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I molteplici significati del Recovery Fund

di Fulvio Bellini

bellini foto recovery fundPremessa: le parole sono importanti

Il termine “Recovery Fund” in Italia è sulla bocca di tutti. Politici, giornalisti, imprenditori di questo paese si stanno rendendo conto che si è ormai raggiunto il fondo di una crisi strutturale che è iniziata negli anni novanta dello scorso secolo. Tuttavia, quando le soluzioni a mali lasciati crescere per decenni non si intravedono, è uso della classe dirigente invocare lo “stellone italico”, versione laica della “divina Provvidenza” che tanto ruolo ha avuto nella nostra millenaria cultura cattolica, una “volontà superiore” cioè che ridia speranza per il futuro. Nell’era della Pandemia da Covid-19 lo “stellone italico” si chiama “Recovery Fund”. Ma siccome la nostra classe dirigente è notoriamente provinciale, anche se usa con dovizia locuzioni inglesi, riesce a mistificare definizioni espresse nelle lingue straniere. In Italia, il fondo UE lo si chiama “Recovery Fund” ma la sua denominazione ufficiale è “Next Generation EU”: questa spontanea trasformazione lessicale da parte della nostra informazione di regime cela un retro pensiero che è opportuno evidenziare. In italiano “Recovery Fund” significa “fondo di ripresa o di recupero”; “Next generation EU” significa “prossima generazione dell’Unione europea”. Vogliono dire la stessa cosa? Ufficialmente sì, ma a ben pensarci ci si può scorgere un dettaglio rivelatore. La classe dirigente italiana intende il Recovery fund come qualcun altro che metta tanti soldi per riparare i danni che il liberismo in salsa italica ha causato negli ultimi trent’anni.

Se consideriamo che questi soldi verranno gestiti dagli stessi signori che hanno causato i guasti che andrebbero riparati, ci dobbiamo chiedere: per quale ragione dovremmo attenderci che il Recovery Fund sortisca l’effetto desiderato? Per la classe dirigente europea, il “Next generation EU” rappresenta una scelta politica ed un salto di qualità sulla via della maggiore integrazione tra i paesi membri; uno strumento che guardi al futuro. Che poi questo sguardo sia rivolto nella giusta direzione è tutta un’altra faccenda. In questo articolo useremo il termine “Recovery Fund” quando si parlerà del valore politico del termine per l’establishment italiano, mentre si parlerà di “Next generation EU” quando cercheremo di capire cosa hanno in testa a Bruxelles. Tra i due concetti ne esiste poi un terzo: il “Recovery Plan”, cioè il piano che ogni paese deve presentare alla Commissione europea per spiegare cosa si voglia fare con i soldi prestati, ed anche questo aspetto merita un approfondimento. Come diceva Nanni Moretti in Palombella Rossa: “… come parla! …. Le parole sono importanti”.

 

Lo scenario di riferimento: trent’anni di desertificazione del tessuto produttivo

