Print Friendly, PDF & Email

alternative

L’incerto futuro dell’Europa

di Alfonso Gianni

matrignaL’ormai celebre sofagate di Ankara non è stato solo un incidente diplomatico o uno strappo alle regole più comuni del galateo, ma ha assunto un significato ben più profondo. Ha rappresentato, con la plastica evidenza del posizionamento dei corpi - quelli di Ursula von der Leyen, che sta a capo della Commissione europea, e di Charles Michel, presidente del Consiglio europeo - una domanda di per sé non nuova, ma aggravata dalla durezza dei tempi: che cosa è l’Unione europea? Semplicemente, come in effetti la intendono la maggior parte delle elite nazionali, un’organizzazione internazionale votata alla soddisfazione di obiettivi e interessi economici? O qualcosa di più, meglio di diverso, almeno in nuce, ovvero un soggetto politico e istituzionale capace di agire in modo unitario e riconoscibile a livello internazionale? E in ogni caso funziona o no il sistema di governance che lungo gli anni la Ue è andata costruendosi?

Sappiamo da tempo che l’idea della costruzione dell’Europa fondata su una convergenza economica, che poi avrebbe partorito strada facendo le sue strutture politiche ha avuto fin dai suoi primi passi la netta prevalenza sugli ideali di Ventotene, sia dal punto di vista teorico (si pensi alle elaborazioni e ai modelli funzionalisti di Jean Monnet o di David Mitrany) che pratico. Tuttavia il volgere del secolo ha messo in fibrillazione l’intero impianto che su quei principi era fondato.

In particolare il non semplice rapporto fra il Consiglio europeo, formato dai capi di governo nazionali, e la Commissione europea, i cui membri devono singolarmente ottenere il gradimento da parte del Parlamento europeo ed essere formalmente indipendenti dallo Stato da cui provengono. Il Trattato di Lisbona ha cercato in qualche modo di aggiustare questo implicito dualismo facendo del Consiglio europeo un organo esecutivo collegiale con un presidente eletto dai suoi membri per un mandato della durata di due anni e mezzo, eventualmente rinnovabile per una sola volta. E gli ha attribuito il compito di fornire “la rappresentanza esterna dell’Unione per le materie relative alla politica estera e di sicurezza comune”1. Al contempo però il Trattato ha ribadito il ruolo di organo esecutivo per quanto riguarda la Commissione, attribuendole l’onere della gestione delle politiche commerciali e degli aiuti internazionali. Gli stessi governi nazionali si rivolgono alla Commissione quando devono affrontare tematiche presumibilmente divisive, quale è certamente il tema del ruolo della Turchia sulla questione dei migranti e dei rifugiati siriani in particolare. Nel caso dell’incontro di Ankara i ruoli dei due presidenti dei due organi venivano inevitabilmente a sovrapporsi e a confondersi. Peraltro all’interno di una scelta del tutto sbagliata, quale quella di affidare alla Turchia addirittura la “protezione” delle frontiere europee. Si potrebbe osservare che un simile pasticcio si sarebbe potuto evitare in base al semplice buon senso. Ad esempio attraverso un accordo preventivo fra Michel e la von der Leyen, che avrebbe potuto evitare a uno dei due il viaggio, avendo peraltro parecchio da fare a Bruxelles per raddrizzare una campagna vaccinale nata storta, e ad entrambi mortificazioni e figuracce. Ma proprio quando una soluzione così semplice non si realizza è segno che il contrasto e la confusione istituzionale sono arrivati a un punto insostenibile.

 

L’intervento della Corte di Karlsruhe

Naturalmente il sofagate e quello che ha significato e rappresentato è solo la classica punta dell’iceberg che segnala tematiche e problemi ben più grossi a drammatici. Le decisioni assunte nel luglio del 2020, quali la messa in mora del Patto di stabilità e crescita, poi allungata a tutto il 2022, la formazione di un debito comune, l’alimentazione del bilancio non solo attraverso le contribuzioni pro quota di ogni singolo stato membro, ma attraverso una tassazione sovrannazionale, l’emissione di titoli di credito europei, sono stati certamente un passo in avanti, forse una vera svolta, che hanno fatto crollare alcuni mantra quali quello dell’austerità e del freno all’indebitamento.

Ma tali indispensabili cambiamenti sono ben lungi dall’essere stati effettivamente realizzati e gli assetti politico istituzionali della costruzione europea sono rimasti inalterati, se non addirittura ribaditi e rafforzati, come la dimensione intergovernativa. Gli stessi prestiti e sovvenzioni da erogare nell’ambito della Next Generation Eu devono in ultima analisi essere approvati dal Consiglio europeo, avendo la Commissione solo un diritto di proposta. Inoltre il contrasto con i paesi “frugali” e quelli del gruppo di Visegrad si sono intensificati anziché smorzarsi.

