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Venezuela: il 2 di febbraio inizia il sogno bolivariano

di Geraldina Colotti

hugo chavez homage in la habana cuba.jpg“Nel centenario della morte di Lenin, si può intendere, seguire e apprezzare lo sforzo per richiamare la storia, come maestra di lotta e di vita, che compie costantemente la rivoluzione bolivariana, e prima ancora la rivoluzione cubana.”

Se la storia non viene ridotta a museo, date e ricorrenze ricordano la lotta delle classi subalterne, che ne hanno costruito o subito i corsi e ricorsi. Se la storia non viene ridotta a parodia, celebrare momenti e figure che ne hanno interpretato il senso, anticipandone salti e rotture, aggiunge nuove pagine al libro del futuro. Innalza nuove bandiere.

Se la storia non viene consegnata ai tribunali o agli specialisti in complotti e dietrologie, come accade nella “civilissima” Europa, anche dalle sconfitte i giovani possono innalzare nuove bandiere.

È così che, nel centenario della morte di Lenin, si può intendere, seguire e apprezzare, lo sforzo per richiamare la storia, come maestra di lotta e di vita, che compie costantemente la rivoluzione bolivariana, e prima ancora la rivoluzione cubana, che si è inserita nel corso di quelle venute prima. È così che si può intendere, come ogni anno, l’omaggio a un febbraio punteggiato di rivolte, di orgoglio e di vittorie. Un omaggio non rituale, ma una guida per l’azione, un monito a non dimenticare il 2, il 4 e il 27 di febbraio.

Il calendario degli anni imporrebbe di leggerle al contrario, a partire da quel 27 febbraio del 1989 in cui dalla rivolta del Caracazo si levò il primo grido del popolo contro il neoliberismo, autoproclamatosi allora come unica via dopo la caduta del Muro di Berlino – che anticipava la fine dei 70 anni di grande paura provati dalla borghesia.

Una data che germinò nella ribellione civico-militare del 4 di febbraio 1992, e fece conoscere al mondo l’uomo che avrebbe cambiato le sorti del Venezuela, l’allora tenente colonnello Hugo Chávez Frías: il comandante che, una volta uscito dal carcere di Yare, seppe riunire tutte le forze sane del paese, e vincere le elezioni del 6 dicembre 1988. Un presidente non scelto da Washington, ma dall’entusiasmo popolare che, secondo tutte le inchieste, ancora oggi gli confermerebbe anche più di quel 56,20% dei voti, ottenuti allora contro il 40% del candidato dell’oligarchia, Henrique Salas.

Il 2 febbraio del 1999, Chávez assunse l’incarico. Ricevendo la banda presidenziale dalle mani del suo predecessore, Rafael Caldera, pronunciò un breve discorso, passato alla storia: “Giuro davanti a Dio, giuro davanti al Paese, giuro davanti al mio popolo, giuro su questa moribonda Costituzione che promuoverò le trasformazioni democratiche necessarie affinché la nuova Repubblica abbia una Carta Magna adeguata ai nuovi tempi. Lo giuro”.

Il giorno stesso, si dispose a compiere la principale promessa della sua campagna elettorale, emanando il Decreto n. 3, con il quale si convocava un referendum consultivo affinché gli elettori si pronunciassero sulla necessità di indire un’Assemblea Nazionale Costituente (Anc).

Una decisione da assumere in forme inedite, senza passare per una riforma della Costituzione, come prevedeva la Carta Magna del 1961 secondo i criteri della democrazia rappresentativa. Per questo, già nel corso del mese di gennaio, prima di entrare ufficialmente in carica come presidente, il comandante aveva formato la Commissione Presidenziale Costituente, con il compito di orientare il percorso verso la nuova Anc: per rifondare la repubblica e creare un nuovo orientamento giuridico.

Ma era legittimo convocare un processo costituente senza prima aver riformato la “moribonda costituzione” che non ne contemplava il meccanismo? La decisione popolare avrebbe avuto più poteri del precedente istituito? L’articolo 3 del referendum consultivo prevedeva due domande a cui bisognava rispondere con un “si” o un “no”.

La prima era: “Sei d’accordo a convocare un’Assemblea Nazionale Costituente con lo scopo di trasformare lo Stato e creare un nuovo sistema giuridico che consenta l’effettivo funzionamento di una democrazia sociale e partecipativa?”

E con la seconda si chiedeva: “Autorizzi il Presidente della Repubblica a stabilire, mediante un atto di governo, e sentito il parere dei settori politici, sociali ed economici, le basi del processo elettorale nel quale verranno eletti i membri dell’Assemblea Nazionale Costituente?”.