Prima di vedere i diversi significati che il “Recovery Fund” ha per le varie componenti della nostra classe dirigente, è opportuno dare uno sguardo al cosiddetto “scenario di riferimento”. È innegabile che per gli (im)prenditori italiani, ed in generale per coloro che detengono il capitale nel Bel Paese, gli ultimi trent’anni sono stati un vero bengodi. Agli inizi degli anni novanta, questi signori hanno potuto beneficiare dello smembramento delle aziende IRI e delle banche ex IMI grazie al ruolo di liquidatori per conto terzi (leggi capitale finanziario internazionale) ricoperto da Mario Draghi e Romano Prodi. A trent’anni di distanza, semplicemente perché non lo si è voluto vedere prima, possiamo valutare quale sia stato l’impatto delle privatizzazioni selvagge di quegli anni. Poche righe per passare in rassegna l’impeto da veri Unni (con tutto il rispetto per Attila) con il quale i “caporali” d’industria nostrani hanno saccheggiato e raso al suolo il miracolo italiano IRI. Un solo esempio per il settore bancario: la privatizzazione di Credito Italiano e Banca Commerciale Italiana, che oggi insieme a Banca di Roma (ex pubblica) e Banco di Sicilia (ex pubblico), formano Unicredit, hanno generato un gruppo le cui dimensioni sono inferiori a quella del solo Credito Italiano degli anni ottanta. SIP, poi Telecom Italia, finita negli artigli dei capitani coraggiosi guidati da Roberto Colaninno, e successivamente da Tronchetti Provera (che si appropriò dell’ingente patrimonio immobiliare tramite Pirelli Real Estate) oggi è finita nelle mani dei francesi di Vivendi. Sempre il Signor Colaninno si è occupato della privatizzazione di Alitalia, ed oggi è un vettore low cost in perenne stato di fallimento, al quale sono stati portati via tutti i prestigiosi slot presso gli aeroporti internazionali conquistati ai tempi dell’IRI. l’ILVA ha preso la via della famiglia Riva, ed oggi è gestita da ArcelorMittal che sta cercando in ogni modo di spegnerne gli alti forni, con buona pace per le speranze di rilancio di un impianto gigante, quello di Taranto, decotto e sfruttato fino all’ultimo bullone. La mitica Alfa Romeo, con il suo carico di storia e tecnologia, è ridotta ad un mero marchio commerciale gestito male da un gruppo, il quale è molto interessato all’ingegneria societaria e finanziaria ed assai poco a quella automobilistica. Ed infine, l’apoteosi delle privatizzazioni all’italiana (in questo caso con sinistri risvolti penali), la triste vicenda della rete autostradale nelle mani dei Benetton, sulla quale è del tutto superfluo fare commenti tranne una breve nota: nell’agosto del 2018 l’allora governo giallo-verde di Giuseppi Conte aveva assicurato la repentina cacciata dei Benetton dalla gestione Autostrade, essendo state immediatamente palesi le loro responsabilità in quella sciagura. Il Sole 24Ore del 21 gennaio 2021 ci informa che: “Roberto Tomasi, amministratore delegato di Autostrade per l'Italia (Aspi) - gruppo Atlantia - presenta il nuovo Piano industriale. ‘Tre gli elementi del piano: ‘Piano di delivery che prevede un +60% delle attività di manutenzione in media nell'arco di piano e +110% di impegni di investimento...” Per fortuna che questi signori dovevano essere cacciati già nel 2018. Non appagati dal sacco delle aziende ex pubbliche, gli (im)prenditori nostrani ottennero anche un repentino smantellamento della legislazione e della contrattualistica a favore dei lavoratori, tipica dei decenni precedenti. E questo smantellamento di diritti e di valore dei contratti non la possiamo imputare a biechi governi di destra, i cui leader dormono con il santino di Augusto Pinochet sul comodino, bensì all’illuminata intellighenzia radical-chic della cosiddetta sinistra. Il 24 giugno 1997 veniva approvata la legge 196 altrimenti nota come “Pacchetto Treu” con la quale il governo Prodi intendeva aggiornare il quadro legislativo del lavoro italiano alla flessibilità della nuova era del mercato globale (sic). Più in generale, si è dovuto ai governi Dini, Prodi e D’Alema una serie di modifiche normative allo scopo di introdurre cambiamenti che puntassero sulla precarietà, la riduzione di salari e diritti nonché l’incastro del lavoro interinale, abrogando il principio di divieto di interposizione di manodopera vigente dal 1960. Negli anni duemila si era tentato di abrogare anche l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori senza successo, tuttavia nel 2003 veniva approvata la legge Biagi, che consolidava i principi introdotti dalla riforma Treu e confermava tutti gli istituti di flessibilità e precarietà del mercato del lavoro italiano. Nota caratteristica di questa nuova legislazione fu quella di spalancare le porte alle esternalizzazioni ed ai subappalti (spesso affidate a cooperative create ad hoc anche dalla malavita), causando drammatiche conseguenze nel mercato del lavoro in termini di ulteriore riduzione dei salari e condizioni. La ricerca della flessibilità ad ogni costo si traduceva in una giungla di oltre 40 tipologie contrattuali ma nessuna a tempo indeterminato. Venendo ai nostri giorni, come scordare la “Legge Fornero”, che rivede gli istituti contrattuali fino alla riforma degli ammortizzatori sociali (Assicurazione Sociale Per l’Impiego-ASPI) ed allunga, per l’ennesima volta, l’età di accesso alla pensione. Per ultimo, citiamo il Job Act voluto dal segretario del Partito Democratico Matteo Renzi alla fine del 2014. In sintesi, ottenute le aziende pubbliche da sfruttare, gli (im)prenditori italiani hanno ottenuto anche i lavoratori da spremere. Alla luce di un quadro d’insieme obiettivamente favorevole al capitalismo italiano, ci si doveva aspettare un rafforzamento delle imprese sul mercato domestico e sulle piazze internazionali; invece è successo esattamente il contrario! Negli ultimi trent’anni il tessuto produttivo si è fortemente ridotto, indebolito e marginalizzato, perdendo le opportunità date da nuovi mercati come quello cinese. La ragione è semplice: nella storia economica italiana, gli (im)prenditori non hanno mai fatto vera innovazione tecnologica, lasciando questi investimenti alle industrie di Stato, delle quali si ponevano come semplici fornitori. Lo stesso atteggiamento è stato tenuto negli anni duemila, rifiutandosi di fare ricerca e sviluppo in modo adeguato, semplicemente sostituendo le ricche commesse IRI con quelle più ridotte provenienti, ad esempio, dall’industria manifatturiera tedesca. Per il resto, la storia imprenditoriale italiana di questi decenni è stata costellata da fallimenti a ripetizione oppure da vendite a gruppi stranieri: ultima in ordine di tempo la cessione di Fiat-Crysler ai francesi di PSA: titola il Manifesto del 5 gennaio 2021 “Ecco Stellantis, parla francese. Agli Agnelli subito il dividendo”. Mentre le imprese si riducevano sia in termini qualitativi che quantitativi, i nostri “capitani” d’industria, mai sazi di aiuti pubblici, intascavano anche la ragguardevole cifra di quasi 30 miliardi di euro attraverso agevolazioni, finanziamenti, interventi fiscali eccetera, come ha raccontato il libro di Marco Cobianchi “Mani bucate. A chi finiscono i soldi dei contribuenti: l’orgia degli aiuti pubblici alle imprese private”, edito da Chiarelettere nel 2011, quindi in tempi non sospetti. Ma nemmeno questa pioggia di soldi è stata sufficiente a risollevare le sorti della nostra industria, sempre più piccola ed obsoleta. Proviamo ora ad immaginare cosa significhi per questa classe dirigente la notizia del Recovery Fund: 209 miliardi da potere utilizzare, almeno nei loro sogni reconditi, come meglio credono: ovviamente dopo le dovute genuflessioni, salamelecchi e tanti saluti alla green economy ed alla digitalizzazione.