A questo si è aggiunto l’inciampo, per ora superato, della Corte costituzionale tedesca. Ad essa si erano rivolti 2280 cittadini, capeggiati dall’ex leader dell’Afd Bernd Lucke sostenendo che i 750 miliardi della Ng-Eu avrebbero comportato una “condivisione del debito” a livello comunitario da essi considerato estraneo alle norme dei Trattati e portatore del rischio di esporre la Germania a “rischi finanziari incalcolabili”. Conseguentemente la Corte di Karlsruhe aveva bloccato il Recovery Fund ordinando al presidente federale Frank-Walter Steinmeier di non ratificare la legge che era stata appena approvata dai due rami del Parlamento tedesco sulle nuove “risorse proprie”, indispensabili per il finanziamento del bilancio europeo, in attesa di un pronunciamento sui ricorsi presentati.2 Una seria battuta d’arresto lungo un processo che aveva visto 16 sui 27 paesi della Ue ratificare la decisione sulle “risorse proprie” (Ord)3. Senza il via libera di tutti i parlamenti nessun aiuto potrà giungere da Bruxelles.

Non è la prima volta che Karlsruhe si mette di mezzo, anche se le decisioni della Corte non hanno finora raggiunto conseguenze concrete. L’esempio più famoso fu quando i giudici dichiararono illegali gli stimoli monetari messi in campo per fronteggiare la crisi da parte della Bce, allora guidata da Mario Draghi, intimando alla Bundesbank di ritirarsi dal programma di acquisto di titoli pubblici dei paesi dell’Eurozona, il che però non è avvenuto.4 In questo caso la Corte ha per ora respinto il ricorso, in quanto “un esame sommario non rivela una forte probabilità di violazione della legge costituzionale”, come si può leggere nel suo sito Internet. La Corte, quindi, proseguirà il suo esame, ma ha respinto la richiesta di sospensione di urgenza avanzata dai ricorrenti. Ciò non ha impedito a Paolo Gentiloni di salutare questa decisione come “un grande passo in avanti sulla strada del piano europeo di Recovery”, ma sta di fatto che in questo modo i tempi di approvazione di Ng-Eu vengono ulteriormente ritardati, mentre sono premiate le tattiche dilatorie di quei paesi che ancora non hanno espresso un assenso. Questo rischia di fare slittare la conclusione delle approvazioni da parte dei parlamenti nazionali alla seconda metà dell’anno in corso. Successivamente la Commissione europea potrà muoversi per raccogliere le risorse nei mercati finanziari e per introdurre le nuove eventuali tassazioni a livello europeo, avanzando una proposta che dovrà essere sottoposta e approvata sia dal Consiglio europeo che dal Parlamento. Intanto la crisi pandemico-economica avanza con il suo carico di morti e di nuovi poveri. Anche questo “inciampo” dimostra che i vincoli degli attuali Trattati vanno rimossi e va rivisto l’impianto della governance su cui poggia la struttura europea.

 

Gli insuccessi e i ritardi della vaccinazione in Europa

Gli effetti di tutto ciò si sono immediatamente fatti sentire sulla conduzione del contrasto alla pandemia e sulla campagna vaccinale in particolare. La Ue ha voluto per sé il rapporto con le grandi corporations farmaceutiche, sperando così di scavalcare in autorevolezza ed efficienza i singoli stati. Il tutto, però, in ossequio ai principi del libero scambio. Ma le cose non sono affatto andate meglio. La Ue non è stata capace, o non ha voluto, almeno fino in fondo e con la necessaria determinazione, ingaggiare un braccio di ferro con il settore privato. Quindi la Commissione europea ha firmato con big pharma accordi tutt’altro che trasparenti e vantaggiosi.

Il j’accuse di Manon Aubry nei confronti dell’operato della Commissione europea, nell’aula quasi deserta del parlamento europeo per le misure precauzionali antipandemiche, ha fatto il giro del mondo grazie al video circolato sui social5. Ma le critiche non sono piovute solo da sinistra. Per quanto Boris Johnson abbia dichiarato di avere fatto ricorso “all’avidità e al capitalismo per avere i vaccini” e Joe Biden abbia voluto, o dovuto, ricorrere all’avvertimento, in sé scorretto ma efficace, del “siamo in guerra”, non si possono negare i migliori risultati nella campagna vaccinale da parte di Inghilterra ed Usa rispetto alla Ue. Un fine analista delle questioni europee come Sergio Fabbrini ha commentato che “in Europa la politica dei vaccini non ha funzionato perché chi potrebbe meglio gestirla (la Commissione europea) non ha il potere per farlo, mentre chi ha il potere (il Consiglio europeo) non ha la capacità di farlo.”6

Da qui ha preso forse le mosse lo sfogo di Mario Draghi: “Se il coordinamento non funziona, allora l’Italia andrà avanti da sola”, ma si è trattato finora di una boutade più che una minaccia e come tale è stata interpretata dagli altri leader europei. Un altro commentatore attento alle vicende europee, come Carlo Bastasin invoca la necessità di un decisore unico, di un governo comune a livello europeo: “La pandemia non sembra avere insegnato la sua dura lezione: i ritardi europei nell’acquisto dei vaccini sono in parte dovuti all’assenza di un bilancio in comune adeguato da utilizzare per finalità condivise. Il mancato passaggio dalle regole al governo comune, dai limiti nazionali alle politiche europee. Lo stiamo pagando in vite umane”7. Parole dure anche in questo caso, ma si deve notare che il grande tema della sospensione, quanto meno, della validità dei brevetti in questa crisi pandemica non viene preso in considerazione, perché questo richiederebbe di mettere sotto accusa la proprietà intellettuale in un sistema ove tale tipo di proprietà è determinante per i suoi assetti. Il contrasto fra pubblico e privato si manifesta in tutta la sua potenza, conservativa o trasformatrice, a seconda del modo con cui viene risolto. Ed avviene non nei singoli stati, ma a livello europeo o meglio mondiale.

