'Next Generation e stop & go dell’Europa'
guest post di Gabriele Pastrello
1. Premessa. Maastricht e il Trilemma di Rodrik
Il trilemma di Rodrik[1] suona: non puoi avere democrazia, globalizzazione e sovranità nazionale tutti assieme. Affermazione che riecheggia il trilemma di Triffin, che non puoi avere contemporaneamente tre opzioni: cambi fissi, movimenti incontrollati di capitali e politiche espansive, ma solo due.[2] Il che rinvia direttamente all’impostazione data dai Trattati di Maastricht al rapporto tra stati nazionali, mercati globali e politiche economiche europee.
Il trilemma di Triffin[3] fu enunciato in riferimento agli accordi di Bretton Woods come anticipazione di un loro finale fallimento, come fu. Ma gli accordi di Maastricht seguono un’impostazione opposta a quelli di Bretton Woods. E se i primi sono storicamente collegati al nome di Keynes i secondi lo sono - anche se in modo meno pubblicamente esplicito - al nome dell’arci-antagonista di Keynes, Friedrich von Hayek. E, di fatto, a questi Trattati si applica maggiormente, come si è visto dopo la crisi del 2008-09 (e anche adesso) il Trilemma di Rodrik.
Quindi, se il Trilemma di Triffin rinvia a Bretton Woods e a Keynes. Il Trilemma di Rodrik rinvia piuttosto ad Hayek e alle sue idee sul federalismo.
2. Hayek & la Teoria Generale. Una recensione in maschera.
Sappiamo che alla base dei Trattati di Maastricht ci fossero idee elaborate da Hayek. L’economista Issing, - che fu tra gli estensori - ne era un seguace e lo dichiara in una conferenza all’Institute of Economic Affairs di Londra.[4]
Inoltre, grazie a Bagnai, Barra Caracciolo e Cesaratto,[5] conosciamo in dettaglio le idee di Hayek sul fine che, secondo lui, deve essere perseguito da uno Stato federale. Idee esposte a partire da un saggio del 1939 (e ribadite nel cap. XV della Road to Serfdom)[6]: impedire agli Stati nazionali di fare politiche economiche espansive.
E ci sono pochi dubbi che questa sia l’impostazione dei Trattati. Riconfermata nel documento dei 5 Saggi del governo tedesco nel luglio 2015, che attacca la politica della BCE di Draghi in quanto violerebbe l’impostazione dei Trattati che il paese fiscalmente indisciplinato deve essere lasciato alla mercé dei mercati finanziari internazionali.
Ma per trovare un’argomentazione teorica a sostegno delle tesi del saggio del 1939 dobbiamo fare un passo indietro, al 1937. Il 1937 è un anno particolare. La Teoria Generale è stata pubblicata nel 1936. Ci si sarebbe potuto aspettare una recensione di Hayek. Ma lui sostenne che, siccome Keynes cambiava sempre opinione, era inutile recensire un suo lavoro, col rischio di trovarsi spiazzato.[7] Ma nel 1937 Hayek pubblica il testo di cinque conferenze, sul funzionamento dei sistemi monetari internazionali, tenute al Graduate Institute of International Studies con il titolo: Monetary Nationalism, ‘monetarismo nazionalista’.[8] Dato il tema e i suoi sviluppi nel testo,[9] il titolo colpisce un po’. Titolo che, evidentemente, come dice lui stesso nella Prefazione, individua l’avversario teorico, e politico, del testo.
Che il testo sia riferito a Keynes lo dice Hayek stesso, quando afferma che il principale esponente teorico di questa corrente di politiche ‘monetarie’ è proprio Keynes, anche se ammette subito che non considera affatto Keynes un ‘nazionalista.’ Evidentemente sono le politiche ‘nazionali’ l’obbiettivo.
Certo, Keynes poteva essere ritenuto fautore di quelle politiche abborrite da Hayek anche prima della TG, ma che Hayek si volesse riferire alla TG lo fa capire da un obiter dictum riferito alla ‘preferenza per la liquidità’,[10] termine che compare negli scritti di Keynes solo a partire dalla TG.[11]
Ovviamente Hayek fraintende il senso della teoria elaborata da Keynes nella TG, collocandolo nel gruppo dei ‘teorici’ dediti a manipolazioni monetarie per affrontare depressioni[12] ma, ciononostante, ha intuito la conseguenza in termini di politiche economiche nazionali. Cioè, ha capito che la teoria di Keynes dà un forte sostegno teorico a politiche nazionali espansive. Ricordiamo che la prima reazione di molti governi alla crisi del ’29 fu di politiche economiche di sound finance.[13] E che le teorie di Keynes del Trattato sulla Moneta, del 1930, avevano ricevuto un’accoglienza tiepida. Si poteva cioè pensare che la Teoria Generale, del 1936, avrebbe potuto essere davvero teoricamente pathbreaking per quelle politiche.