 

Il significato del Recovery Fund per gli (im)prenditori italiani: il piano Colao

Grazie alla commissione presieduta da Vittorio Colao, voluta dall’ineffabile premier Conte, possiamo avere un’idea abbastanza dettagliata di come la pensano in Confindustria sull’uso dei soldi europei. Questo ex amministratore delegato di Vodafone Italia, posto a capo di una “task-force” di esperti, ci ha plasticamente dimostrato come (im)prenditori ed i loro manager soffrano di gravi amnesie quando si parla della recente storia economica italiana. Assolutamente “ignari” dello scenario di riferimento, descritto nel precedente paragrafo, nel giugno 2020 Colao ed i suoi specialisti presentano un piano che sorprende per il suo liberismo spinto, tanto da far dubitare che l’orologio di questo “esperto” sia fermo agli anni novanta dello scorso secolo, che abbiamo visto è l’età d’oro del liberismo selvaggio, e non nel 2020 in piena epidemia da Covid-19. Questo signore ci propina ben 102 idee per rilanciare l’Italia. Vale la pena dare un’occhiata al piano Colao perché, fino agli inizi del giugno 2020, doveva essere l’ossatura del Recovery Plan, almeno nella strategia di alcuni. Iniziamo dalle tasse, tema che notoriamente ripugna l’alta borghesia nazionale (e non). Nel documento, troviamo proposte di sanatorie relative a: emersione del lavoro in nero, emersione e regolarizzazione derivante da redditi non dichiarati e regolarizzazione per il rientro dei capitali esteri. Queste idee non sono affatto nuove: dare la possibilità ai grandi evasori di recuperare all’uso le somme desiderate con poco sforzo e minima spesa era un’idea messa in pratica, con scarso successo a dire il vero, dall’ex ministro Giulio Tremonti. Veniamo ora agli investimenti in vari settori che dovrebbero essere volano del rilancio. Anche in questo caso Colao dimostra di soffrire di amnesie. Il modello delle concessioni ha causato il crollo del Ponte Morandi? Bene, allora occorre “negoziare un’estensione delle concessioni equilibrata e condizionata ad un piano di investimenti espliciti e vincolanti”. La sanità fortemente privatizzata è stata una delle principali cause del mancato contrasto al Coronavirus in Lombardia? La risposta di Colao è: “La crisi in atto ha messo in ulteriore evidenza l’inadeguatezza delle infrastrutture sociali, sia abitative che relative ai servizi socio-sanitari, oggi spesso qualitativamente carenti. È dunque necessario che le infrastrutture sociali rientrino nel più ampio piano di rilancio infrastrutturale, anche attraverso modalità di investimento pubblico-privato”. Paga il pubblico e gestisce il privato. E per quanto riguarda la protezione dell’ambiente? Ad esempio l’inquinamento causato dal traffico? “Trasporto privato. Incentivare il rinnovo dei mezzi pesanti privati con soluzioni meno inquinanti”. Forse Colao non conosce i trasporti intermodali. Veniamo ora alla pubblica amministrazione. Se per i cittadini accedere alla PA è sempre stato problematico, soprattutto per le persone anziane, oppure abitanti in zone del paese scarsamente digitalizzate (in Italia sono parecchie), per risolvere la crescente difficoltà di accesso ai servizi pubblici quale è la proposta? “Rivedere le modalità di lavoro, attraverso la diffusione dello smart working nella pubblica amministrazione, introducendo sistemi organizzativi, piattaforme tecnologiche e un codice etico che consentano di sfruttare le potenzialità in termini di riduzione dei costi e miglioramento di produttività e benessere collettivo, tenendo conto anche delle differenze di genere e di età”. Una visione della pubblica amministrazione priva di speranza: già che non si lavora in ufficio, tanto vale fare ancora meno a casa per ridurre il costo. Per quanto concerne il lavoro, Colao non vede la necessità di contrastare decisamente il precariato e la caduta tendenziale dei salari, ma si preoccupa delle donne: “Il sostegno e lo sviluppo della partecipazione delle donne al lavoro, promuovendo la trasparenza sui livelli di impiego e retributivi tipici di uomini e donne, adottando quote di genere che garantiscano la partecipazione a organi apicali e consultive integrando la valutazione di impatto di genere (c.d. VIG) nei processi decisionali”. Insomma l’annoso problema dell’impiego femminile e la parità di salario vengono risolte con le quote rosa, misure già sentite in passato e che non hanno mai dato risultati significativi. Vi sono poi delle parole, la cui presenza dovrebbe essere indicativa del tipo di piano di rilancio nazionale che si immagina, che nel documento della commissione Colao non ci sono oppure sono usate con il contagocce. La parola “salario” è usata solo una volta in modo del tutto incidentale: “Le amministrazioni pubbliche e molte imprese non valorizzano abbastanza le competenze, offrendo salari di ingresso ridotti….”.

Altri due termini, che segnano la vita intera di un operaio, non appaiono mai nel documento: le parole “fabbrica” e “pensione”. Infine, manca il vocabolo che avrebbe dovuto stare nel titolo del documento: “visione”. Da un punto di vista politico che cosa ha rappresentato il rapporto Colao? Una rimozione del recente passato di storia economica italiana. La classe (im)prenditoriale ha fermato le lancette della storia agli inizi degli anni novanta e non vuole sentirsi dire che nel frattempo sono passati trent’anni di liberismo sfrenato, di evasione ed elusione fiscale (oltre cento miliardi ogni anno), di esportazione di capitali all’estero, di delocalizzazioni di intere aziende dopo aver beneficiato dei sussidi pubblici eccetera. Il documento di Colao era quanto il Presidente di Confindustria Carlo Bonomi si voleva sentire confermare dal premier Conte durante i famigerati Stati Generali di metà giugno 2020, ma tra i desideri di Bonomi e la realtà del Paese ci sono, appunto, trent’anni di disastri fatti dalla borghesia nostrana.