Nel nostro paese siamo fermi addirittura al conflitto di competenze fra Stato e regioni che ha ulteriormente rallentato e complicato la campagna vaccinale. Eppure l’articolo 120 della nostra Costituzione - malgrado i guasti provocati nel rapporto fra competenze statali e regionali dall’infausta “riforma” del Titolo V - darebbe allo Stato ampia possibilità di assumere direttamente su di sé la tutela della salute dei cittadini specialmente nei casi di pericolo grave per la medesima.8 Ma invece ci troviamo in una sorta di Medioevo infinito, per usare una brillante formulazione di Isaia Sales a commento di un brano di Gaetano Filangieri: “’Cos’è la feudalità? E’ una specie di governo che divide lo Stato in tanti piccoli Stati, la sovranità in tante piccole sovranità, la giustizia in tante giustizie’. Il nostro Medioevo infinito continua oggi sotto le vesti del regionalismo”.9

Il ritardo accumulato in campo sanitario e il deteriorarsi rapido della situazione economica a livello europeo – non solo in Italia la situazione occupazionale è drammatica, con 945mila posti di lavoro perduti fra il febbraio 2020 e il febbraio 202110- spingono ormai molti analisti e responsabili politici a considerare non solo in pericoloso ritardo l’erogazione delle sovvenzioni e degli aiuti europei, ma insufficiente la loro misura, per quanto a tutti solo qualche mese fa pareva straordinaria. L’espressione più comune, almeno da noi, era che non si vedeva una simile massa di soldi arrivare in Italia dai tempi del piano Marshall del secondo dopoguerra. Ora in particolare i paesi mediterranei sembrano decisi a chiedere di aumentare la portata del Recovery Fund, una volta terminato il percorso di ratifica già ricordato da parte di tutti e 27 gli Stati membri. Pare che Draghi sia della partita e nel frattempo insiste sulla creazione di un titolo europeo, un safe asset garantito dagli Stati membri della Ue.11 Dal canto suo Emmanuel Macron si sarebbe già espresso in questo senso, mentre ovviamente il silenzio regna a Berlino.12

 

Usa e Ue a confronto

In effetti gli interventi europei si rimpiccioliscono se messi al confronto con quelli messi a disposizione dall’amministrazione Biden negli Usa. Dopo l’approvazione di un piano di contrasto alla pandemia di 1.900 miliardi di dollari, Biden ha presentato un progetto che prevede di potenziare le infrastrutture del paese in 15 anni del valore di 2.300 miliardi di dollari. Ma non è solo la quantità quella che conta. Uno dei tratti caratteristici di questo ambizioso progetto sta proprio nell’estensione del concetto di infrastrutture. Non vengono prese in considerazione solo le strade, le ferrovie, i ponti, gli impianti e le strutture industriali e neppure la sola banda larga. Ma anche la rete di competenze del personale e un sistema di cure domiciliari agli anziani e alle persone ritenute fragili entrano a fare parte a pieno titolo nel capitale pubblico. Accanto a ciò il piano si concentra su ricerca e sviluppo per attrarre negli Usa capitali e per cercare di invertire il declino trentennale degli investimenti pubblici di cui sono stati responsabili tanto i repubblicani quanto i democratici.

Come è noto la diminuzione della quantità e della qualità degli investimenti pubblici non è certo un fenomeno che riguarda solo gli Usa, ma è stata presente, seppure in differenti misure, in tutte le economie cosiddette avanzate. L’ultimo rapporto del World Economic Forum evidenzia che gli Usa sono scalati dal 2010 in poi al 13° posto per ciò che concerne la qualità delle infrastrutture. Si può calcolare che tale derubricazione sia dovuta a circa 1250 miliardi di dollari di investimenti in meno. A questo stato di fatto la nuova amministrazione statunitense intende reagire mettendo a disposizione un maxifinanziamento da investire in settori ritenuti strategici. Nel dettaglio: 621 miliardi andranno al potenziamento della rete dei trasporti, puntando con decisione sulla mobilità elettrica, la quale verrà facilitata da una rete di circa 500mila colonnine di ricarica entro il 2030. 689 miliardi serviranno alla manutenzione di infrastrutture civili e per il settore edilizio per il quale si prevede l’uso di tecnologie sostenibili. E’ in questo quadro che trovano posto sia il rimodernamento della rete degli acquedotti che delle scuole pubbliche. 580 miliardi verranno invece indirizzati direttamente verso la ricerca e la formazione del personale nei settori industriali a maggiore valore aggiunto. Nel contempo 400 miliardi serviranno per creare una rete capillare di cure domiciliari per persone anziane o fragili. Come ha osservato Marcello Minenna l’obiettivo è quello “di contrastare il declino di lungo termine della popolazione attiva, integrando nel mercato del lavoro tutte le attività di long term care ora svolte nelle residenze per anziani da familiari o da personale in nero, magari non adeguatamente formato”.13 Una misura lungimirante, almeno sulla carta, in vista di un invecchiamento della popolazione che cambierà gli equilibri demografici, di cui la politica sociale e la stessa economia devono tenere conto.

