogni elementare coerenza, l’eliminazione di muri, di corridoi, di sbarramenti, di reticolati, di enclaves e di tutti i ritagli di territorio che sono la forma spaziale della carcerazione dei palestinesi, lo strumento amministrativo del sistema concentrazionario che li distribuisce nelle superfici geografiche della Palestina. Ma l’eliminazione delle prigioni a cielo aperto – prigioni! Quindi non soltanto Gaza! – è impensabile senza l’abbattimento dell’apparato di repressione e di controllo che di queste “tattiche locali” di annichilimento umano e sociale è sia il patrocinatore che il “risultato strategico”. E allora – proseguendo nel ragionamento -, se lo Stato d’Israele e la sua periferia coloniale sono un unico complesso sociale polarizzato sul dominio coloniale e attraversato da un’esplosiva contraddizione di classe, balza agli occhi l’insensatezza estrema e irritante - nonché il carattere subdolamente propagandistico - della formula “due popoli, due Stati”. Questa formula è infatti l’insegna di Oslo. Di contro, la Resistenza palestinese può emergere come Rivoluzione anticoloniale, e attaccare i rapporti di classe in Medio Oriente, solo in quanto non si accontenta di uno Stato palestinese rinserrato nell’entroterra e dislocato in monconi di territorio, e per di più adiacente e subordinato allo Stato d’Israele; ma concentra le proprie forze e la propria azione “sulla decolonizzazione di tutta la Palestina”, i cui effetti possono essere enormi, per l’integrità del territorio, per il ritorno dei profughi, per la condizione del lavoro salariato e per lo scompaginamento delle strategie occidentali in Medio Oriente. “Palestina libera”, se le parole sono impiegate correttamente, significa tutto questo. E tutto questo sta dentro la Resistenza palestinese, tutto questo vi è racchiuso; anche se va trovato, perché il conteso coloniale ha il suo tempo storico e la sua dialettica, una dialettica di cui Fanon e Mao sono stati i sottili scopritori. E’ questa dialettica che intende le spinte e le controspinte, le contraddizioni e i rovesciamenti che fanno di una Resistenza, una Rivoluzione.

Edward Said, una delle figure più importanti della militanza culturale antimperialista, è stato un critico tagliente della vicenda di Oslo. La definì, infatti, “una Versailles” palestinese, alludendo, con ciò, a un accordo contenente il tacito presupposto di un abissale squilibrio di forze tra le parti, uno squilibrio paragonabile ad un trattato tra un vincitore e un vinto. La retorica della pace – in questo caso la Pax americana – ricoprì il fatto politico di belle frasi e subito vennero annunciati gli immancabili premi Nobel. Negli anni seguenti gli insediamenti israeliani, sospinti dai governi laburisti che si erano distinti nelle trattative, non conobbero limiti. Da una parte c’era uno Stato sovrano, abbarbicato in un territorio omologato dal suo comando, dall’altra parte un popolo confinato negli interstizi dell’apartheid, dissanguato dalla repressione israeliana della prima intifada, e soprattutto indebolito dalla crisi e dalle divisioni dell’O.L.P. in declino. In quel contesto, il trattato fu una resa palestinese, un cedimento che il tardivo tentativo arafattiano di introdurre nell’accordo il ritorno dei rifugiati non attenuò. Comunque, non è il trattato in quanto tale che non va, ciò che non va è la resa. Un altro tipo di trattati, infatti, se conclusi con un nemico coloniale umiliato nella sua tracotanza da sconfitte cocenti, potrebbe avere esiti diversi. Resta comunque innegabile che fino a quando la lotta dei palestinesi dovrà bilanciare la Resistenza con la sopravvivenza fisica, sociale e culturale, a causa dei piani di sterminio e di deportazione ostinatamente perseguiti dal ticket U.S.A.-Israele, l’uso tattico e propagandistico del riferimento ad uno Stato palestinese potrà tornare alla ribalta. Ciò non significa, tuttavia, che lo sbocco rivoluzionario della Resistenza – la sua prospettiva! – sia venuto meno, e che la liberazione di tutta la Palestina dalle strutture, dagli strumenti e dalle transazioni del dominio coloniale sia stata archiviata dalle organizzazioni di lotta palestinesi. La situazione storica non ammette fughe, una frontiera israeliana senza muro e senza elicotteri da guerra è impossibile, perciò la pace in Palestina richiede la decolonizzazione e la decolonizzazione dissolve lo Stato coloniale di Israele. Il groviglio di contraddizioni sociali che il contesto storico della Resistenza palestinese rende riconoscibile, delinea questa prospettiva. La guerra imperialista infuria contro di essa.