Innanzitutto vediamo cosa sia ufficialmente il Next Generation EU secondo la definizione desumibile dal sito della Commissione Europea: “NextGenerationEU è uno strumento di ripresa temporaneo da 750 miliardi di euro che consentirà alla Commissione di ottenere fondi sul mercato dei capitali. Tale strumento contribuirà a riparare i danni economici e sociali immediati causati dalla pandemia di coronavirus, per creare un'Europa post COVID-19 più verde, digitale, resiliente e adeguata alle sfide presenti e future”. Della necessità che l’Europa intervenisse a fronteggiare la crisi economica causata dal Coronavirus si parlava fin dagli inizi di primavera, la Commissione europea ha presentato ufficialmente il progetto “NextGenerationEU” il 27 maggio 2020, giorno della sua approvazione. Da quel momento è iniziata la complessa procedura di conferma ed adozione da parte degli altri organi comunitari coinvolti e dei governi degli Stati membri. Ma cosa sta significando il “Recovery Fund” per il governo italiano? Nel 2020 è stato un alibi per finanziare scostamenti di bilancio (cioè autorizzare aumenti di deficit) per sostenere i comparti economici che il governo stesso affossa, ovviamente “obbligati” dall’emergenza pandemica. Titola “Milano Finanze” del 17 novembre 2020: “Gualtieri conferma nuovo scostamento di bilancio, fiducioso sul Recovery Fund”. Gli fa eco “Il Sole 24Ore” del 22 dicembre 2020: “Verso il prossimo scostamento di bilancio: sarà anche l’ultimo?” ed aggiunge “Il governo ha già annunciato un’ulteriore deviazione dall’obiettivo di deficit per altri 20 miliardi, che si aggiungono agli altri 100 miliardi messi in campo da aprile ad agosto. In attesa delle misure “espansive” contenute nella Legge di Bilancio e del Recovery Fund il debito raggiunge livelli da primato”. Il Recovery Fund non c’è, ma in suo nome si aumentano i debiti di 177 miliardi di euro in 11 mesi: dai 2.409 miliardi di fine 2019 ai 2.586 miliardi di fine novembre 2020 (dati Banca d’Italia). Teniamo presente che il PIL atteso per la fine del 2020, a chiusura dei conteggi del quarto trimestre, si aggirerà intorno ai 1.647 miliardi (calo del 8,5% rispetto al 2019) secondo Wall Street Italia. In altre parole, il Recovery Fund è ancora nelle nuvole di Bruxelles, non è nemmeno chiaro come verrà erogato e con quali obblighi di restituzione, ma in suo nome si sono già fatti 177 miliardi di debiti. Essendo la quota italiana prevista di 209 miliardi di euro, da un certo punto di vista nel 2020 si è già speso l’84% del fondo sotto forma di anticipi impropri.

 

Il significato del Recovery Fund per la politica: gli Stati Generali di Villa Pamphilj

“Panorama” del 22 giugno titolava: “Il flop degli Stati Generali di Conte: ecco cosa sono stati”, ed ancora “dovevano essere un’occasione per pianificare il rilancio dell’Italia dopo la pandemia, si sono trasformati in una passerella priva di contenuti”. Questa è stata certamente l’opinione del Presidente di Confindustria a conclusione della sua giornata a Villa Pamphilj: “Stati generali, strappo Confindustria-Governo con botta e risposta sulle accise” titola il “Sole 24Ore” del 18 giugno 2020. E che fine aveva fatto il piano Colao? Conte lo aveva già scartato prima dell’inizio della kermesse come ci dice “Panorama” del 9 giugno. Ma allora perché il Primo Ministro ha voluto comunque mettere in piedi una rappresentazione come quella degli Stati Generali, dandole poi un nome così impegnativo, storico se si pensa alla Rivoluzione francese. L’operazione, a mio avviso, c’è stata eccome, ed è stata tutta politica. Quello che vuole Confindustria lo abbiamo visto, ed è simile a quello che vogliono le altre associazioni datoriali. Ma in Italia vi è un altro centro di potere, d’importanza planetaria, e dotata di piena indipendenza decisionale. La Curia romana, che governa 1,313 miliardi di fedeli in tutto il mondo (dati Vatican News aggiornati alla fine del 2017), ha un problema oggettivo imposto dalla storia e dalla geografia: la sua sede principale è nella città di Roma da oltre 2.000 anni. Il Vaticano si è sempre dovuto occupare delle vicende italiane suo malgrado: dalla gestione della caduta dell’impero romano d’occidente, alla disputa con gli imperatori tedeschi in Italia, all’ascesa del “miscredente” Napoleone Buonaparte, alla gestione del Recovery Fund da parte del governo italiano. Ma forse non tutti sanno che la curia romana è anche un “think tank” senza uguali nel mondo, e che possiede una esperienza storica “stratificata” dalla sua millenaria tradizione che la dota di una capacità di analisi e previsione politica che nemmeno i più noti circoli strategici anglo-sassoni possiedono. La crisi pandemica dello scorso anno ha convinto il Vaticano dell’urgenza di ricostruire un partito di centro d’ispirazione cattolica, affatto liberale, ma ispirato alla dottrina sociale della Chiesa. In altre parole, occorre ricostruire qualcosa che sia il più possibile simile alla Democrazia cristiana (compito non facile) e che si posizioni in antitesi all’ideologia liberista che ha ormai dilapidato tutta l’eredità dei decenni di economia mista, portando il paese sull’orlo del baratro. La curia romana è legata oggettivamente all’Italia anche da innumerevoli interessi economici, finanziari e patrimoniali; un governo amico che facesse partecipare alla spartizione del Recovery Fund le innumerevoli organizzazioni cattoliche (scuole, ospedali, centri di assistenza, terzo settore eccetera) sarebbe assai gradito. Questo è un altro “dettaglio” sfuggito al rapporto Colao. E siccome la strategia i cardinali la sanno fare bene, ecco l’“epifania” di un uomo privo di una storia politica, legato al mondo cattolico per percorso personale, e dotato di uno spiccato “talento democristiano”. Non si può negare che Giuseppe Conte sia provvisto in abbondanza di questo talento, visto che ha dimostrato di saper governare ineffabilmente con i partiti di quasi tutto l’arco costituzionale. Ma non basta. L’uomo è certamente un possibile “puledro di razza” (come scordare i celebri cavalli di razza DC Aldo Moro ed Amintore Fanfani, ai quali è d’obbligo aggiungere Giulio Andreotti honoris causa), ma è formalmente privo di un partito e quindi bisognoso di persone potenti e preparate che lo circondino, lo proteggano, lo guidino. Queste persone di alto lignaggio democristiano ci sono ancora oggi, compatibilmente con lo scorrere del tempo. Ne possiamo intravedere almeno tre: Romano Prodi (tramite l’“ufficiale” di collegamento Domenico Arcuri), più defilato Paolo Gentiloni commissario europeo per gli affari economici e monetari, ed ovviamente il presidente della Repubblica Sergio Mattarella (altrimenti non si governa, sostenuto da 13 diversi gruppi parlamentari da destra a sinistra, coi gabinetti Conte I e Conte II). In occasione degli Stati Generali i rappresentanti delle parti sociali sono sfilati davanti al Presidente del Consiglio: Confindustria, Sindacati, Enti Locali, leader politici, imprese e banche, mondo della cultura. Tutti hanno ricevuto lo stesso messaggio: la politica di tradizione democristiana, con i suoi pregi e difetti, si palesa a tutti voi che ci passate davanti; l’era dei vostri amici, i Berlusconi con la sua corte dei miracoli ed i D’Alema con i suoi emuli, è definitivamente tramontata; una nuova DC sta sorgendo per assumersi il compito di salvare l’Italia ed, ovviamente, di gestire i 209 miliardi del Recovery Fund. Non deve quindi sorprendere come Giuseppe Conte sia diventato il bersaglio di coloro che hanno partecipato agli Stati Generali, e neppure il fatto che il governo sia caduto in questi giorni. Cacciare Giuseppe Conte da Palazzo Chigi, e non importa nulla che ciò accada durante la seconda ondata pandemica, è fondamentale prima che i democristiani provenienti da tutti gli schieramenti si ricompattino nel nome del nuovo centro cattolico, del Recovery Fund, e dell’elezione del nuovo presidente della Repubblica. Questi sono i tre temi veri della politica italiana del 2021.