 

Le posizioni e il ruolo di Bernie Sanders

Non è difficile intravvedere in questa positiva modificazione del concetto stesso di infrastruttura, l’influenza del pensiero e delle parole di Bernie Sanders, il quale, in una mailing list che raggiunge donne e uomini di ogni parte del mondo, ci scrive: “Vi è un secondo tipo di crisi infrastrutturale, una crisi che va oltre i mattoni e la malta e che è stata ignorata per troppi anni: la nostra infrastruttura umana fatiscente e inadeguata … In qualità di Presidente della Commissione bilancio del Senato, lavorerò non solo per garantire la fornitura delle risorse necessarie per ricostruire la nostra infrastruttura fisica, ma altresì quella umana a lungo trascurata.” E per evitare che qualcuno non comprenda appieno cosa intende dire, lo chiarisce nei seguenti punti, che conviene riportare per intero:

“1. Infrastruttura significa assicurarsi che le famiglie a basso reddito che lavorano, abbiano gli alloggi sicuri e adeguati di cui hanno bisogno. Ciò significa costruire e ammodernare milioni di unità abitative.

2. Infrastruttura significa che quando madre e padre vanno a lavorare, i figli ricevano un'assistenza all'infanzia di alta qualità a un costo economicamente sopportabile. Ciò significa passare all'istruzione prescolare universale.

3. Infrastruttura significa che in un'economia globale competitiva dobbiamo avere la forza lavoro più istruita del mondo e che tutti i nostri giovani, indipendentemente dal loro reddito, abbiano diritto a un'istruzione superiore. Questo si traduce in college e università pubbliche senza tasse scolastiche ponendo fine all’indebitamento degli studenti.

4. Infrastruttura significa che negli Stati uniti, quando ti ammali, hai il diritto di andare da un medico e ottenere i farmaci da prescrizione di cui hai bisogno. Non possiamo continuare a far morire 68.000 persone all'anno inutilmente perché queste non possono permettersi l'assistenza sanitaria nel paese più ricco della terra, ora collocato al 39°posto per aspettativa di vita. Passare all’assistenza sanitaria universale significa comprendere che le cure mediche sono un diritto umano, non un privilegio.

5. Infrastrutture significa che non possiamo più essere l'unico grande paese al mondo a non farsi carico del congedo familiare e medico. È inconcepibile che all'indomani di una pandemia, si insista ancora sul fatto che le persone vadano a lavorare ammalate senza aver la capacità di prendersi cura delle loro famiglie in difficoltà.

6. Infrastruttura significa rispettare i nostri anziani, la generazione che ci ha cresciuto. È inaccettabile che molti milioni di americani in età avanzata, oggi abbiano seri problemi odontoiatrici, oculistici e di udito. Questo è il motivo per cui dobbiamo espandere Medicare per coprire cure dentistiche, apparecchi acustici, occhiali e abbassare l'età minima di ammissione al programma a Medicare a 55 anni.”

 

L’impatto delle novità fiscali Usa a livello internazionale

L’attuazione del American Rescue Plan non dovrebbe essere finanziato a debito. Del resto gli Usa già registrano un 15% sul Pil di deficit (era solo il 5% due anni fa) e un debito che sta raggiungendo il 150% e secondo alcuni economisti, come il premio Nobel per l’economia 2019, condiviso con sua moglie Esther Duflo e Michael Kremer, Abhijit Banerjee potrebbe essere rischioso spingersi oltre su quella strada.14 Quindi, come chiede anche Sanders in modo ben più radicale, vi è bisogno di giustizia fiscale e di un incremento delle entrate. Da qui potrebbero giungere rilevanti novità che non riguardano solo l’imposizione fiscale statunitense, ma avrebbero conseguenze dirette a livello internazionale.

La tassazione delle imprese e la loro misura sta diventando in queste ultime settimane argomento di dibattito internazionale e potrebbe portare a decisioni significative anche nell’incontro dei ministri delle Finanze e i governatori delle Banche centrali degli Stati membri del G20 che si terrà a Venezia tra il 7 e l’11 luglio 2021. Finora il livello della tassazione delle imprese era andato costantemente diminuendo. Negli ultimi 40 anni, ovvero da quando le dottrine neoliberiste hanno conquistato l’egemonia a livello mondiale, le aliquote dell’imposta sugli utili societari sono diminuite senza interruzione. Nel 1980 la percentuale fiscale media a livello mondiale era stimata pari al 40,11%. Attualmente invece il tasso legale medio si attesta al 23,85%, quindi con una riduzione di ben il 41%. Questo è stato il risultato di una lotta di classe condotta a livello globale dalle forze dominanti del capitalismo che ha allargato enormemente le differenze e le ingiustizie sociali.