Ma la cosa davvero curiosa è che il ‘completamento’ della Teoria Generale, nel senso di fornire un quadro internazionali a quelle politiche nazionali, Keynes lo effettua solo a Bretton Woods; ovviamente basandosi sull’ampia elaborazione del Trattato.[14] Perché solo a Bretton Woods Keynes getta le basi, per quanto non del tutto soddisfacenti per lui, di un sistema monetario internazionale che permetta le politiche espansive dei singoli Stati, di cui la Teoria Generale è la fondazione teorica, e che Hayek fraintende con la definizione di Monetary Nationalism.
A Hayek va riconosciuta un intuito politico notevole. Mentre, da un lato, non capisce veramente la struttura concettuale della rivoluzione keynesiana, dall’altro, ne coglie lucidamente la potenziale direzione politica. Direzione che lo preoccupa enormemente. Perché se, dopo il crollo del Gold standard, nel 1931, che l’aveva traumatizzato, adesso si affermasse una teoria che desse una base teorica a politiche nazionali espansive, fuori del controllo esercitato da un sistema di pagamenti internazionali basato su uno standard fisico, l’oro, allora bisognava correre ai ripari riscrivendo la teoria dei sistemi monetari internazionali in modo da costruire una barriera che impedisca lo sviluppo di queste politiche.
Perché c’è un’invarianza incredibile nella contrapposizione nelle due ricerche parallele dei due autori.
Fin dal Tract del 1923, dedicato a criticare il ritorno della sterlina alla parità pre-bellica, Keynes mette in luce la contraddizione, come lui dice, tra equilibrio interno ed esterno. Cioè, per mantenere la posizione inglese sui mercati finanziari mondiali si devono alzare i saggi d’interesse e il tasso di cambio a livelli tali da ridurre gli investimenti interni e le esportazioni, provocando disoccupazione. Di questo conflitto gli economisti pre-bellici non si erano neppure accorti, perché il gold (exchange) standard funzionava in modo da imporre l’aggiustamento interno rispetto all’equilibrio esterno. Cosa a cui Hayek vuole tornare, e da cui Keynes vuole uscire.
Dal 1923 in poi, e in modo molto articolato nel Trattato, Keynes cerca tutti i modi in cui (agendo su interessi e cambi soprattutto, ma non necessariamente flessibili, grazie alla Banca centrale) cui si possa riuscire a impedire che le variazioni negli equilibri internazionali, potenzialmente negative per l’equilibrio l’interno, si possano trasmettere all’interno. Solo durante la guerra Keynes si imbatterà nello strumento di un sistema di clearing - insieme al controllo dei movimenti di capitali - come mezzi per impedire crisi di bilance di pagamenti. Gli accordi di Breton Woods saranno il compimento di quella ricerca.
E infatti Hayek elabora nel suo testo, un sistema monetario internazionale il cui esito sia quello di re-imporre controlli esterni ai sistemi economici nazionali. Agendo per così dire con largo anticipo rispetto a quelle che, forse implicitamente, ma giustamente, pensava sarebbe stato l’esito finale della Teoria Generale, che infatti Keynes conclude solo a Bretton Woods.
Non lo capiva davvero, ma lo intuiva. Non può stupire che questa intuizione sottenda l’impostazione dei Trattati di Maastricht.
3. L’uso ordo-liberista di Keynes.
No, non c’è stato nessun momento Hamiltoniano. Gli eurobond saranno emessi per investimenti futuri e i debiti sovrani pregressi resteranno in testa agli Stati emittenti.[15] E non c’è stata neppure nessuna svolta Rooseveltiana. Non c’è stata, infatti, nessuna vera autocritica rispetto alle politiche di austerità post-recessione 2008-09. Per non parlare di autocritiche agli assetti ordo-liberisti.[16] Tutt’altro.
Ma una svolta c’è stata. Che sarebbe sembrata negli anni passati affatto impossibile.[17] Si potrebbe dire in estrema sintesi che, con il Next Generation, stavolta si è visto in Europa un uso ordoliberista di Keynes.