 

Il significato del Recovery Plan per gli italiani: un piano probabilmente irrealizzabile

Ipotizziamo ora che il Recovery Plan non sia un libro di favole, ma sia un serio tentativo di cogliere "un'occasione irripetibile che non va sprecata", come ha dichiarato il commissario europeo Paolo Gentiloni il 17 giugno 2020. Ebbene esiste il probabile rischio che il Recovery Fund non sia realmente spendibile; vediamo per quali motivi. La Commissione indica dei settori specifici per l’utilizzo dei soldi europei, lo abbiamo visto nella definizione del fondo. Il 12 gennaio scorso, il Consiglio dei ministri ha approvato la nuova bozza del Recovery Plan italiano, che nella nuova versione è di 222,90 miliardi di Euro, una cifra superiore ai 209 miliardi assegnati all’Italia: 13,30 miliardi vengono quindi messi dal governo. Il piano italiano rielabora i settori che la Commissione vuole beneficiare con i fondi, trasformandoli in 6 “missioni”. Vediamo quali sono e cerchiamo di capire perché, allo stato attuale, i soldi sarebbero inutilizzati oppure spesi male. La prima missione è chiamata “Digitalizzazione” e prevede 46,18 miliardi così suddivisi: 11,45 miliardi per la digitalizzazione, innovazione e sicurezza nella pubblica amministrazione, 26,73 miliardi per il sistema produttivo e 8 miliardi per l’innovazione nel turismo e cultura. Il fattore principale della digitalizzazione del paese passa attraverso la rete connettiva nazionale. In Italia questa rete è finita nelle mani degli operatori privati, che non hanno mai garantito investimenti adeguati, sfruttando tutti una rete vecchia ed insufficiente, costituita dalla preesistente rete telefonica, altrettanto sfruttata ed obsoleta. Le vie ad alta velocità sono limitate alle zone densamente popolate, e nemmeno tutte, dove minimi investimenti privati hanno avuto subito un ritorno economico. Le zone dove gli operatori privati hanno avuto minore interesse ad investire, per motivi economici o per scelte industriali, hanno una velocità di trasmissione dati inadeguate, e tecnicamente sono chiamate aree bianche, o significativamente “aree a fallimento di mercato”. Le zone dotate di reti wi-fi pubbliche sono scarse sia qualitativamente che quantitativamente. Affidare al settore privato la gestione della rete digitale ha collocato l’Italia agli ultimi posti in Europa per efficienza ed efficacia. La Commissione europea, sempre lei, effettua il calcolo dell’Indice di digitalizzazione dell’economia e della società (Desi), basandosi su quattro parametri: connettività, capitale umano, l’uso di internet da parte dei cittadini, l’integrazione e lo sviluppo delle tecnologie digitali in ambito aziendale e dei servizi pubblici. Limitandoci al solo parametro di connettività, l’Italia si pone al 17° posto in Europa. Poniamoci ora la consueta domanda: perché mai affidare alle medesime aziende private, che hanno gestito male la rete fino ad oggi, i soldi previsti del Recovery Fund dovrebbe mutare la situazione? Al capitolo Rivoluzione verde e transizione ecologica spetta la cifra ragguardevole di 68,90 miliardi così suddivisi: Impresa Verde ed Economia Circolare 6,30 miliardi; Transizione energetica e mobilità locale sostenibile 18,22 miliardi; Efficienza energetica e riqualificazione degli edifici 29,35 miliardi; Tutela e valorizzazione del territorio e della risorsa idrica 15,03 miliardi. Allo scenario di partenza possiamo conferire gli stessi aggettivi che abbiamo visto per la rete digitale: una situazione generale caratterizzata da obsolescenza, sfruttamento ed inadeguatezza. A differenza della missione digitale, però, in quella ambientale siamo di fronte ad una pletora di enti pubblici che si dividono in modo disorganizzato, caotico e spesso sovrapposto le competenze: dal Ministero dell’Ambiente, alle Regioni, alle Province/Città metropolitane, fino a giungere ai Comuni. Dal punto di vista degli operatori esistenti, quelli principali sono le “multiutility” pubbliche locali (A2A, Hera, Iren eccetera), accompagnate da una moltitudine di piccole aziende private ed avendo alle spalle due importanti player pubblici come ENI ed ENEL. Su tutto e tutti campeggia una legislazione demagogica, che prevede pene severe per piccoli errori formali e burocratici, ma che ben poco ha permesso di fare, ad esempio, per contrastare le ecomafie ed i fenomeni stile Terra dei fuochi. Risultato: la pianura padana è tra le zone maggiormente inquinate d’Europa; in Italia esistono ancora le discariche a causa dello scarso numero di forni d’incenerimento, la gestione della differenziazione e del ciclo dei rifiuti è accettabile in alcune zone mentre in altre si sprofonda scandalosamente (vedi la gestione dei rifiuti a Roma), la rete di distribuzione idrica è vetusta ed afflitta da perdite d’acqua sopra la media europea, e di esempi se ne potrebbero fare molti altri. Ma soprattutto, se esiste un settore dove la politica corrotta e le mafie si intrecciano spesso e volentieri è proprio quello ambientale. Questa missione è veramente attuabile? Veniamo alla mobilità sostenibile che beneficerà di 31,98 miliardi: 28,30 miliardi per Alta velocità ferroviaria e