Questo drammatico crinale non è mai scomparso dalla storia della Palestina. Il “fronte del rifiuto”, all’interno dell’O.L.P., non lo perse mai di vista nella sua ferma opposizione alla Confederazione giordano-palestinese, e quando la prospettiva di quel dualismo si è offuscata nella Resistenza palestinese, la capitolazione di Oslo era in arrivo. Giova ricordare, inoltre, che quel temibile discrimine è stato scorto con preveggenza anche da importanti personalità culturali e religiose dell’ebraismo. La loro denuncia degli inizi dello Stato d’Israele, oltre che degli avvenimenti e dei poteri che lo hanno preceduto, non è stata un fatto marginale nelle vicende novecentesche della Palestina. Prima della spartizione del 1948, che, in realtà, non spartiva niente, ma assegnava di fatto all’amministrazione e ai gruppi paramilitari sionisti la parte della Palestina sotto il loro controllo, quel piano di spartizione, e l’incombente fondazione dello Stato d’Israele come Stato etnico, vennero duramente criticati ed energicamente contrastati dal movimento Brit Shalom, del quale facevano parte molte delle più importanti figure della cultura ebraica del Novecento. Il loro programma - nonché l’opera in cui si spesero - mirava a preparare le condizioni per uno Stato plurinazionale che doveva accomunare, con pari diritti, arabi ed ebrei. Si trattò, certamente, di un’impresa volontaristica e, in un certo senso, puramente etica; tutto sommato cieca nei confronti dei circuiti economici e della forza militare che appoggiavano le istituzioni coloniali sioniste, che le incoraggiavano e le proteggevano nell’appropriazione di terre e di spazi sociali, oppure nell’occupazione di luoghi e di ambienti che subito venivano chiusi agli abitanti della Palestina. Tuttavia, la denuncia di Brit Shalom, che si allargò in seguito ad altri intellettuali ebrei, molto allarmati dal protervo nazionalismo del nuovo Stato d’Israele, ha avuto il merito di scoperchiare il latente razzismo sotteso a quella divisione territoriale.

Noi, scorgendo la parabola dei rapporti di classe dietro le genealogie del razzismo, possiamo andare molto oltre, e riconoscere nella politica dell’Ishuv verso la popolazione araba i prodromi di un riassetto neocoloniale del Medioriente, le basi di una sua riconfigurazione geografica, politica ed economica destinata a rimpiazzare l’ordine amministrativo dell’Inghilterra mandataria. Pertanto la divisione della Palestina ci appare come lo snodo storico delle “cosiddette geometrie dell’imperialismo” in un’area geografica in cui, dopo la dissoluzione dell’impero Ottomano, erano in corso importanti cambiamenti. In quei cambiamenti, dei quali la Palestina era la chiave di volta, si stava compiendo il passaggio dal vecchio colonialismo al neocolonialismo. Si capisce perciò fino a che punto, e con quale radicale coerenza, “Palestina libera” significhi Palestina liberata dallo Stato d’Israele. La Resistenza palestinese deve modulare i suoi obiettivi secondo tempi e fasi che possono richiedere la difesa dell’idea di uno Stato palestinese; ma la prospettiva della Resistenza, delineata dalle circostanze storiche, è la riorganizzazione politica e sociale di tutta la Palestina. Per questo la Resistenza palestinese è, per dirla con una vecchia e suggestiva espressione, “una Rivoluzione permanente”.