Durante l’attuale pandemia abbiamo assistito all’incremento degli utili di quelle imprese multinazionali legate al digitale, alla fornitura di servizi e alla comunicazione a distanza, nonché alla fabbricazione e distribuzione di vaccini e farmaci. Hanno potuto sfruttare una enorme crescita della domanda indotta dalla pandemia e dalle misure costrittive assunte per contrastarla, ma sono state soprattutto favorite dalla possibilità di potere pagare le tasse laddove minore è la pressione fiscale. Le denunce contro i paradisi fiscali o le tassazioni ultraridotte non si contano, perché non costano nulla dal momento che dalle parole non si è mai passati ai fatti. Gli enormi vantaggi fiscali per le multinazionali hanno potuto contare sulle contraddizioni interne alla costruzione europea. Tra queste vi è indubbiamente quella che, da un lato, l’adozione di una moneta unica inibisce la possibilità di ricorrere a svalutazioni competitive, dall’altro è pienamente consentita la competizione sul piano fiscale. Nella Ue il problema non ha mai trovato soluzione poiché, tra gli altri motivi, vi è quello che sulle decisioni da assumere in materia fiscale vige il principio dell’unanimità dei paesi membri e quindi funziona il potere di veto in particolare di alcuni piccoli paesi, quali l’Irlanda, il Lussemburgo e i Paesi Bassi, interessati ad attirare investimenti esteri favoriti dalle basse tassazioni.

Ora però le posizioni che vengono dall’altra parte dell’Atlantico potrebbero cambiare la situazione (l’uso del condizionale in una materia come questa è d’obbligo). Joe Biden, d’intesa con Yanet Allen, a capo del Tesoro, ha scompigliato le carte avanzando due proposte di forte impatto. La prima consiste nel fatto che le multinazionali paghino le tasse in base a quanto fatturano in ogni paese. Il cambiamento sarebbe radicale, in quanto attualmente Alphabet (cui fa capo Google), Apple, Microsoft. Amazon, per citare alcune delle multinazionali più note e che hanno incrementato considerevolmente i loro profitti in questa crisi pandemico-economica, pagano le tasse ove sono domiciliate, ovvero nei paesi con le imposte nominali, ma soprattutto reali tra le più basse. La seconda concerne l’introduzione di una minimum tax globale al 21%. L’aliquota di per sé non è sconvolgente, come si può vedere. Né dovrebbe essere posta in alternativa alla tassazione degli utili effettivamente realizzati dalle multinazionali, né alla Web tax, alla Carbon tax o alla giusta riproposizione della Tobin tax sui movimenti di capitali a scopo speculativo.

Attualmente sono almeno 35 i paesi che applicano aliquote fiscali tra lo zero assoluto e il 12,5%. Il rapporto dello scorso dicembre della Tax Foundation, un think tank fondato a Washington nel 1937 da influenti manager americani, ci racconta che sono ben 15 i paesi che non prevedono imposte sugli utili societari (tra cui le Bahamas, il Bahrain, le Bermuda, gli Emirati arabi uniti). Mentre altri Stati applicano un’aliquota inferiore al 12,5%, fra cui l’Irlanda e l’Ungheria che l’ha recentemente ridotta dal 10% al 9%. Ma a questo dato dobbiamo aggiungere che vi è notevole differenza tra l’aliquota ufficiale e quella realmente praticata, a causa di deduzioni, detrazioni e gli accordi contro la doppia imposizione fiscale, in sé giusti, ma che spesso finiscono per evitare qualsiasi tassazione, come ci ha documentato uno studio del maggio del 2020 dell’Osservatorio sui conti pubblici italiani dell’Università Cattolica di Milano, come è noto diretto da Carlo Cottarelli. Rimanendo in Europa, fanno scuola il caso dell’Irlanda ove in luogo dell’aliquota del 12,5%, si è scesi persino allo 0,005%, o quello del Lussemburgo dove dal 25% ufficiale si è scesi anche del 99% raggiungendo un irrisorio 0,3%; oppure quello dell’Olanda che dal nominale 25% giunge al concreto 2,44%; o il Belgio dove si può arrivare a scendere dal 29% al 2,9%. I “paesi frugali”, appunto.

 

Unificare le principali regole fiscali a livello mondiale

Ma tutto ciò deriva da una improvvisa resipiscenza del capitalismo americano? Non proprio. Biden ha prospettato non molti giorni fa l’intenzione di portare le imposte sulle società dal 21%, dove erano precipitate grazie a Trump, al 28%. Un recupero solo parziale rispetto alla situazione pre Trump (quando l’aliquota dell’imposta sulle società era al 35%), ma già tale da scatenare le ire e i pianti delle corporations statunitensi, dei repubblicani e anche di qualche democratico “moderato”. In sostanza Biden, ripercorrendo le orme di Franklin Delano Roosvelt, intende fare pagare alle imprese almeno una parte dell’ingente progetto di spesa statale messo in cantiere per fronteggiare la crisi e rilanciare l’economia statunitense. Nel contempo però deve evitare che gli utili, a partire da quelli delle grandi corporations, se ne vadano all’estero. Deve perciò se non sconfiggere perlomeno fronteggiare la concorrenza fiscale che permette ai paesi di cui sopra di attirare le imprese americane e quindi tagliare le unghie ai paradisi fiscali.

Tutto questo non può riuscire – se verrà effettivamente tentato – se non uniformando a livello mondiale almeno alcune delle più importanti regole fiscali, segnatamente per quanto riguarda la tassazione sugli utili delle imprese. E la riunione del G20 del prossimo luglio diventa un passaggio strategico lungo questa strada. E’ evidente che il ruolo della Ue potrebbe rivelarsi determinante. Dal momento che nell’accordo di luglio 2020, che ha aperto le porte alla realizzazione, ancora in fieri, del Recovery Fund, si prevede che esso debba venire finanziato non solo dai trasferimenti degli stati membri nel bilancio europeo, ma da una capacità di imposizione fiscale a livello sovrannazionale e dalla emissione di Eurobonds.