manutenzione stradale e per 3,68 miliardi per Intermodalità e logistica integrata. Poche parole da spendere per questa missione. Per la parte ferroviaria il player potrebbe funzionare, Ferrovie dello Stato, ma la politica indicata dal governo decisamente no. Stiamo ancora progettando tratte di alta velocità per lucrare su biglietti sempre più cari, quando proprio questi mesi di Pandemia hanno dimostrato che il problema è la rete ferroviaria locale, i pochi treni per i pendolari, il materiale rotabile anche qui sfruttato all’osso ed ormai superato. Per quanto riguarda la rete stradale, la vicenda dei ponti che crollano è esemplare per inquadrare un problema noto: il fallimento della politica delle concessioni che si nasconde dietro l’alibi della voluta inefficienza dell’ANAS, ed oltre allo scandalo dei pedaggi autostradali ingiustificabili, è incredibile che soldi pubblici vadano a sistemare la rete autostradale per poi restituirla al beneficio di coloro che l’hanno ridotta a pezzi (questo è il vero significato politico del tanto decantato modello Genova). Istruzione e ricerca 28,49 i miliardi previsti di cui 16,72 per potenziamento delle competenze e diritto allo studio e 11,77 per il passaggio dalla ricerca all’impresa. La scuola è un altro settore in difficoltà, soprattutto per quanto riguarda la sua edilizia, alla quale daremo due aggettivi già usati: sfruttata e vetusta. Aggiungiamo un’osservazione doverosa per un paese che immancabilmente fa il contrario di quello che dice: chi oserebbe negare che l’istruzione è un diritto fondamentale ed imprescindibile per i bambini ed i ragazzi. Eppure è ormai un anno che studenti universitari ed alunni delle scuole superiori non fanno più lezioni “in presenza”, come si suol dire, con un minimo di regolarità: “ovviamente” non per colpa delle scelte errate del governo, ma a causa Coronavirus. Occorre prestare attenzione a questo “giochino” molto italico: privarci progressivamente dei diritti fondamentali, giurando di farlo in modo provvisorio. La storia italiana del secondo dopoguerra ci insegna che non c’è nulla di più definitivo di qualcosa definito temporaneo. È noto l’esempio dell’inno nazionale, adottato in via provvisoria il 12 ottobre 1946, e rimasto tale per 71 anni fino ad un apposito decreto del 25 ottobre 2017. Una sottolineatura merita la ricerca, soprattutto quella pura, che in Italia è unicamente universitaria, essendo l’impresa privata allergica a spendere soldi anche per quella applicata. Difficile immaginare di usare bene 11,77 miliardi senza una profonda riforma della ricerca pubblica, evitando la perenne precarietà dei ricercatori e combattendo il fenomeno della fuga dei cervelli, scandalosamente sottopagati e precari nel nostro paese. Una cosa però è certa: non è dando i soldi ai “baroni” delle numerose università, attenti a promuovere propri famigliari e clientele, oppure agli (im)prenditori che promettono di fare ricerca, che questi soldi verranno bene investiti; ma a tutt’oggi i player del settore sono proprio loro. Inclusione e coesione 27,62 i miliardi previsti: 12,62 per Politiche per il Lavoro; 10,83 per Infrastrutture sociali, famiglie, comunità e terzo settore; 4,18 per Interventi speciali di coesione territoriale. Nel paragrafo sullo “scenario di riferimento” abbiamo ampiamente descritto cosa si è realmente fatto per la politica del lavoro negli ultimi trent’anni: precariato e compressione di salari e diritti. Sfugge cosa si intenda oggi per politiche del lavoro: il lavoro prima lo si crea e poi lo si impiega. Se si fa il contrario si rischia di leggere notizie come le seguenti (Tgcom del 22 gennaio 2021) “I "navigator" manifesteranno il 9 febbraio a Roma in piazza Montecitorio e in altre città per chiedere il rinnovo del proprio contratto, in scadenza ad aprile... “Il paradosso è notevole: nemmeno coloro che dovrebbero trovare il lavoro agli altri (notoriamente senza successo) riescono a mantenere il proprio. Salute: sono confermati i fondi, già aumentati, per 19,72 miliardi. Di questi, 7,9 vanno per Assistenza di prossimità e telemedicina e 11,82 per Innovazione, ricerca e digitalizzazione dell’assistenza sanitaria. In questi mesi di Pandemia abbiamo assistito alle conseguenze di decenni di smantellamento della sanità pubblica a favore di quella privata, non stiamo qui a disquisire sull’ignominiosa fine del tanto propagandato modello lombardo. Solo un’osservazione sull’effettiva volontà del governo di investire in questo settore. Si è discusso del fondo MES per gli investimenti nella sanità pubblica, venendo resi edotti che la cifra necessaria al sistema è di 36 miliardi. Tralasciamo le ragioni del rifiuto per le sospette condizionalità (cioè gli obblighi di restituzione), e poniamoci la seguente domanda: perché la prima versione del Recovery plan prevedeva solo 9 miliardi, causando una sollevazione generale, e la seconda versione aumenta lo stanziamento a solo 19,72 miliardi, se la cifra correttamente individuata è di 36? Siamo certi che il governo, al di là del fiume di parole sulla necessità d’investire in uomini, donne e strutture sanitarie, è realmente interessato a farlo?