 

3. La Palestina e noi

Mentre scriviamo, il gigante militare israeliano sta spazzando via Gaza. Riflettiamo di nuovo su Resistenza e Rivoluzione. Mentre Gaza viene fatta scomparire nell’aria incandescente delle bombe teleguidate e nei tralicci spettrali che sporgono dalla sue illimitate rovine, e mentre in queste si contano a decine di migliaia i corpi delle vittime, pensare processi rivoluzionari presenti e futuri o resistenze da proseguire nel solco di esperienze precedenti, o tracciando nuovi solchi, potrebbe sembrare un patetico vaneggiamento, oppure un ostinato e astratto volontarismo. Dobbiamo desistere? Dobbiamo limitarci a firmare petizioni per un “cessate il fuoco”, contenti se qualche divo e un gruppetto di accademici appoggiano l’iniziativa? Ma quale iniziativa? Bene che ci sia, certo; ma essa significa soltanto “quelle persone esistono”, e lo ricorda a noi, lo ricorda a tanta gente impotente, che tuttavia rimane impotente e isolata; mentre la macchina militare e diplomatica del ticket N.A.T.O.-Israele-Unione Europea non rallenta per così poco. Non rallenta neppure per tante generose manifestazioni; e meno che mai rallenterà perché qualcuno insiste a parlare di Rivoluzione palestinese. Comunque sia, non siamo i soli a pensare che, pur nella generale e disperante impotenza, i militanti delle lotte antimperialiste debbano stare dalla parte della guerra di liberazione del popolo palestinese, e quindi dei suoi fedayyin, di quei fedayyin che il popolo avvolge, accoglie, protegge e aiuta, come avviene e deve avvenire in ogni guerra partigiana.

Questa scelta del “partigiano” tellurico ci appare tutt’altro che astratta, anzi, la consideriamo una risposta all’appello che le immani distruzioni di Gaza, con il genocidio che minaccia tutti i palestinesi, ci lanciano senza sosta. Pertanto riteniamo che quella richiesta, che si leva dai luoghi del massacro e della devastazione, ci impegni nel proseguimento di una lotta che non è retorico chiamare comune. Ed è comune perché soltanto le sollevazioni, le insubordinazioni e le resistenze destate dalle traiettorie sempre più fitte e veloci del neocolonialismo occidentale, riescono a far riapparire, nel volto dei “dannati della terra”, quell’internazionalismo delle classi operaie che in Europa e negli Stati Uniti sembra scivolato in un lungo letargo; è comune perché il risveglio delle lotte di qui, che la miseria crescente delle società tardo-capitalistiche incalza sempre più, è inseparabile dalle rotture di altri anelli della catena imperialista, e, soprattutto, di quell’anello, forte e debole al tempo stesso, che si trova in Palestina; è comune, infine, perché la Palestina, forse ancor più del Vietnam, forse ancor più dell’America Latina, ha dato alle masse europee, purtroppo dimentiche dell’Africa, un immagine coinvolgente, tormentosa e ossessiva del colonizzato, al punto che la nostra storia recente si aggroviglia con quella dei palestinesi. Qui e altrove dunque, Ici et Ailleurs, come ricorda il titolo di un film; e si tratta di un film che dipana le trame che uniscono – pur nella separazione dei mondi storici - la solitudine e l’impotenza dei proletari europei al contrattacco dei “dannati della terra” nei confronti del terrore coloniale. Questo terrore abbraccia tutta la vita del colonizzato, pressandolo da tutti i lati, dalla sottoeconomia alla distribuzione spaziale della popolazione, dai rastrellamenti alle punizioni militari. In quel film si mostrano soprattutto palestinesi. Ma vogliamo parlare ancora dei contrattacchi.

