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Walter Benjamin, un pensiero per tempi bui

di Dario Gentili

Il filosofo morto 80 anni fa è un'icona, nonostante la complessità del suo pensiero. Ciò accade perché, anche in una fase in cui non parevano esserci vie di fuga dall'oppressione, intravide la possibilità di invertire il corso della storia

Walter Benjamin jacobin italia 2 1536x560Le ricorrenze rappresentano talvolta l’occasione per strappare – per qualche settimana o per qualche mese – all’oblio o a una trasmissione affidata esclusivamente agli specialisti il pensiero e l’opera di un autore. Quella della rammemorazione delle ricorrenze – se non godono di per sé di una celebrazione già solennemente imbastita – è un esercizio a cui si è dedicato anche Walter Benjamin. A ottant’anni dalla sua morte, tuttavia, il suo non è certo il caso di un pensatore scomparso dai radar delle mode culturali (e dunque non solo accademiche) e di cui ci si augura o si promuove la riscoperta. Anzi, a partire dagli anni Sessanta (vale la pena ricordare che, in vita e fino ad allora, era un autore praticamente disconosciuto), Benjamin è uno dei pochi filosofi che ha oltrepassato i confini dei circuiti accademici per far capolino non di rado nella cosiddetta cultura popolare. È stato ed è fonte d’ispirazione se non oggetto di film, rappresentazioni teatrali, romanzi, racconti, dipinti, e la sua stessa immagine è stata riprodotta – per mezzo di quella «riproducibilità tecnica» che lui indicò come destino dell’arte – in vari stili e fattezze. Per non parlare della frequenza con cui le citazioni tratte dai suoi scritti campeggiano ovunque, dalle mostre d’arte alle pagine Facebook. E sarebbe da rilevarne l’ironia della sorte per un pensatore i cui scritti sono stati spesso tacciati di oscurità ed ermetismo, aspetto che tra l’altro fece da argomento per la sua bocciatura all’abilitazione per l’accesso all’università tedesca (ben prima che il suo essere ebreo potesse comunque precludergliela).

Ora, non si tratta affatto di denunciare snobisticamente l’abuso del suo pensiero laddove tale utilizzo non sia suffragato da sufficiente conoscenza e competenza. Sarebbe anzi una posizione, questa, molto poco benjaminiana, considerando come per lui la riproducibilità tecnica dell’opera d’arte avesse un potenziale rivoluzionario e come fosse una delle prerogative del comunismo – l’ha definita «politicizzazione dell’arte» – affermare una tecnica che fossero le grandi masse a padroneggiare piuttosto che esserne disciplinate e governate. Non da meno vedeva nelle forme d’espressione all’epoca più pop – Charlie Chaplin, Mickey Mouse, il jazz – una portata sovversiva e le anticipazioni di quell’«uomo nuovo» che avrebbe dovuto soppiantare il soggetto borghese.

Detto ciò, resta il fatto che oggi Benjamin è diventato una sorta di icona. Ma icona di cosa, che cosa il suo pensiero e la sua figura sono arrivati a rappresentare? Di certo la sua morte – suicida a Portbou in fuga dai nazisti, appunto ottant’anni fa – ha contribuito a farne un simbolo della resistenza estrema contro il nazifascismo e poi di tutti i profughi perseguitati (così, «profugo», lo definì Bertolt Brecht in una poesia dedicata alla sua morte). Eppure, difficile sarebbe stabilire che cosa la sua vita è chiamata a simboleggiare per quanto – a suo dire – fosse dominata suo malgrado dai dispetti della sorte (che attribuiva a un «omino con la gobba», personaggio delle filastrocche della sua infanzia berlinese) e – soprattutto nel suo esilio parigino – dalla precarietà lavorativa ed esistenziale di freelance, perennemente alla ricerca del miglior compromesso tra le richieste della committenza e ciò che delle sue concezioni non era negoziabile. Fosse stato per lui avrebbe trascorso un’esistenza da studioso minuzioso da spendere per la gran parte nelle biblioteche di quelle metropoli nella cui folla desiderava rendersi invisibile e sparire. E se non bastasse, a proposito delle Affinità elettive di Goethe, ha sostenuto categoricamente che mai la vita dell’autore deve spiegarne l’opera. Insomma, se i posteri hanno elevato la sua morte a simbolo, mai avrebbe concesso che lo diventasse la sua vita. E allora cosa è chiamata a suscitare l’icona «Walter Benjamin»? Se sarebbe da evitare – per rispetto, ripeto, verso una sua inequivocabile presa di posizione teorica – che lo sia la sua vita, una valenza iconica la riveste paradossalmente proprio il suo pensiero: la postura teorica e politica del suo pensiero.