 

Il significato del Next Generation UE per Bruxelles: la necessità di fare debiti

Abbiamo descritto parzialmente in quale stato l’Italia si appresta a ricevere una quantità di soldi maggiore rispetto a quelli del Piano Marshall di fine anni quaranta. Una classe politica impresentabile, una burocrazia che si classifica al terz’ultimo posto tra i paesi OCSE nel 2018 per qualità ed efficienza (Quality of Government Index dell’Università di Goteborg), una classe (im)prenditoriale storicamente incapace di fare intrapresa ad un livello appena superiore a quello di piccola e media impresa; tutti costoro dovrebbero dare una svolta epocale ad un paese stremato da trent’anni di liberismo. Anche se la politica è l’arte del possibile, come motteggiava Otto von Bismarck, credere che così tanti soldi (209 miliardi di euro) possano essere spesi bene in così poco tempo (si prevede la totale erogazione entro il 2026) da così pessime persone è difficile a credersi. Non lo crediamo noi e, a mio avviso, non lo credono neppure a Bruxelles, sia perché si leggono spesso titoli come il seguente: “Il salto di qualità della mafia foggiana: “Truffa da 13 milioni su fondi Ue grazie a funzionari pubblici compiacenti”. 48 arresti a Bari” (Il Fatto Quotidiano 27 ottobre 2020), sia perché in Belgio hanno molte maggiori informazioni in questo senso rispetto a quelle di cui possiamo disporre noi. Allora come si spiega questo deciso salto di qualità nella politica di sostegno ai paesi ex PIGS da parte di una commissione che ha sempre prestato orecchio ai paesi “frugali”, scettici sulla capacità di “redenzione” dei paesi mediterranei, che sono i maggiori beneficiari dei fondi? Partiamo dalle ragioni più ovvie, ma meno importanti, per poi giungere a quelle più nascoste, ma più determinanti. L’uscita della Gran Bretagna dall’Unione ha lasciato, di fatto, alla Germania la leadership europea; Berlino deve “solo” trovare l’intesa politica con Parigi per determinare l’agenda dell’Unione. Lasciare al proprio destino paesi come l’Italia, la Spagna, la Grecia, il Portogallo coloro che sono stati maggiormente provati dalla crisi economica, significherebbe correre il rischio di compromettere definitivamente l’Unione, ed i tedeschi ne sarebbero i principali responsabili, pagando il dazio del temutissimo “accerchiamento”, già conosciuto molte volte nel corso del XX secolo. Al contrario, una politica decisa di aiuti ai paesi in difficoltà, a prescindere dal fatto che le ragioni delle loro crisi siano endogene oppure esogene alla Pandemia, e sapendo benissimo di correre il rischio di “buttare” i soldi in una sorta di buco nero, determina il risultato di compattare i membri intorno al progetto europeo e, all’interno dei singoli paesi, di marginalizzare le posizioni euro scettiche. Questa, ad esempio, è la ragione per la quale la Lega Nord di Matteo Salvini non è poi così convinta ad andare alle elezioni anticipate, nonostante le dichiarazioni di facciata, mentre il movimento democristiano in fasce di Giuseppe Conte si fa chiamare “europeisti”. Bruxelles vuole dare ai cittadini europei la sensazione di essere al sicuro all’interno delle “mura” dell’Unione europea, mentre nel resto del mondo impazza la Peste Nera del Covid-19 e dei debiti. Ma la ragione più profonda dell’operazione Next Generation UE, e che dà un senso a questo strano titolo, è l’urgente necessità di “stampare” euro per evitare una crisi fatale con gli Stati Uniti. Nel solo 2020 il governo di Washington ha deliberato un deficit di 4.226 miliardi di dollari, portando il debito federale a 27.856 miliardi contro un PIL stimato di 20.445 miliardi circa. La valutazione del PIL della zona Euro di fine anno passato si sta assestando intorno ai 14.098 miliardi di dollari ma con un debito, seppur elevato, di 13.290 miliardi circa (11.000 miliardi di euro, dati Eurostat), quindi meno della metà del debito USA. Questi numeri estremamente sintetici nascondono l’enorme potenziale inflazionistico che è insito nel dollaro, e che sta per aumentare ulteriormente a seguito dell’annuncio del neo Presidente Joe Biden di varare un nuovo piano di aiuti (leggi debiti) per 1.900 miliardi. Ormai il dollaro è solo una cambiale inesigibile, che viene accettata perché garantita dalle poderose forze armate americane. Ma il rischio di una fuga di massa dal dollaro è sempre dietro l’angolo, e l’euro è indiziato come principale moneta rifugio, proprio per il migliore rapporto tra debito e PIL dei paesi della zona a moneta unica. La spinta inflazionistica potenziale del biglietto verde si è già vista lo scorso anno: il cambio euro/dollaro al 1° gennaio 2020 era di 1,14, il cambio un anno dopo è stato di 1,21. Sono tuttavia valori “politici”, cioè addomesticati dal mercato valutario per evitare che il dollaro deflagri, perché in tale caso l’Europa correrebbe due seri rischi. Il primo pericolo potrebbe essere quello che il governo americano “molli” il dollaro al suo destino speculativo, permettendo una sorta di “bombardamento” di biglietti verdi privi di reale valore sulle economie della zona euro. Se questo accadesse il cambio potrebbe salire oltre quota 2 dollari per 1 Euro, causando un probabile tracollo delle esportazioni europee nel resto del mondo. Vicende di “bombardamenti” di dollari su altre valute ritenute pregiate le abbiamo già osservate negli ultimi anni: a questo riguardo è opportuno citare la vicenda del franco svizzero nel 2015, quando fu costretto ad abbandonare il cambio fisso con l’euro di 1,20, sollecitato da enormi richieste di moneta provenienti dall’area dollaro. In poche settimane la valuta elvetica decollò nei confronti di euro e dollaro, guadagnando il 40% e gettando nel panico tutta l’economia rossocrociata. Per calmierare tale impennata, la Banca centrale svizzera dovette stampare franchi a rotta di collo, allo scopo di calmierarne l’aumento di valore, ed alla fine vi riuscì ma non senza difficoltà. Esiste anche la possibilità che la perdita di valore del dollaro nei confronti dell’euro diventi inarrestabile, che sottenda cioè un rifiuto dei mercati valutari nei confronti del biglietto verde; in tal caso la reazione degli Stati Uniti sarebbe molto più dura. L’amministrazione Biden potrebbe cercare di provocare una guerra in Europa, ad esempio tra Turchia e Grecia, oppure tra Ucraina e Bielorussia, con l’obiettivo di coinvolgere subito le principali potenze europee, attraverso il giogo della NATO, e possibilmente anche la Russia, permettendo agli stessi americani di scendere in campo: sarebbe la terza guerra mondiale per l’ennesima volta su suolo europeo. Occorre tenere presente che la difesa del dollar-standard è la principale missione delle forze armate USA nel mondo, ed un euro finanziariamente sano rischia di diventare un avversario da abbattere. Tale consapevolezza è, a mio avviso, alla base della decisione di Bruxelles di “fare debiti” ad ogni costo, consapevoli di dare soldi ai noti “furbi” italiani, pur di evitare che il rapporto di cambio con la moneta più indebitata del mondo diventi un casus belli: ecco che la definizione di Next Generation UE acquista un senso politico più delineato.