Mario Draghi, presidente di turno del G20, avrebbe fatto sapere di essere d’accordo sulla introduzione di una tassa minima sulle aziende. Vedremo.

 

La necessaria riforma fiscale nel nostro paese

Intanto dovrebbe realmente preoccuparsi di avviare una seria riforma fiscale nel nostro paese che rispetti pienamente il principio costituzionale della progressività, che in questi ultimi decenni è stato eroso dalle leggi e leggine di argomento fiscale che si sono succedute nel frattempo. Inoltre, vista la rilevante patrimonializzazione della ricchezza italiana, il tema di una patrimoniale, connessa con una congrua franchigia che eviti di colpire i meno abbienti, non può più essere dilazionato e tantomeno evitato. Persino i milionari si dichiarano, almeno a parole, favorevoli all’introduzione di una patrimoniale e comunque di una tassazione più equa, quindi progressiva. Tale è lo scandalo, si potrebbe dire, delle enormi differenze sociali e reddituali che l’attuale crisi ha incrementato. Non si tratta però di un sussulto etico, ma di un’analisi della inefficacia dei regali fiscali per ciò che riguarda l’andamento dell’economia (non certo per le tasche di alcuni fortunati). Una recente ricerca della London School of Economics ci dice che negli ultimi 50 anni, in 18 paesi Ocse, i tagli fiscali effettuati a favore delle situazioni più agiate non hanno portato alcun aumento della competitività e del Pil, e che quindi, anche da un punto di vista prettamente capitalistico, si sono rivelati inefficaci quando non dannosi.

Per quanto riguarda il caso italiano un recente sondaggio ha capovolto la vulgata del terrore per la introduzione di una tassa patrimoniale. Millionaires for Humanity (un gruppo di multimilionari provenienti da più parti del mondo, di cui fa parte Abigal Disney, ereditiera della Walt Disney) insieme a Tax Justice Italia hanno recentemente commissionato un sondaggio che ha fornito esiti che per alcuni sono risultati sorprendenti. Il 66% della popolazione italiana, due cittadini su tre quindi, sarebbero favorevoli alla proposta di un’imposta annuale aggiuntiva dell’1% del patrimonio totale per chi detiene un patrimonio superiore agli 8 milioni di euro. Naturalmente passare dai sondaggi alla realizzazione di una legge al riguardo non è cosa semplice. Ma intanto questa rilevazione statistica ci dice che l’argomento non è così impopolare come fin qui si è voluto fare credere. Dipende da come lo si presenta, come lo si finalizza e come lo si fa.

Sarebbe utile quindi non considerarlo un tabù ma farne oggetto di un dibattito aperto. Invece siamo completamente fermi alle dichiarazioni programmatiche rese al Parlamento da Mario Draghi in occasione della richiesta di fiducia al suo governo. Come si sa in quella occasione Draghi non fece altro che infilare nel suo scarno discorso qualche riga dell’amico di famiglia, poi nominato consigliere a Palazzo Chigi, ovvero Francesco Giavazzi, che faceva riferimento alla necessità di formare una commissione di esperti che mettesse mano alla riforma fiscale. Non proprio un’ideona, dal momento che gli esperti non mancano, ma va dato loro un chiaro indirizzo su cosa lavorare. Da allora non se ne è saputo più niente. Anzi, non sono ignoti gli scetticismi al riguardo del ministro dell’economia Daniele Franco, fedelissimo del presidente del Consiglio, che a denti stretti ha ultimamente dichiarato che se ne parlerà nel secondo semestre dell’anno, senza precisare in quale direzione il governo intende muoversi e certo il pur limitato condono fiscale già concesso dal governo Draghi non è un buon prequel.

 

La conferenza sul futuro dell’Europa

Dopo i rinvii dovuti alla pandemia, il 10 marzo è stato dato il via alla Conferenza sul futuro dell’Europa, sulla base di una dichiarazione comune del presidente del Parlamento europeo, David Sassoli, del Consiglio europeo, Antonio Costa, della presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen. I prodromi di questa Conferenza vanno ricercati nel tentativo di Valery Giscard d’Estaing, nella sua qualità di presidente della Convenzione europea (2002-2003) di elaborare un Costituzione europea che venne però affossata dal no al referendum in Francia e in Olanda. Si giunse poi alla firma del Trattato di Lisbona (2007) che puntualizzando le competenze fra Stati membri e la Ue, si metteva di traverso a un cammino verso un’unione di tipo federale.