Quello di Benjamin è un pensiero per tempi bui: per quei tempi in cui l’oppressione e l’ingiustizia non solo risultano insopportabili e non sembra lascino alcuna via di scampo o di fuga, ma sono diventati norma sociale. Il suo è il pensiero dell’imprevista chance rivoluzionaria, della possibilità estrema di salvezza, dell’ultima speranza che balena nella più cupa disperazione. Ecco perché, tra l’altro, la sua vita e soprattutto la sua morte non possono rappresentare il senso della sua opera; anzi, il suo pensiero sembra si ponga come redenzione della sua stessa morte. Non a caso la ricerca di Benjamin si focalizza sulle «epoche di decadenza», in quanto è in esse che va a rintracciare e far emergere le potenzialità ancora inespresse, che reclamano l’attualizzazione nel presente. E tale attualizzazione – in cui si compenetrano conoscenza storica e prassi politica – ha una portata rivoluzionaria, in grado di invertire il corso della storia, dettato dal continuum del dominio dei vincitori, il cui corteo trionfale calpesta e destina all’oblio la memoria di generazioni di sconfitti. Ebbene, questo cumulo di ingiustizia e oppressione che costituisce la storia è di per sé già sufficiente perché ogni attimo sia propizio per la rivoluzione, già adesso la potenza del passato può essere messa in atto nel presente. L’attesa dello sviluppo delle condizioni oggettive per la rivoluzione deve precipitare nell’istantaneità della rivolta, che trova il suo innesco in quelle congiunture in cui il progresso – il continuum della storia – incappa in punti ciechi e arresti, regredisce, e pertanto le stigmatizza come epoche di decadenza.

Epoche di decadenza sono state oggetto dei suoi lavori (il Seicento tedesco in Dramma barocco tedesco; la Parigi della «controrivoluzione» nel progetto sui passages e su Charles Baudelaire); ma epoche di decadenza e di crisi sono pure quelle che ha vissuto: la Prima guerra mondiale, la Repubblica di Weimar, l’avvento del nazifascismo. Benjamin scava nelle epoche di decadenza del passato per portarne alla luce i motivi più profondi per salvarli dalla damnatio memoriae che il progresso ha pronunciato, ma questa operazione da cronista o archivista non mira alla mera conservazione, bensì a rendere disponibili per il presente tali frammenti di passato affinché vi rintracci – per usare il termine a lui caro di Baudelaire – corrispondenze o, detto altrimenti, quell’«indice segreto» che, all’interno del continuum della storia, ne individua e collega i momenti di discontinuità. Insomma, lungi da Benjamin quell’atteggiamento borghese, accidioso e lamentoso, che ha definito – con una di quelle sue espressioni diventate ormai notorie – «malinconia di sinistra». Perché quello di Benjamin è sì un pensiero della chance rivoluzionaria in tempi bui, ma è altrettanto un’analisi delle ragioni per cui le rivoluzioni del passato non si sono realizzate o sono state sconfitte. Magari al tempo non erano ancora stati affinati gli strumenti per metterne a fuoco la fotografia (politica, sociale, economica, artistica), ma viene senz’altro quel tempo che ne rappresenta l’«ora della leggibilità», che afferra finalmente la fisionomia di quanto appariva in passato sfocato. Questo è il compito dello storico materialista, che così si pone a servizio della prassi politica.