La prospettiva rivoluzionaria che la lotta di liberazione dei palestinesi sviluppa dal proprio seno, sembrerebbe contraddetta, secondo molte obiezioni, provenienti, in questo caso, anche dalle file dei movimenti antimperialisti, dalla deriva culturale e ideologica della Resistenza palestinese dopo la disgregazione dell’O.L.P. e il successivo insediamento negoziale di un’amministrazione fantoccio denominata Autorità Nazionale Palestinese. Tale deriva avrebbe il suo segno distintivo nella rigida ortodossia mussulmana dell’organizzazione più popolare tra quelle che formano l’ampio fronte della Resistenza. Quindi piuttosto spesso, nelle nostre file, le remore che inceppano la comprensione delle contraddizioni sociali e di classe del sistema coloniale vigente in Palestina, dipendono dallo spauracchio Hamas. Anche noi muoviamo molte critiche, politiche, culturali e ideologiche a quell’organizzazione, e ad altre più o meno affini che fanno parte della Resistenza palestinese, ma riteniamo che non siano Hamas e la Jihad palestinese a spingere e a indirizzare il popolo palestinese, bensì il popolo palestinese ad adattare queste formazioni, che possono convogliare verso la Palestina aiuti e mezzi - sia civili che militari -, alle proprie forme di vita, ai propri bisogni e alle proprie pratiche di scontro con il nemico coloniale. Indubbiamente, queste organizzazioni introducono fra i palestinesi simboli e linguaggi che svisano, o addirittura mistificano, la natura sociale delle azioni di lotta, sia di quelle collettive che di quelle guerrigliere, rinchiudendole nel cerchio nazione-religione; ma le tradizioni rivoluzionarie sedimentatesi nella memoria popolare, o la lunga storia di rivolte di massa e di educazione politica che il popolo palestinese ha attraversato nei decenni dell’O.L.P., colorano di sé questi recenti proselitismi islamici.

Ma non dobbiamo rimuovere il lato più controverso dell’attuale egemonia di Hamas, ne trascurarne le cause. Bisogna comprenderne invece la molla fondamentale, facilmente rintracciabile nel fallimento delle rivoluzioni arabe socialiste e laiche. Soltanto in Palestina una rivoluzione sociale araba, o panaraba, è rimasta in piedi. Infatti, della catena di tensioni che accese fuochi insurrezionali e mantenne focolai di guerriglia nel corso di alcuni decenni del Novecento, dal Marocco al Libano e dalla Palestina all’Iran del 1979, rimase in fermento soltanto la situazione palestinese. Tutte le altre vennero soffocate, e spesso disperse, o dall’imperialismo occidentale o da autocrazie regionali, teocratiche o dinastiche. In questo vuoto, e nell’inarrestabile disgregazione di società tradizionaliste sottoposte alle pressioni di un’economia-mondo capitalistica sempre più aggressiva, l’Islam divenne l’emblema unificante di popolazioni sfruttate e umiliate. La Palestina ha successivamente condiviso questa sorte, ma ha impresso sull’Islam la propria immagine storica. Così, in Palestina, una religione disprezzata dal padrone imperialista, ha ridato al colonizzato la dignità della lotta.