I chavisti di prima generazione ricordano quanto la discussione fosse accesa, anche in merito all’interpretazione da dare a due sentenze della Sala Politico-amministrativa della Corte Suprema di Giustizia a proposito del referendum consultivo e del suo potere, emesse il 19 gennaio del 1999.

Annunciando la cifra che avrebbe sempre caratterizzato la sua politica, il Comandante utilizzò quella parte della sentenza che celebrava l’importanza della sovranità popolare in relazione al potere costituente, e fece irrompere la forza collettiva nel conflitto politico-istituzionale, che non si esauriva in una contesa giuridica: sarebbe bastato – disse – che il popolo si manifestasse in favore della Costituente per convocarla. E l’Assemblea Nazionale Costituente avrebbe avuto facoltà plenipotenziarie superiori a quelle di tutti i poteri esistenti.

Venne approvata dall’88% dei cittadini nel referendum del 25 aprile 1999, con il compito di redigere una nuova Carta Magna, in un lasso di tempo di 180 giorni. Su quella base, Chávez convocò per il 25 luglio di quello stesso anno le elezioni che avrebbero scelto i deputati del nuovo parlamento. La costituzione venne ratificata con un nuovo referendum il 15 dicembre del 1999 e a luglio del 2000 si svolsero le elezioni presidenziali e parlamentari in base alla nuova Carta Magna.

Tre seggi, sui 131 parlamentari, vennero riservati ai delegati indigeni, che ottennero anche i voti per averne due in più. Ai popoli originari Chávez aveva già reso omaggio nel suo discorso di investitura da presidente, ricordando “il grido dei Caribe, il grido degli indios della nostra razza che hanno saputo difendere la propria dignità con coraggio e valore ‘Ana karina rote, aunikon itoto paparoto mantoro’”, completò.

Il riscatto degli oppressi sull’arroganza imperialista. La marcia degli ultimi sul palazzo dei potenti.

Nel suo memorabile discorso di assunzione, il comandante ricordò il cammino di Bolivar e annunciò così un altro grande asse della sua politica, basata sull’integrazione latinoamericana e sull’antimperialismo. Uno spirito ben presente in ognuno dei suoi discorsi e in ogni evento organizzato per riunire e moltiplicare le forze a livello internazionale.

“Noi – proclamò allora con voce ferma – siamo un popolo di liberatori e ora dobbiamo dimostrarlo ancora una volta davanti alla storia e davanti al mondo intero. Per questo dico che abbiamo l’occasione per portare a termine il compito, abbiamo la forza che incubiamo da secoli; abbiamo il coraggio accumulato in molti anni e che ora mi rende consapevole della forza che voi avete, che noi venezuelani abbiamo; invito tutti noi ad applicare con vigore questa nostra forza per salvare la Patria, per ricostruirla: affinché nasca veramente una solida e ampia democrazia, affinché risplendano luce e morale in Venezuela. Come disse Simón Bolívar in Angostura: ‘la Morale e la Luce sono le nostre prime necessità’. Morale e Luce sono i poli della Repubblica”.

Quindi, ricordando il giuramento bolivariano di Samán de Güere, che egli aveva ripetuto da giovane militare – “non darò riposo al mio braccio né riposo alla mia anima finché non vedremo spezzate le catene che opprimono il nostro popolo: le catene della fame, le catene della miseria”-, Chávez promise che, da presidente, avrebbe assunto quell’impegno come un soldato in più: non per se stesso, ma in quanto prodotto della storia, “spinto da un uragano, un bellissimo uragano, un uragano che costruirà un nuovo Venezuela, e quell’uragano non è altro che il popolo venezuelano. Allora io – disse – da oggi divento il vostro strumento, e sono qui per compiere il mandato che mi avete dato”.

Riascoltando oggi le sue parole, si capisce perché, dopo 25 anni di ostacoli e attacchi, cominciati subito dopo quel 2 di febbraio, la rivoluzione stia ancora in piedi, e abbia prodotto una direzione collettiva decisa a marciare sui suoi passi, guidata ora da Nicolas Maduro.

E si capisce da dove abbia tratto forza, Nicolas, per affidare le sorti della rivoluzione e la sua stessa vita nelle mani del potere originario, quando, nel 2017, fece appello a un’Assemblea Nazionale Costituente per riportare la pace nel paese.