Non è destinato soltanto al suo presente storico il lavoro di scavo nelle epoche di decadenza, che Benjamin ha condotto per farne emergere le potenzialità rivoluzionarie ancora da attualizzare. Se il suo pensiero ancora oggi ci sollecita e ci scuote dalla nostra malinconia di sinistra, è perché esso affida al punto di vista che si assume ora la capacità di cogliere la leggibilità del passato. Si tratta appunto di una postura ben situata nel presente, in quelle zone lasciate in ombra e ai margini dalla narrazione dominante, in quelle forme di vita che il carro dei vincitori lo vedono sfilare senza potervi prendere posto. E ai margini della strada, con il passare del tempo, ci si ritrova sempre più numerosi. Parlo ad esempio dei bohémiens di oggi, di tutti coloro a cui si concede, «nel migliore dei casi, di prendere parte al godimento, ma mai al potere». Sono parole, queste, con cui Benjamin descrive la condizione della Bohème nella Parigi di Baudelaire. All’epoca si trattava di una forma di vita minoritaria, escrescenza della vita metropolitana, che, in Il 18 brumaio di Luigi Bonaparte, Marx disprezzava definendola «schiuma di tutte le classi». E che però per prima ha fatto esperienza della mercificazione della sua forma di vita e della messa a valore capitalista del godimento. Potremmo tuttavia sostenere oggi che una frase come quella di Benjamin si attagli esclusivamente ad artisti, sfaccendati, eccentrici, dandy, outsider, opportunisti? Non si tratta piuttosto di una condizione comune e diffusa, quella di far parte del mercato del godimento? E in cambio del godimento (o della sua promessa), oggi come allora, la rinuncia alla politicizzazione della propria forma di vita. È quanto per Benjamin è accaduto a Baudelaire, il quale nel 1848 era dalla stessa parte delle barricate del proletariato capeggiato da Louis-Auguste Blanqui. Nella successiva fase controrivoluzionaria, però, si è venduto sul mercato, facendosi «impresario di sé stesso» (come non sentire risuonare in quest’espressione di Benjamin l’«imprenditore di sé stesso» con cui Michel Foucault definisce la soggettività neoliberale). Ecco, per Benjamin, uno dei motivi del fallimento della fase rivoluzionaria nella Francia dell’Ottocento è stato l’aver perso Baudelaire e la Bohème alla causa rivoluzionaria e comunista, lasciandoli preda del mercato. Una congiuntura «corrispondente» – l’ora della leggibilità della vicenda di Baudelaire e della Bohème – Benjamin la troverà poi nell’avvento del cinema, che avrebbe dovuto rappresentare quella «politicizzazione dell’arte» che le masse avrebbero dovuto condurre e invece – altra occasione perduta – la tecnica cinematografica è diventata strumento dell’industria capitalista.

Quelle di Benjamin sono diagnosi che hanno sempre valenza di prognosi. Riporto un brano ancora tratto dal lavoro su Baudelaire:

Nel momento in cui l’uomo, come forza lavoro, è merce, non ha certo bisogno di mettersi deliberatamente al posto della merce. Quanto più prende coscienza del fatto che questo suo modo di essere gli è imposto dal sistema produttivo – quanto più si proletarizza –, tanto più lo attraversa l’alito gelido dell’economia mercantile […]. Ma la classe dei piccolo borghesi cui apparteneva Baudelaire non era ancora arrivata a questo punto. Aveva solo iniziato la discesa della scala gerarchica di cui stiamo parlando. Molti suoi membri si sarebbero inevitabilmente accorti, un giorno, della natura di merce della loro forza lavoro.

Non suona forse – a noi oggi – questa prognosi di Benjamin come una diagnosi? Magari si fa ancora in tempo.


*Dario Gentili insegna filosofia morale all’Università Roma Tre. Ha scritto, tra le altre cose, Topografie politiche. Spazio urbano, cittadinanza, confini in Walter Benjamin e Jacques Derrida (Quodlibet, 2009), Italian Theory. Dall’operaismo alla biopolitica (il Mulino, 2012), Crisi come arte di governo (Quodlibet, 2018), Il tempo della storia. Le tesi Sul concetto di storia di Walter Benjamin (Quodlibet, 2019).

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