Di fronte alla stragrande maggioranza degli israeliani, e non soltanto in faccia ai coloni degli insediamenti, i palestinesi scivolano fuori dall’ideale umano che i privilegiati ricavano sempre da se stessi, dai loro modi di vita, dalle loro ambizioni professionali, dal loro denaro, dai loro passatempi. Il mondo coloniale, suggeriva Fanon, respinge il colonizzato in una condizione di semi-esistenza; finché sta buono, non ci si accorge di lui; poi, quando si ribella, la sua malvagità appare illimitata, poiché è giudicata secondo i valori morali che fondano e confermano la “supremazia occidentale”. In Palestina questa situazione ha spezzato tutte le remore della “falsa coscienza” e i palestinesi, nell’“immaginario sociale” degli israeliani, appaiono come “sottouomini”, per quanto questa sottoumanità conosca differenti gradazioni nella loro società. I pacifisti israeliani non hanno mai “riconosciuto” la Resistenza palestinese, e soltanto coraggiose minoranze sfidano, in Israele, questa messa al bando paranoica. Pertanto, il “sottouomo” palestinese, soltanto attraverso il dolore e le perdite umane illimitate di una lotta instancabile, si è tolto di dosso la sua sottoumanità coloniale, irrompendo nella scena culturale e ideologica dell’imperialismo, sia in Israele che in tutto l’Occidente, come “contro-uomo”, come “terrorista”. Il “sottouomo” e il “contro-uomo” – due personaggi che, insieme ad altri dello stesso tipo, si aggirano nelle opere di Sartre - sono il retroscena inconfessabile dell’ideale umano che la borghesia capitalistica ha estratto dal proprio mondo e che l’imperialismo ha fatto dilagare tra i “dannati della terra”. Per i palestinesi questo duplice ruolo è stato la stoffa di un abito tagliato dal colonialista, indifferentemente israeliano, statunitense o europeo. E lo è stato con una radicalità e un accanimento che non ha riscontro in altri contesti coloniali. Per questo, dopo la crisi dell’O.L.P. e lo sbandamento del cosiddetto “processo di pace”, molti palestinesi hanno afferrato l’Islam come simbolo di identità. Naturalmente, si tratta di un’identità transitoria, assunta per negare la propria condizione di “sottouomo”, abbracciata per il suo potenziale antagonistico, che è la scintilla del “contro-uomo”. I filosofi, quelli importanti per il marxismo, l’hanno chiamata lotta per il “riconoscimento” e l’hanno definita durissima e implacabile. Le guerre di liberazione dal colonialismo l’hanno potenziata al massimo, proprio perché in tali guerre si sono sempre fusi due punti di attrito, quello della classe e quello del colore. Se prescindiamo da questa lotta non possiamo comprendere fino in fondo la Resistenza palestinese.

Da qui l’assegnazione di un compito per noi; anzi, da qui una consegna coinvolgente che ci tocca e ci sorpassa: rifiutarsi alla contraffazione razzista della violenza dei “dannati della terra”, sempre riemergente negli “apparati ideologici di Stato” in Occidente. Infatti, la lotta armata del “contro-uomo” delle periferie coloniali, e quindi, nella situazione di cui si analizzano gli aspetti, del fedayyin palestinese, viene inscritta, dai codici del padrone imperialista, nel “non-umano” o nel “disumano”; nello stesso modo in cui il “non-umano” e il “disumano”, nei rapporti di classe capitalistici, hanno sempre ricoperto con la propria ombra, i proletari insorti, gli illegalismi dei poveri, gli emarginati irriducibili e ogni devianza. Di fronte al terrore scatenato dagli “olocausti” aereo-navali pianificati dalle potenze imperialiste e reso cronico e capillare dalle estorsioni di suolo, di sottosuolo e di esseri umani attraverso il “grande gioco” finanziario del Fondo Monetario Internazionale, l’uso della parola “terrorismo”, abituale nello spettacolo mediatico, e volto a esecrare solennemente le azioni armate dei popoli schiacciati dalla rete planetaria dell’accumulazione capitalistica, suona beffardo. I Palestinesi subiscono ed hanno subito queste campagne di razzismo giornalistico, cartaceo e televisivo, lungo tutta la loro dolorosa e fiera vicenda, e inoltre con esse, prima è stato lanciato il segnale dello sterminio di Gaza, poi è stata preparata ideologicamente la normalizzazione di quello sterminio. Così le azioni armate palestinesi, sempre spudoratamente deturpate nella loro realtà effettiva da manipolazioni di ogni sorta, vengono fatte rientrare nelle immagini del “contro-uomo” consumabili nella metropoli imperialistica, dove la situazione coloniale, nei suoi abissi di paura, di miseria e di umiliazione, non è in alcun modo percepibile. Unirsi alla coscienza candeggiata dei fabbricanti di opinioni pubbliche, per i movimenti antimperialistici significa avvolgersi nell’equivoco più melmoso, poiché, in tal modo, viene implicitamente avallata la disumanizzazione eurocentrica del “ribelle” della periferia coloniale, e inoltre viene opportunisticamente accantonata ogni domanda sull’origine del contro-uomo, della sua rocciosa lotta per il “riconoscimento” e della sua perturbante negazione. Questa lotta, secondo Fanon, è la radice antropologica di tutte le rivoluzioni anticoloniali e il compito che ci è affidato è quello di restituirla alla parola, di sottrarla alle rimozioni, di problematizzarla con la coscienza della sua genesi, e di sobbarcarcene il dramma, rifiutando condanne astratte. Ricordiamoci allora due versi dell’internazionale di Franco Fortini: “questa lotta che uguale/l’uomo all’uomo farà”.