La Conferenza prende di nuovo le mosse dalla sponda francese e si presenta con una metodologia di discussione aperta al dialogo con i cittadini europei. Sembra quindi sia stata compresa la lezione della Costituzione fallita, anche perché partorita nel chiuso di una congregazione di esperti – molti dei quali peraltro ottimi – senza un coinvolgimento “sentimentale” e una partecipazione attiva da parte dei cittadini europei. Già il titolo della dichiarazione comune “Dialogo con i cittadini per la democrazia – Costruire un’Europa più resiliente” evidenzia l’enfasi posta su una partecipazione attiva diffusa, in particolare dei giovani. Ognuno potrà esprimere delle proposte attraverso una piattaforma digitale multilingue15 e “un meccanismo di feedback garantirà che le idee formulate durante gli eventi connessi alla conferenza si traducano in raccomandazioni concrete per le future azioni dell’Ue”. La conferenza, che si riunirà in sessione plenaria ogni sei mesi, dovrebbe concludere i suoi lavori sotto la presidenza francese della Ue, nella primavera del 2022, pandemia permettendo.

 

Le diverse posizioni sul futuro dell’Europa

Un impianto ambizioso, come si vede, cui però non corrisponde una unanime prospettiva sugli obiettivi da raggiungere. L’oggetto del contendere può essere riassunto nella questione della modificazione dei Trattati. Il testo della dichiarazione non ne parla, al contrario dei suoi stessi firmatari che si esprimono apertamente in questa direzione, come David Sassoli: “Siamo oggi fermamente impegnati a garantire il seguito concreto delle raccomandazioni e delle conclusioni che la Conferenza produrrà. E’ essenziale che questo esercizio porti ad azioni concrete, cambiamenti legislativi, cambiamenti di trattati, se questo è desiderato e auspicabile. Ci impegniamo a non avere tabù e a fare in modo che i risultati possano offrire una visione reale del nostro progetto europeo. E’ in gioco la nostra credibilità come rappresentanti eletti, è in gioco il nostro futuro e il futuro delle nostre democrazie”16. Parole impegnative che sono state ribadite da Sassoli anche in altre occasioni.17 Naturalmente non manca il controcanto. Dodici paesi (Austria, Repubblica Ceca, Danimarca, Estonia, Finlandia, Irlanda, Lettonia, Lituania, Malta, Olanda, Slovacchia e Svezia) in un loro documento hanno subito chiarito che bisogna salvaguardare l’attuale “equilibrio inter-istituzionale, compresa la divisione delle competenze”.18

Lo scontro interno alle classi dominanti dell’Europa è quindi aperto fra chi vuole modificare gli stessi trattati, non più considerati intoccabili, per adattarli alla nuova situazione economica e politica e chi vi si aggrappa con tutte le forze per mantenere lo status quo ante la attuale crisi. Intanto si moltiplicano le dichiarazioni di economisti che vogliono mettere in soffitta i famosi parametri di Maastricht, come ad esempio Philippe Martin, Jean Pisani Ferry e Xavier Ragot autori di uno studio per conto del Conseil d’analyse économique (Cae), un centro-studi che procede ad analisi sulle questioni economiche di interesse del governo francese, assai attivo in questa fase in tema d’Europa, visto anche l’incipiente venir meno del protagonismo di Angela Merkel. Lo studio propone di rinunciare all’obiettivo di un rapporto deficit/Pil al 3% e sostituire la soglia del rapporto debito/Pil del 60% con un plafond diverso per ogni singolo paese. Sulla base della convinzione che: “La crisi del Covid ha reso ancora più evidente il decalage tra questo quadro di regole e la realtà. Il consensus intellettuale su questo tema è che le regole non hanno più niente a che vedere con il mondo di Maastricht”19

Bisognerebbe evitare che questo scontro veda quali unici protagonisti settori comunque interni alle elite di potere e al sistema capitalistico e che invece la sinistra europea ne approfitti per qualificare e avanzare le sue proposte per un altro modello di società. Funzionando da terzo incomodo. Per intenderci con un esempio solo il Green New Deal non può diventare un green washing o una impact economy, per usare neologismi inglesi che si riferiscono ad ecologismi di facciata o al tentativo della finanza privata di darsi obiettivi etici, sociali e ambientali. Altrimenti assisteremo per l’ennesima volta alla dimostrazione, per dirla con le parole di Giorgio Lunghini, che “la capacità di mutare forma per conservare la propria sostanza è la caratteristica principale del capitalismo”.20