 

Una proposta alternativa è possibile

Osservare la politica dei paesi democratici occidentali fa spesso pensare al celebre passaggio del Manifesto del Partito comunista di Marx ed Engels: “Il potere statale moderno non è che un comitato che amministra gli affari comuni di tutta la classe borghese”. Se poi focalizziamo l’attenzione sull’Italia, questo comitato di classe si è manifestato ai nostri occhi durante le giornate degli Stati Generali. Eppure non vi è nulla di inevitabile nelle scelte politiche, ed anche nel caso dell’utilizzo del Recovery Fund un’alternativa al probabile scempio di risorse potrebbe esserci. Basta guardare alla storia economica italiana. Non è la prima volta che l’Italia si è trovata di fronte al baratro economico: è successo nel 1930, quando anche in Europa giunsero le conseguenze della grande crisi americana del ‘29; è successo agli inizi degli anni cinquanta, quando l’incapacità dei nostri (im)prenditori stava facendo pagare alla popolazione il conto salato della disoccupazione di massa. In entrambi i casi, due regimi opposti tra loro, quello fascista e quello democratico, diedero la stessa risposta: incaricare l’Istituto di Ricostruzione Industriale di salvare l’economia del paese, lo abbiamo visto nel precedente articolo sul ruolo del PCI nella storia economica italiana. Anche oggi, 2021, l’Italia si trova nella medesima, se non ancor più grave, crisi economica. Ma a differenza dei due precedenti, oggi ci sarebbe subito un ingente capitale iniziale disponibile. Non si tratta di riproporre quell’IRI, non vi sono più le condizioni e soprattutto quegli uomini eccezionali. Si tratta di recuperare quel modello di intervento pubblico, una forma virtuosa di capitalismo di stato, che si faccia carico di rilanciare l’economia del paese avendo a disposizione un ragguardevole capitale iniziale, declinandolo all’attuale situazione. Quanto meno dobbiamo porre il tema all’attenzione della pubblica opinione, e sono certo che le solite superficiali obiezioni dei maggiordomi del potere: non è possibile farlo, sarebbe un ritorno al passato, erano carrozzoni che perdevano soldi; dopo aver provato per trent’anni cosa sia il liberismo, sarebbero facilmente rispedite al mittente.

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