Anche allora, come nel 1999, vi fu chi cercò di imbrigliare il popolo in qualche cavillo giuridico, peraltro non pertinente, ma, come allora, perse consistenza e svanì, per riprendere di nuovo a latrare dietro la voce del padrone: cercando sempre di piegare le istituzioni ai propri interessi personali.

Tirare il sasso e nascondere la mano, era peraltro la cifra della politica nella IV Repubblica, così come continua a esserlo nei paesi europei, dove gli Stati e i parlamenti sono comitati d’affari della borghesia internazionale.

E continua a essere questa la cifra dell’estrema destra venezuelana che, peraltro, presenta le stesse facce del golpismo di allora: tirare il sasso e nascondere la mano, attentare alle istituzioni e poi farvi ricorso per delegittimarle un momento dopo, e poi correre a nascondersi dietro il padrone nordamericano.

E, per questo, il popolo intese appieno il “por ahora”, quella frase pronunciata da Chávez, come una promessa, dopo il fallimento della ribellione del 4 febbraio: “compagni, mi dispiace, la rivoluzione è fallita per ora”.

Per questo, riconobbe e ripagò il sacrificio di quei giovani ufficiali che seppero sempre assumersi le loro responsabilità, mettendo gli interessi collettivi al di sopra di quelli individuali.

Cinque anni dopo il massacro del Caracazo, mentre il capitalismo sentenziava la “fine delle ideologie” e di un orizzonte di riscatto per le classi popolari, cominciava nelle caserme venezuelane un nuovo movimento rivoluzionario, patriottico, che Chávez stava organizzando “intorno ai sogni e all’utopia bolivariana”.

Una visione che, come ha ricordato suo fratello maggiore, Adan, allora già formato al marxismo, lo aveva influenzato fin da giovanissimo, stimolando la sua sensibilità contro le ingiustizie sociali, e portandolo ad ascoltare i racconti delle rivoluzionarie e dei rivoluzionari, e a studiare la storia.

“La storia mi assorbirà”, diceva Chávez parafrasando Fidel quando aveva affermato “La storia mi assolverà”. E ripeteva i concetti espressi nel suo primo discorso da presidente, consapevole di essere uno strumento della grande Storia. Come Fidel, sempre il comandante ricordava l’importanza di aver letto di nascosto, da cadetto, sia il Libretto rosso di Mao che il Che fare di Lenin – un libro che avrebbe voluto regalare a Obama.

All’Accademia militare, il giovane cadetto, rifletteva su quanto era successo e stava succedendo nel Continente latinoamericano: dal golpe in Cile contro Allende, ai processi di liberazione nazionale diretti da Juan Velasco Alvarado e Omar Torrijos, rispettivamente in Perù e a Panama.

Per questo, insieme ai suoi compagni di accademia, combatté con decisione il tentativo dei media di assimilarli ai “gorilla” sudamericani al soldo di Washington. E, per questo, da quel 4 febbraio, s’impegnò a costruire una Forza armata antimperialista: un esercito di tutto il popolo che, in unione civico-militare, si formasse non sulle direttive di Washington, ma su una nuova Dottrina Militare e sul concetto di Difesa Integrale della Nazione.

Sebbene fu nel 2004 che venne decretato il carattere antimperialista della rivoluzione bolivariana, come si evince dal suo discorso del 2 febbraio e da tutte le dichiarazioni che rilasciò prima di allora, il Comandante era già un convinto antimperialista fin dai tempi dell’Accademia.

E nel carcere di Yare, quando scrisse una prima bozza della Dichiarazione Programmatica dell’MBR200, annotò: “Vediamo un mondo contraddittorio, tripartito a livello economico e unipolare a livello militare. Per quanto tempo può persistere una simile contraddizione? Non è necessario rispondere, ma l’impossibilità di saperlo consiglia di diversificare i contatti fra potenze per affrontare qualsiasi ipotesi. C’è un compito che ci sembra urgente. È la ricerca di alleati nei settori popolari dei paesi sviluppati del mondo. In tutti loro esiste già, o esiste in potenza, una sinistra che simpatizzerà e aiuterà i movimenti ribelli dell’America Latina…”

Sul 4 febbraio, “c’è ancora tanto da ricordare e ancora tanto da scrivere”, ha detto il capitano Diosdado Cabello (che partecipò con Chávez alla ribellione civico-militare), presentando all’ultima Fiera del libro il volume di interviste realizzate con il giornalista José Vicente Rangel.

Non solo aneddoti, ma insegnamenti da trarre e libri da scrivere perché possano formare altre generazioni di rivoluzionarie e rivoluzionari, attrezzati a combattere per il socialismo. E a vincere.

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