L’uso neo-liberista di Keynes si era già visto altre volte. Aveva incominciato, già dagli inizi della contro-rivoluzione anti-keynesiana, lo stesso Reagan quando, al culmine della depressione 1980-82, aveva fatto ripartire quello che sarà noto come il ‘ciclo reaganiano’.[18] Poi, dopo che Clinton aveva inaugurato il primo vero ciclo economico di crescita USA non-keynesiano, portando il bilancio dello Stato in pareggio verso la fine dei ’90,[19] l’unico strumento legittimo di contrasto anti-ciclico era stata la politica di ‘prestatore di ultima istanza’[20] della Banca centrale; intervento che dal 2000 fu nominato il ‘Greenspan put’, messo in opera per contrastare la crisi dovuta allo scoppio della bolla dot.com.[21] Ma, quando la crisi, partita nel 2007,[22] si sviluppò negli anni 2008-09, si capì che stesse assumendo dimensioni paragonabili solo a quelle della Grande Depressione. Di conseguenza, la ‘modica quantità’[23] di politiche keynesiane di stimolo fiscale fu tirata nuovamente fuori dal cassetto dalla dirigenza statunitense. Ovviamente insieme a una decisa politica della FED di espansione della liquidità, in congiunzione con accordi di swap con altre banche centrali, per impedire il collasso dei mercati finanziari mondiali.
Ma gli ordo-liberisti si erano mostrati molto più tetragoni.
Basta vedere la differenza tra le politiche monetarie della FED e della BCE ‘prima’ della ‘svolta’ Draghi del 2015. Come si vede bene dal grafico, la BCE ha fatto un intervento molto limitato durante l’emergenza. Il board della BCE accettò l’OMT di Draghi a fine 2012, ma solo come intervento legato a condizionalità punitive. Niente di paragonabile al ‘Greespan put’ della FED di Bernanke nella crisi. Il whatever di Draghi era formalmente una sconfessione di principio dell’impostazione che i Trattati avevano dato al ruolo della BCE, in quanto ne affermava il ruolo di lender of last resort. Ma di fatto poteva convivere con la politica di non intervento della BCE.
Infatti, il whatever it takes serviva solo, e ‘bastava’ come disse Draghi (‘I promise you, it will be enough’), a inibire le vendite, con la mera minaccia del riacquisto, e quindi poté avere successo senza bisogno di espandere la base monetaria.
Mentre quando dopo lo stimolo fiscale del 2009 diventa evidente che lo stimolo abbia impedito un crollo dell’economia USA, senza però lanciare una ripresa a V, e la disoccupazione resti alta, allora Bernanke, e la Yellen seguirà, inizia la politica monetaria espansiva nota come quantitive easing (con varianti).
Invece, in Europa, gli anni 2011 e 2012 segnano il trionfo politico della linea di austerità fiscale come politica di fuoriuscita dalla crisi. Quasi una rivincita di Hayek rispetto a quel - diventato famoso - seminario a Cambridge nel 1931, quando Kahn l’aveva preso in giro chiedendogli se scendere in strada a comprare un impermeabile avrebbe peggiorato la situazione, e lui rispose di sì.
Il punto di partenza era che la politica monetaria è distorsiva e che deficit e debito sono fenomeni esclusivamente reali che vanno risolti fiscalmente, escludendo strumenti monetari, che non possono che essere distorsivi. Da cui il fiscal compact e la rinnovata, e più cogente, prescrizione della riduzione del rapporto debito/PIL. Coerentemente con la diagnosi che gli squilibri tra tassi d’interesse (gli spread) fossero solo l’effetto di differenziali fiscali che andavano chiusi. E fu così che l’Europa hayekiana fu sull’orlo della catastrofe finanziaria nel 2012.
Bloccata solo dal whatever di Draghi. Non doma, perseverò nella politica del Fiscal Compact, provocando la seconda recessione italiana e una bassa ripresa del PIL europeo. A questo punto Draghi portò fino in fondo la violazione del postulato della neutralità’ della politica monetaria, con il quantitative easing, inaugurando una politica espansiva che puntasse al sostegno dei corsi degli asset e, riducendo i tassi di interesse, creasse le condizioni per maggiori investimenti, una crescita dell’attività economica, e quindi facesse anche aumentare il tasso d’inflazione che la perdurante scarsa ripresa teneva bassi.[24]
Già l’OMT aveva suscitato in Germania non solo malumore ma anche azioni giuridiche di contrato, con ricorsi alla Corte costituzionale tedesca, ma il quantitive easing suscitò ricorsi che, come abbiamo visto, hanno evocato la durissima sentenza del 5 maggio 2020, mentre, per quanto riguarda l’OMT, la Corte si era dichiarata d’accordo con la sentenza favorevole alla BCE della CJUE. Ma la differenza è lampante rispetto all’OMT.