“Qui e altrove”, abbiamo scritto, ritornando su un titolo di film. Ciò non significa soltanto che nei circuiti degli investimenti capitalistici planetari le guerre chiudono e aprono mercati, dirottano capitali, risolvono endemiche sovrapproduzioni e trasformano i bisogni compressi di qua in bombe assassine di là. Tutto ciò è senz’altro vero; ma “qui e altrove” significa anche altre cose. Significa, per esempio, la povertà relativa di una sopravvivenza sempre calante, accompagnata dall’immaginario delle merci, per le classi popolari dell’Occidente; e la povertà assoluta senza difese, nella morsa estrattiva della “cooperazione” capitalistica, per le masse della periferia coloniale. Significa, inoltre, differenti alienazioni culturali; qua solitudine e isolamento, là codificazioni religiose dei legami collettivi. Significa, infine, differenti prese di coscienza, qua intermittenti e dispersi conflitti, che non diventano insubordinazione di classe al comando capitalistico, le cui istituzioni culturali rimangono egemoniche; là, in Palestina, una Resistenza anticoloniale le cui prospettive rivoluzionarie non si sono offuscate; ma che oggi è travolta da una controrivoluzione che assume la forma e le proporzioni del genocidio. Due spazi eterogenei, avvicinabili soltanto nel discorso e nell’azione, nella teoria e nella prassi. Ma la nostra prassi – che è sempre anche teoria – non può che essere radicalmente diversa da quella di chi difende la propria gente dai droni, dai missili e dai rastrellamenti con i quali la si vuole costringere alla fuga. Per questo, se là, in Palestina, la Resistenza deve nascondere la Rivoluzione, qua, in Europa, dobbiamo insistentemente ricordarla. La dimensione della Resistenza palestinese cui noi possiamo – e dobbiamo! - dare un’espressione politica – e se la parola non è eccessiva, anche etica – è la Rivoluzione palestinese.

La nostra riflessione, o il nostro discorso, termina qui, ma si accomiata lasciando in sospeso molti temi e ritraendosi da importanti problemi. Scegliamo di fermarci perché lo scopo di questo discorso è stato conseguito, almeno formalmente; e tale scopo era soltanto, o voleva essere soltanto, un’introduzione. Un’introduzione a una discussione su un “coinquilino segreto” della Resistenza palestinese, oppure, detto fuor di metafora, l’avvio di una discussione su un intrico di rapporti, di storie, di poteri e di interessi che la guerra d’annientamento dei palestinesi condotta dall’imperialismo occidentale impone di considerare. I palestinesi, infatti, non sono soltanto un tormentato popolo della diaspora minacciato di estinzione, ma sono anche gli artefici di un progetto politico antimperialista, e per di più, di un progetto politico antimperialista in un’area cruciale della geografia politica del pianeta, cruciale per i traffici commerciali, per il coacervo di gruppi religiosi, per le collisioni militari e, soprattutto, per l’accesso alle fonti energetiche e ai nuovi minerali del mercato informatico. E inevitabilmente è lì, proprio lì, in quella terra dove i popoli ritrovano le tracce e i sedimenti di storie millenarie, che l’Occidente ha insediato, e armato oltre ogni misura, la sua tracotante “guardia bianca”. Non è cosa da poco, una rivoluzione anticoloniale in Palestina. Noi abbiamo voluto parlarne.