Note
1 Trattato sull’Unione europea (Tue), art. 15.6
2 Nella sua risoluzione del 23 luglio 2020, il Parlamento ha sottolineato che soltanto la creazione di nuove risorse proprie supplementari può aiutare a rimborsare il debito dell'Ue, salvando al contempo il bilancio dell'Ue e alleviando la pressione fiscale sulle tesorerie nazionali e sui cittadini europei. Il 16 settembre 2020 il Parlamento ha espresso il suo parere nel quadro della procedura di consultazione sulla proposta di decisione del Consiglio. Il parere ribadisce la richiesta di introdurre nuove risorse proprie sulla base di una tabella di marcia e di abolire tutte le correzioni.
Il 10 novembre 2020, il Parlamento, il Consiglio e la Commissione hanno raggiunto un accordo politico sul Qfp, le risorse proprie e alcuni aspetti relativi alla governance dello strumento per la ripresa. L'accordo comprende un nuovo allegato all'accordo interistituzionale tra il Parlamento europeo, il Consiglio e la Commissione sulla disciplina di bilancio, sulla cooperazione in materia di bilancio e sulla sana gestione finanziaria, nonché su nuove risorse proprie, che stabilisce una tabella di marcia per l'introduzione di nuove risorse proprie nel periodo 2021-2027. Le entrate provenienti dalle nuove risorse proprie devono essere sufficienti a coprire il rimborso di Next Generation EU, mentre le entrate eccedenti l'importo necessario per il rimborso dovrebbero finanziare il bilancio dell'Unione, in linea con il principio dell'universalità. In base a tale calendario vincolante, la Commissione è tenuta a presentare proposte entro giugno 2021 per nuove risorse proprie basate su un meccanismo di adeguamento del carbonio alla frontiera, un'imposta digitale e un sistema di scambio di quote di emissione riveduto (da introdurre entro il 1o gennaio 2023), e a presentare proposte entro giugno 2024 su nuove risorse proprie supplementari che potrebbero comprendere un'imposta sulle transazioni finanziarie e un contributo finanziario collegato al settore societario (eventualmente una nuova base imponibile comune per l'imposta sulle società). Ai sensi della nuova decisione sulle risorse proprie adottata il 14 dicembre 2020, le riduzioni per alcuni Stati membri sono mantenute e le spese di riscossione trattenute sui dazi doganali sono aumentate dal 20% al 25%.
3 Vedi la nota precedente
4 Malgrado la inefficacia pratica delle sue decisioni la Corte di Karlsruhe è al centro delle attenzione di tutti coloro che hanno voluto e vogliono bloccare una politica di aiuti verso paesi membri della Ue in difficoltà. Ben noto è il caso dell’avvocato Peter Gauweiler, sempre pronto a denunciare i presunti comportamenti illegali della Bce nella crisi del debito. Un giornale tedesco, la Suddeutsche Zeitung, scoprì a suo tempo che il suddetto avvocato aveva ricevuto ben dodici milioni di euro in consulenze dal barone miliardario von Fink come compenso per avere, tra l’altro, tentato di fermare i “pacchetti di salvataggio” per la Grecia e non certo a protezione degli interessi di quest’ultima, come riferisce l’Huffington Post del 27 marzo 2021.
5 Manon Aubry è copresidente del gruppo parlamentare della Sinistra Unitaria Europea/Sinistra Verde Nordica dal luglio 2019. Il video si trova su https://www.youtube.com/watch?v=uXDIwr9GvwQ
6 Sergio Fabbrini “Vaccini, la Ue vada oltre il coordinamento fra i governi nazionali”, Il Sole 24 Ore del 28 marzo 2021 che osserva anche che “Non solo i Trattati europei non prevedono la condivisione delle competenze in campo sanitario, ma potenti forze domestiche spingono per preservare le competenze nazionali, sia nei grandi che nei piccoli paesi”
7 Carlo Bastasin, “La trappola della diversità” in la Repubblica del 17 aprile 2021
8 Non è forse superfluo, di questo tempi, riportare per esteso almeno il passaggio essenziale del secondo comma dell’art. 120 Cost: “Il Governo può sostituirsi a organi delle Regioni, delle Città metropolitane, delle Province e dei Comuni nel caso di mancato rispetto di norme e trattati internazionali o dalla normativa comunitaria oppure di pericolo grave per l’incolumità e la sicurezza pubblica, ovvero quando lo richiedono la tutela dell’unità giuridica o dell’unità economica e in particolare la tutela dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali, prescindendo dai confini territoriali dei governi locali”
9 Isaia Sales “il nostro Medioevo infinito” in la Repubblica del 13 aprile.
10 Vedi i dati Istat diramati il 6 aprile: https://www.istat.it/it/archivio/lavoro
11 Tommaso Ciriaco e Roberto Mania “La mossa di Draghi ‘Nuovo patto e eurobond per uscire dalla crisi’” in la Repubblica del 26 marzo 2021
12 Adriana Cerretelli “Una Europa che arranca dietro Biden” in Il Sole 24 Ore dell’8 aprile 2021
13Marcello Minenna “Infrastrutture per la crescita globale” Il Sole 24 Ore 11 aprile 2021
14 Eugenio Occorsio, intervista a Abhijit Banerjee “Tasse giuste contro le disparità, è arrivato il momento di provarci” in Affari&Finanza del 19 aprile 2021
15 https://futureu.europa.eu/?locale=it
16 Vedi Angela Mauro “La conferenza sul futuro dell’Ue parte zoppa” in Huffpost 10 marzo 2021
17 Vedi la registrazione video di un webinar inserito nel ciclo La lezione del 2020. Spunti per il futuro. Quasi un festival, 16-18 aprile 2021, “L’Europa e il nodo del debito” domenica 18 aprile ore 10.00 Alfonso Gianni (introduzione), David Sassoli, Juan Mena Arca, Antonella Stirati, Vincenzo Visco: https://youtu.be/BFcL7aL5Gg0
18 La versione inglese del documento è reperibile al seguente link:
https://www.permanentrepresentations.nl/documents/publications/2021/03/24/non-paper-on-the-conference-on-the-future-of-europe
19 Lo riferisce, da Le Monde, la rubrica “Effetto Mondo” a cura di Giulia Crivelli in il Sole 24 Ore del 16 aprile 2021
20 Michel Aglietta - Giorgio Lunghini Sul capitalismo contemporaneo, Bollati Boringhieri, Torino 2001

Add comment

Submit