Ed è difficile pensare che la data scelta per la sentenza (in piena epidemia COVID-19) non avesse nulla a che fare né con la riconferma del programma espansivo della BCE, nonostante l’opinione contraria alla linea Draghi espressa dalla rappresentante tedesca nel Board della BCE, Schnabel, né con le proposte di cui si discuteva animatamente, possibilmente ancor più indigeste alla Corte, oltre che ai paesi ‘frugali’, come si vedrà, di massicci finanziamenti ai paesi maggiormente in difficoltà per l’epidemia.[25]
Solo due settimane più tardi, infatti, la coppia Macron-Merkel annuncerà la seconda rottura dei tabù fondativi dell’Unione: uno stimolo fiscale che, rispetto alle economie cui viene concesso, è di dimensioni tutt’altro che modeste; stimolo che aggiungendosi quelli rilevanti decisi internamente, di Francia e Germania, costituisce un mutamento radicale rispetto alla risposta alla crisi del 2008-09, centrata in modo classicamente ortodosso, sulla domanda estera e austerità interna. Una novità, inoltre, che non è stata colta appieno nei commenti al Next Generation Fund è che si tratta di un intervento in deficit spending.
Stavolta Keynes è stato riesumato perfino nell’ordo-liberale Unione europea. Nei due lati esorcizzati in precedenza: politica monetaria espansiva e stimolo fiscale.
4. Regola ordo-liberale e stato d’eccezione keynesiano. Uno stop & go?
È impensabile che una simile svolta sia accettata dai gruppi dirigenti europei come svolta permanente di regime politico economico. Le ripetute dichiarazioni di Dombrowskis sul rientro nelle regole del patto di Stabilità e della Merkel sulla necessità di continuare ad osservare i principi di sound governance confermano del contrario.
Ma dall’altro lato vanno registrate le dichiarazioni di Draghi al Meeting di CL a Rimini: “È probabile che le nostre regole europee non vengano riattivate per molto tempo e certamente non lo saranno nella loro forma attuale”. Concetto ribadito oltre: “…non si potrà più, come sostenuto da molti, dire che i mutamenti avvenuti a causa della pandemia sono temporanei”. Non dimenticando quello che ha detto in apertura: “Ma non dimentichiamo i nostri principi. Dalla politica economica ci si aspetta che non aggiunga incertezza.” Quest’ultima frase forse pretenderebbe di essere le Colonne d’Ercole dei cambiamenti e delle misure dell’emergenza, ma è sicuramente il segno di un conflitto.
Infatti, queste affermazioni sono state immediatamente contrate dalle recentissime dichiarazioni del Presidente della Bundesbank, Weidmann, che riprendono a loro volta quelle di Dombrowskis,[26] e poi ribadite con riferimento diretto all’Italia dal Presidente del consiglio austriaco, Sebastian Kurz (“questa”, del NG, “è l’unica occasione per l’Italia”).
Dalla durezza dello scontro prima sugli eurobond, poi sul Recovery Fund e poi sul Next Generation Fund ci si poteva aspettare che una linea di resistenza dei ‘frugali’ sarebbe stato il ripristino più rapido possibile delle regole del Patto di Stabilità, seguendo il modello d’azione del 2010-11. Ma il rischio che si sarebbe corso sarebbe stato quello di vanificare non solo gli obbiettivi economici dello stimolo, ma perfino di quelli politici come enunciati nell’articolo Dell’Handelsblatt su ‘bastone & carota’, cioè della necessità di venire incontro alle necessità italiane di un sollievo economico per poter far passare le tanto premute ‘riforme’. Se il ripristino del Patto avesse vanificato il ‘sollievo’, anche l’attuabilità delle riforme sarebbe stata in discussione, mettendo in gioco una specie di stop & go politico.
Ma resta il vincolo di fondo della costruzione europea, i ‘principi’. Che quindi ‘obbligano’ a una ‘temporaneità’ delle violazioni dei tabù hayekiani della costruzione europea. Certo, l’altolà di Draghi (il ‘molto tempo’, il ‘si sbagliano’) sembrerebbe indicare che ci sono forze che non intendono più correre i rischi corsi per l’ostinazione ideologico-politica iperliberista dei ‘frugali’, e forse neppure correre più i rischi corsi nel biennio 2011-12 per le avventurose strategie sottotraccia di settori di dirigenza tedesca di andare verso un’Europa a settori concentrici.
Ma tutto ciò non promette una navigazione più tranquilla; piuttosto mette lo stop & go, quantomeno politico e, forsanche, economico, come piatto fisso nel menù, europeo e italiano.
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