Ne abbiamo parlato solo in parte, in minima parte. Quante cose sono rimaste fuori! Per esempio, non abbiamo sfiorato la complicata trama delle alleanze politiche e dei blocchi religiosi della regione, non necessariamente intrecciati e non di rado mutevoli, e non abbiamo fatto parola su come tali rivalità e ambizioni egemoniche possono influenzare le scelte e gli obiettivi della guerriglia palestinese, costringendola a valersi di appoggi militari che rientrano in piani di espansione regionale di Stati vicini e che costituiscono un pericolo futuro per una lotta antimperialista orientata verso prospettive socialiste e di universale emancipazione umana. E qui il pensiero corre subito all’Iran, uno Stato teocratico e ultrareazionario, coraggiosamente sfidato da un’opposizione interna di cui occorrerebbe studiare la composizione sociale e di classe, senza farsi accecare dai tentativi dell’imperialismo statunitense di servirsene per i propri disegni.

Un altro campo di questioni che abbiamo lasciato fuori dalle nostre analisi e dalle nostre ricostruzioni è quello, anch’esso ricco di risvolti e di implicazioni, della posizione sociale delle donne nella società palestinese; e, correlativamente a esso, quello della posizione e del ruolo delle donne in una guerra anticoloniale; poiché, in tali contesti, l’accelerazione rivoluzionaria delle resistenze, il loro passaggio nella fase della disgregazione del vecchio ordine, può ricevere – e spesso ha ricevuto; l’Algeria è un modello - una spinta decisiva dall’uscita delle donne dalle forme familiaristiche di oppressione in cui esse erano state imprigionate. Tuttavia, per parlare delle donne palestinesi, occorrerebbero conoscenze specifiche delle quali purtroppo non disponiamo, per cui rinunciamo a un giudizio che non può avvalersi di un’“inchiesta”; resi accorti da una lunga esperienza e dai nostri “testi classici”, per i quali se non si fa l’inchiesta è bene stare zitti.

Ed eccoci alla domanda di chiusura, allo sguardo a ritroso. Ci chiediamo: che cosa abbiamo voluto fare? Qual è il senso di questa riflessione sulla Palestina? E inoltre, dal momento che essa è incompleta, lacunosa - e vorrebbe essere soltanto un suggerimento da proseguire, un gesto che chiama altre forze -, perché argomenta una tesi decisa e perentoria, come quella di una Rivoluzione palestinese da riconoscere e da sostenere? La risposta ruba la parola al filosofo, questo manifesto per la Palestina è un “discorso sul metodo”. Se l’appoggio alla Resistenza palestinese deve diventare una pratica militante, se questa pratica militante potrà aiutare la Resistenza palestinese a proseguire la sua Rivoluzione e se nonostante l’orrore per l’olocausto di Gaza la parola dovrà insistere nella critica e nell’accusa, allora serve un metodo. Un metodo per comprendere la mappa della lotta di classe in Palestina e per comprendere quali forze sociali bisogna mettere in moto qui in Europa, per vincere, come per il Vietnam, il gigante nordamericano. Con Peter Weiss:

Noi sappiamo

Finché dominerà

con la gigantesca potenza

della sua ricchezza

niente cambierà

Noi abbiamo mostrato

il principio

La lotta continua.

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